Metropolis secondo Luis Buñuel by cineblog

Molti appassionati di fantascienza e cult del calibro di Blade RunnerStar Wars, Brazil di Terry Gilliam o Agente Lemmy Caution missione Alphaville di Jean-Luc Godard, quanto di Terminator, Il quinto elemento, RoboCop, Matrix o Avatar, ignorano il contributo offerto a tutti dalla visionaria metropoli del futuro portata al cinema da Fritz Lang nella primavera del 1927.

La pesante eredità di una Metropolis del 2026, schiava di se stessa e delle macchine costruite per asservire la sua forza lavoro, in una distropica visione retro-futuristica dell’eterno divario tra casta dominante e proletariato, l’uomo e il suo doppio dis-umano, uomini annichiliti dalla macchina e macchine umane sfuggite al controllo.

La controversa visione di una società totalitaria nata nella Repubblica di Weimar, edificando Moloch che si nutrono di carne umana, mitizzate torri di Babele, robot rivoluzionari scatenati da scienziati follemente vendicativi, consapevolezze allucinate e identità ambigue, con Maria, vergine e androide, alla testa di una folla disumana.

L’imponente e costoso capolavoro del cinema espressionista che ha anticipato e nutrito quello di fantascienza, resistito all’amore di Hitler e l’avvento del sonoro, le intricate dinamiche distributive e del copyright, tagli, ritrovamenti e restauri.

Un valore capace di superare la semplificazione di concetti universali come lo sfruttamento capitalistico dell’uomo attraverso l’evoluzione industriale e tecnologica, di trascendere il controvaerso messaggio sociale scisso tra rivoluzione e riconciliazione che arriva dal cuore, l’unico mediatore tra mente e braccia, di reggere il confronto con la sperimentazione tecnica, attraverso effetti speciali inediti e tecniche di ripresa all’avanguardia, come l’uso degli specchi che inaugura lo Schüfftan Proces, per portare attori e una vera folla di comparse su set che non sono altro che miniature elaborate di paesaggi.

L’impatto visivo capacissimo di cavalcare le ossessioni del tempo e, a quasi un secolo di quello anticipato nel 1927, travolgere con la sinfonia del movimento di una Cattedrale di modernità, ampiamente avvertita oggi come nel 1927, da critici del film come Luis Buñuel

“… che travolgente sinfonia del movimento! Come cantano le macchine in mezzo a incredibili trasparenze, arcotrionfate dalle scariche elettriche! Tutte le cristallerie del mondo romanticamente dissolte in riflessi riuscirono ad annidarsi nel canone moderno dello schermo. Ogni acerrimo guizzo degli acciai, la ritmica successione di ruote, di pistoni, di forme meccaniche increate, sono un’ode mirabile, una poesia nuovissima per i nostri occhi.”

Una Metropolis divisa tra grattacieli del potere, fabbriche sotterranee e catacombe rivoltose, quanto la trama, frutto della collaborazione tra Lang e Thea von Harbou, lo è nel lungo “Prologo”, un breve “Intermezzo” e un “Furioso” finale (che allego tra gli approfondimenti per chi ne sente il bisogno, prima o dopo la visione del film), della quale esistono diverse versioni di lunghezza e tagli variabili.

Metropolis: il restauro

Dopo quasi novanta anni di versioni spurie e il pluridecennale lavoro di ricerca e ricostruzione condotto da Enno Patalas, la versione di Metropolis che sta arrivando al cinema e in DVD è il restauro più completo oggi esistente, realizzato nel 2010 da Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung e Deutsche Kinemathek in seguito al ritrovamento in Argentina di 25 minuti di pellicola ritenuti perduti, con la colonna sonora originale ricostruita di Gottfried Huppertz, eseguita da Rundfunk-Sinfonieorchester di Berlino e diretta da Frank Strobel.

Metropolis: sinossi

Nella città di Metropolis la società è divisa in due classi: un’elite oziosa che vive nei gratta­cieli e gli operai schiavizzati che faticano nel sottosuolo. A capo della città Joh Fredersen (Alfred Abel), che dall’alto della grande torre di Babele controlla le attività produttive. Suo figlio Freder (Gustav Fröhlich) vede casualmente emergere dalle profondità di Metropolis un gruppo di bambini poveri accompagnati da una giovane donna, Maria (Brigitte Helm). Colpito dalla miseria dei ragazzi e dalla bel­lezza di Maria, Freder li segue nel sottosuolo. Qui scopre lo spazio della fabbrica e assiste a un’esplosione che uccide un gran numero di operai. Dopo un drammatico confronto con il padre, decide di scambiare la propria vita con quella di un operaio.

