Andrea Staid, I dannati della metropoli

Andrea Staid, I dannati della metropoli

La prima cosa che mi è successa è stata quella di essere rinchiuso in una gabbia, in un Cie. Dopo quasi due mesi mi hanno rilasciato dicendomi che dovevo tornarmene a casa e io non sapevo che cosa fare. Ho trovato lavoro dopo poco, lavoravo nei campi, pagato pochissimo e trattato come una bestia. Finita la stagione di lavoro mi hanno fermato per un controllo i poliziotti e mi hanno portato in carcere perché mi hanno detto che ho commesso un crimine… quale? Non l’ho ancora capito, me lo stai spiegando tu, ma ancora non capisco che legge assurda avete qua in Italia. Mi rilasciate, mi fate lavorare e poi mi mettete in carcere e ora sono di nuovo fuori, senza documenti e con il decreto d’espulsione.Non mi hanno riportato a casa, mi hanno rilasciato in questa condizone assurda dove non posso fare altro che lavorare in nero senza nessuna possibilità di regolarizzare la mia posizione. Non posso fare niente senza documenti, posso solo sopravvivere fino a che non mi fermeranno e riporteranno in carcere.
Khalid, Egitto
(Andrea Staid, I dannati della metropoli)

L’autore li definisce “dannati”, “uomini e donne che vivono ai margini delle nostre città, che attraversano le nostre metropoli senza essere calcolati né ascoltati, che non hanno accettato di vivere tra le carcasse d’auto in una periferia, o in capannoni abbandonati, che non hanno ritenuto giusto lavorare otto ore al giorno in un campo di pomodori per 20 euro rischiando ugualmente di finire in un carcere perché clandestini”, “uomini e donne che dopo il lungo e ingiusto viaggio che hanno affrontato trovano ingiusto non aver nessun tipo di diritto e accoglienza umana e per questo decidono di ribellarsi”.

Nel suo nuovo libro, I dannati delle metropoli, Andrea Staid, classe 1982, antropologo presso l’Università di Genova, un passato e un presente da editore e attivista, utilizza la sua esperienza polivalente per realizzare, seguendo il metodo dell’osservazione partecipante, una ricerca entografica che, dando voce ai protagonisti, fa dei loro racconti l’anima del lavoro. Una ricrerca senza filtri, reale, che attraverso l’uso di una metodologia spiegata dettagliatamente, si avvicina all’essenza antropologica della scuola di Chicago. Un’indagine non strutturata, non standard, dove la separazione dei punti di vista e l’equilibrio costante tra osservato e osservatore porta a raccontare senza esprimere un giudizio, senza mitizzare, a “leggere le persone, non solo a parlare di loro”. Risultato: un’analisi approfondita del vissuto complesso dei migranti, descritta con l’accuratezza scientifica di un lavoro accademico e un’emotività che coinvolge il lettore come si trattasse di un romanzo.

Una polifonia di voci che si rivolge a un pubblico polivalente, non esclusivamente al mondo accademico e attivista che di solito è il più interessato a queste tematiche.
Il lavoro fa leva sul coinvolgimento e – per approcciarsi alle persone e comprendere i difficili risvolti umani dell’immigrazione – si basa sull’empatia e sulla fiducia: “Una persona con un vissuto così complesso ha bisogno di un’intervista che riesca a toccare la profondità e quindi devi rispettare l’individuo che hai davanti. E per fare questo c’è bisogno di tempo”.
Tra intervistato e intervistatore si instaura un dialogo reciproco che porta a un’autoconsapevolezza bilaterale, a uno scambio continuo di conoscenze ed esperienze.

L’essenza di questo dialogo è ben illustrata nel caso che l’autore ha studiato più a lungo, per oltre un anno: il palazzo più famoso di Viale Bligny a Milano, il 42. Descritto dai media come “Il fortino della droga, il regno del degrado, il buco nero di Milano” (“Corriere della Sera”, 13 giugno 2008), “Il palazzo degli abusivi e dei pusher” (“Il Giorno”, 28 agosto 2013), “Ricettacolo di ogni forma di delinquenza” (“Il Corriere milano”, 13 luglio 2013), Bligny 42 è un luogo da anni al centro della retorica mediatica. Il palazzo, come racconta Staid, “non è certamente un posto perfetto”, non rispecchia esattamente un esempio di fusione e di integrazione culturale, ma una spettacolarizzazione populista e manipolatoria non fa che incrementare – e consolidare – l’idea di nemico pubblico, limitandosi ad evocare contesti e situazioni senza conoscerli, producendo storie sensazionalistiche, spettacolarizzanti, ma fittizie e decontestualizzate, censurando il vero – e troppo scomodo – dibattito.

Dalle voci dei migranti escono i vissuti complessi che hanno segnato il loro viaggio e il successivo arrivo in Italia o in Europa. Ci ritroviamo, seguendo le loro parole, a ripercorrere un tragitto che per alcuni è stato il medesimo, per molti simile: il lungo attraversamento del deserto, il viaggio in mare, lo sbarco sulle coste, l’ingresso nei Cie, il carcere, la fuga. Un tema interessante anche come strumento per un’analisi della degenerazione dello stato ordinario, ribaltato continuamente in risposta a un’emergenza che ormai, anche solo per il suo carattere non più temporale, perde ogni senso di esistere.

Lo stato giuridico, che da sempre corre ai ripari verso lo stato di fatto operando quasi esclusivamente mediante decreti tappa buchi, rende i migranti persone senza luogo, obbligati a vivere nell’ombra, al confine tra legalità ed illegalità, nella scelta costante tra schiavitù e ribellione; una schiavitù che trasforma esseri umani in manodopera a basso costo in un sistema economico e sociale degradante – ma legalizzato – e una ribellione che conduce verso instabilità e irregolarità a servizio dell’economia illegale. Rendendoli, in ogni caso, schiavi. Dannati.

Un vissuto ed un racconto che sembra sempre più vicino alle vite di tutti noi: da un lato, con l’affermazione di leggi securitarie e liberticide che minano i diritti e le garanzie fondamentali di ogni essere umano; dall’altro, con il consolidamento di politiche repressive, dapprima sperimentate sulla pelle dei migranti e ora attuate nei confronti di un numero sempre maggiore di soggetti e gruppi di persone, a iniziare dai movimenti politici e sociali, come chi si batte per la tutela dei propri diritti di lavoratore o chi combatte contro la speculazione territoriale. Microcasi di un sistema che, partendo dall’interiorizzazione dei sentimenti che finora hanno portato alla repressione nei confronti di un nemico esterno, è riuscito a identificare un nuovo terreno dove espandere la propria guerra, un nuovo nemico, interno ai propri confini territoriali.
Anche per questa ragione l’autore ha deciso di realizzare questo libro, auspicandosi che il tentativo di avvicinarsi alla gente comune possa aiutare a contrastare la considerazione della “diversità come separazione”, e porti allo stesso tempo alla comprensione delle politiche liberticide che pendono ormai sulle teste di tutti. E forse riusciremo a non essere tutti dannati.

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