Intanto Joh Fredersen viene a sapere di misteriosi documenti trovati nelle tasche degli operai morti. Allarmato, fa visita al suo antico rivale, lo scienziato Rotwang ( Rudolf Klein-Rogge), che gli mostra un robot di sua produ­zione. Gli rivela che i documenti sono in realtà le mappe di antiche catacombe scavate nel livello più profondo della città. I due scendono nelle catacombe dove spiano Maria mentre predica agli operai annunciando il prossimo arrivo di un “Mediatore” in grado di unire le classi. Fra gli operai, camuffato, c’è Freder. Dopo il sermone rivela a Maria di essere lui il predestinato.

Fredersen chiede a Rotwang di dare al robot le sembianze di Maria in modo da seminare di­scordia fra lei e gli operai. Rotwang cattura Maria trasformando l’automa in un suo doppio. Ma Rotwang cova nei confronti del tiranno di Metropolis un’antica vendetta, da quando questi molti anni prima gli aveva sottratto l’amata.

Per vendicarsi, programma il robot per distruggere la città. Quest’ultimo aizza la rivolta operaia: i lavoratori distruggono il genera­tore energetico, provocando l’inondazione della città e rischiando di far affogare i loro stessi figli. Freder e la vera Maria, finalmente libera, salvano i bambini dall’inondazione. Resisi conto di quanto fatto, gli operai catturano il robot e lo bruciano sul rogo.

Rotwang insegue la vera Maria sul tetto della cattedrale, Freder viene in suo soccorso e Rotwang viene ucciso. Riconciliatosi con il padre, Freder riesce a pacificare le classi della città.

Metropolis secondo Luis Buñuel

Metropolis non è un film unico: sono due film uniti per il ventre, ma con necessità spirituali divergenti, assolutamente antagonistiche. Quelli che considerano il cinema in quanto valido narratore di storie, patiranno con Metropolis una profonda delusione. Ciò che lì ci viene narrato è triviale, ampolloso, pedantesco, di un vieto romanticismo. Ma se all’aneddoto preferiamo lo sfondo plastico-fotogenico del film, allora Metropolis colmerà tutte le misure, ci stupirà come il più meraviglioso libro d’immagini che sia mai sta­to composto. Presenta, dunque, due elementi antitetici, detentori dello stesso segno nelle zone della nostra sensibilità. Il primo, che potremmo chiamare lirico-puro, è eccellente; l’altro, l’aneddotico o umano, finisce per essere irritante. Entrambi, ora simultaneamente, ora in successione, com­pongono l’ultima creazione di Fritz Lang. Non è la prima volta che notiamo un dualismo così sconcertante nelle ope­re di Lang. Esempio: nell’ineffabile poema Destino erano state interpolate delle scene disastrose, di un raffinato cat­tivo gusto. Se a Fritz Lang tocca il ruolo di complice, è sua moglie, la sceneggiatrice Thea von Harbou, che denuncia­mo come presunta autrice di questi esperimenti eclettici, di un pericoloso sincretismo.
Il film, come la cattedrale, doveva essere anonimo. Gente di ogni ordine, artisti d’ogni grado sono intervenuti per in­nalzare questa formidabile cattedrale del cinema moderno. Tutte le industrie, tutti gli ingegneri, folle, attori, addetti alle scene; Karl Freund, l’asso degli operatori tedeschi, con una pleiade di colleghi; scultori; (…). Lo scenografo, ulti­mo vestigio che il cinema ha ereditato dal teatro, qui interviene appena. Lo si indovina nelle parti peggiori di Metropolis, in quelli che vengono enfaticamente chiamati “giardini eterni”, di un barocchismo delirante, di un catti­vo gusto senza precedenti. Ormai lo scenografo sarà sosti­tuito, per sempre, dall’architetto. Il cinema sarà l’interprete fedele dei più audaci sogni dell’Architettura.
L’orologio, in Metropolis, non ha che dieci ore: quelle del lavoro; e in questo ritmo a due tempi si muove la vita della città intera. Gli uomini liberi di Metropolis tiranneggiano i servi, Nibelunghi della città, che lavorano in un eterno gior­no elettrico, nelle profondità della terra. Nel semplice in­granaggio della Repubblica, manca soltanto il cuore, il sentimento capace di conciliare degli estremi così incom­patibili. E nel finale vedremo il figlio del direttore (cuore) unire in un abbraccio fraterno suo padre (cervello) con il capo-fabbrica (braccio). Si mescolino questi ingredienti sim­bolici con una buona dose di scene terrificanti, con una re­citazione smisurata e teatrale, si agiti bene il composto ed avremo ottenuto l’argomento di Metropolis.
Eppure… che travolgente sinfonia del movimento! Come cantano le macchine in mezzo a incredibili trasparenze, ar­cotrionfate dalle scariche elettriche! Tutte le cristallerie del mondo romanticamente dissolte in riflessi riuscirono ad an­nidarsi nel canone moderno dello schermo. Ogni acerrimo guizzo degli acciai, la ritmica successione di ruote, di pi­stoni, di forme meccaniche increate, sono un’ode mirabi­le, una poesia nuovissima per i nostri occhi. La Fisica e la Chimica si trasformano miracolosamente in Ritmica. Non un momento di stasi. Perfino le insegne, che salgono e scen­dono girovaghe, poi dissolte in luci o svanite in ombre, si uniscono al movimento generale: anch’esse si fanno im­magine.
A nostro giudizio, il difetto del film sta nel fatto che il re­gista non ha seguito l’idea realizzata da Ejzenstejn nel suo Potemkin: vale a dire che non ci ha presentato quell’attore unico, eppure pieno di novità, di possibilità, che è la folla. L’argomento di Metropolis vi si prestava. Ci siamo sorbi­ti, invece, una serie di personaggi devastati da passioni ar­bitrarie e volgari, carichi di un simbolismo a cui non corrispondevano neppur lontanamente. Con ciò non si vuol dire che in Metropolis non ci siano folle; ma sembra, però, che rispondano a una necessità decorativa, di balletto gi­gantesco; esse vogliono ammaliarci con le loro stupende ed equilibrate evoluzioni piuttosto che farci capire la loro ani­ma, la loro precisa ubbidienza a stimoli più umani, più oggettivi. Malgrado ciò ci sono dei momenti – Babele, rivoluzione operaia, inseguimento finale dell’androide – in cui si realizzano perfettamente le due opposte istanze. Otto Hunte ci annichilisce con la sua colossale visione del­la città del 2.000. Sarà magari sbagliata, e perfino arretra­ta rispetto alle ultime teorie sulla città del futuro, ma, da un punto di vista fotogenico, è innegabile la sua forza emo­tiva, la sua inedita e sorprendente bellezza, che si avvale di una tecnica così perfetta da potersi sottoporre ad un esa­me prolungato senza che neppure per un istante se ne rie­sca a scoprire il modello plastico.

(Luis Buñuel, in “La Gaceta Literaria”, n. 9 del 1 maggio 1927. Trad. italiana in “Scritti letterari e cinematografici”, Marsilio, Venezia 1984. Citato in “Fritz Lang”, di Autori Vari, Edizioni Carte Segrete, 1990)

Metropolis: Le fonti

Le fonti letterarie

Sia nel libro di Thea von Harbou, all’epoca moglie di Fritz Lang autrice del romanzo Metropolis e della sceneggiatura del film, sia nell’intera trama del film, si posso­no rilevare diversi tipi d’impronta, che collegano l’intrigo alla fantascienza ma anche, in maniera contraddittoria, a diversi racconti di tipo mitico o arcaizzante.
Sul piano delle nuove tecnologie e delle reazioni che esse suscitano, tra fascinazione e paura, particolarmente significativo è il modo in cui l’inventore Rotwang crea un robot androide al quale infonde la vita attribuendogli i tratti verginali di Maria.
Oltre ai “robot” del drammaturgo ceco Karel ?apek (che aveva da poco coniato il termine, nel 1921), come ascendente possibile dell’androide è stata spesso citata l’Eva futura (1886), in cui lo scrittore Villiers de L’Isle Adam immagina la creazione di un essere di questo tipo (che egli definisce un’Andréide) da parte dell’inven­tore americano Edison; da qui si può risalire alla creazione del mostro di Frankenstein (nel romanzo di Mary Shelley, 1818), così come ai racconti ispirati al magico o al miracoloso più che alla scienza, come quello della creazione del Golem, o alla metamorfosi di Galatea da statua di marmo a donna in carne e ossa.
Altra fonte spesso evocata, i romanzi d’anticipazione dell’inglese H.G. Wells, La macchina del tempo (1895) e Il risveglio del dormiente (1897), che tratteggiavano come Metropolis una società duale, rigidamente divisa in una classe dirigente inattiva e decadente, e un proletariato ridotto alla stregua di un animale e di una macchina.
Menzioniamo un’ultima fonte letteraria debitamente identificata dal critico tedesco Roland Schacht all’uscita del film, ma un po’ sbiadita dai tagli della versione americana: Notre-Dame de Paris di Victor Hugo. La cattedrale di Metropolis (la cui collocazione rimane tuttavia imprecisata), l’opposizione tra la sua architettura gotica e il modernismo della città, il personaggio di Rotwang e i suoi ambigui rapporti con le due Maria, la massa triangolare degli operai che avanzano verso la cattedrale: sono tutti elementi che richiamano l’opera di Hugo, la sua cattedrale medioevale, la massima dell’arcidiacono Frollo, il desiderio di Frollo per Esmeralda, i mendicanti di Clopin che, disposti ‘a triangolo romano’, danno l’assalto a Notre-Dame… Talune di queste immagini possono essere state suggerite a Thea von Harbou e Lang dall’allora recente adattamento del romanzo di Hugo firmato da Wallace Worsley per la Universal.
I riferimenti letterari più espliciti di Metropolis non hanno nulla a che vedere con la fantascienza, essendo piuttosto improntati alla Bibbia: il racconto, liberamente ispirato alla Genesi, della costruzione della torre di Babele e della confusione linguistica che ne deriva; quello della fine dei tempi, illustrato dalle citazioni dall’Apocalisse di San Giovanni; la falsa Maria che appare come l’incarnazione della meretrice di Babilonia seduta su una bestia dalle sette teste e dalle dieci corna.

Le fonti cinematografiche

Manifeste o discrete, le fonti propriamente cinematografiche non manca­no. La sorprendente visione della sala delle macchine che si trasforma agli oc­chi del giovane Freder in un Moloch bramoso di sacrifici umani, rimanda al mostruo­so idolo cartaginese del film storico di Giovanni Pastrone Cabiria (1914).
Ispirato dalle messe in scena teatrali di Max Reinhardt, l’uso delle ‘masse’, delle moltitudini di figuranti, è un tratto distintivo del cinema tedesco, come è possibile vedere per esempio negli sfarzosi film di Lubitsch come Madame DuBarry e La moglie del faraone, così come la straordinaria mobilità della macchina da presa che Karl Freund aveva già messo al servizio di L’ultima risata e Varieté.
L’architettura e le scenografie di Metropolis richiamano diverse tendenze dominanti nell’ambito del cinema espressionista: nella città alta la celebra­zione futurista della modernità meccanizzata, con l’architettura in vetro, i grattacieli, l’intreccio di autostrade, le automobili e gli aerei; nella città sot­terranea, l’arcaismo organico della cattedrale, delle catacombe, della casa di Rotwang, simile a quella del creatore del Golem nel film di Paul Wegener (1920).

Le fonti architettoniche: una metropoli americana

Accanto all’impalcatura biblica e alle reminiscenze letterarie, una fonte visiva diretta risale, secondo la testimonianza dello stesso Lang, a un’espe­rienza personale, la scoperta della skyline di New York osservato dal ponte del piroscafo Deutschland nell’ottobre del 1924, e poi quella dei grattacieli di New York e di Chicago che lui definisce “le più belle città del mondo”. L’Empire State Building e il Chrysler Building devono ancora essere costrui­ti, ma a New York c’è già il Woolworth Building, in quel momento l’edificio più alto del mondo (241 metri), soprannominato ‘la cattedrale del com­mercio’, e a Chicago c’è il Wringley Building, nuovo fiammante con il suo rivestimento di ceramica che risplende la notte alla luce dei fari.
Peraltro Metropolis riflette l’interesse dell’epoca per diversi tentativi avanguardisti di creare un’architettura di vetro, dalla trasparenza al con­tempo funzionale e simbolica: è così che nel 1914 Bruno Taut costruisce a Colonia un padiglione di vetro che, caricato di connotazioni democratiche e spirituali, doveva rappresentare la sintesi tra la modernità e la cattedrale medioevale.
In Metropolis l’architettura di vetro compare nella sua forma utopistica nella cupola che sovrasta i Giardini eterni dove si trastullano i giovani oziosi e, con tutt’altro simbolismo – quello dell’hýbris babelico e babilonese – nella grande vetrata dalla quale Joh Fredersen abbraccia con lo sguardo e domina il panorama di Metropolis e la nuova torre di Babele che ne rappresenta il cuore nevralgico (altra localizzazione ambigua, quella dell’ufficio di Fredersen, che sembra trovarsi all’interno della nuova Torre di Babele, ma dal quale è possibile vedere la torre stessa).
Queste visioni architettoniche si intrecciano a riferimenti grafici e pit­torici, particolarmente evidenti nei bozzetti degli scenografi e nelle locan­dine del film (più che nel film stesso), come le numerose rappresentazioni pittoriche della torre di Babele, in particolare quella di Bruegel il Vecchio che si trova oggi a Rotterdam, o la serie di fotomontaggi di Paul Citroen, giovane tedesco formatosi alla Bauhaus, che partecipa al movimento Dada prima di trasferirsi in Olanda. Realizzata tra il 1920 e il 1924, questo ci­clo intitolato Metropolis mostra agglomerati di grattacieli che hanno chia­ramente ispirato il grandioso profilo della Metropolis langiana, realizzata grazie alla tecnica dell’animazione a passo uno.

(Jean-Loup Bourget, dal booklet del cofanetto Dvd)

http://www.cineblog.it/post/487296/metropolis-in-versione-integrale-restaurata-al-cinema-e-in-dvd







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