Osip Mandel’štam by Antonella Anedda e poesie

Osip Mandel’štam, il codice della terra

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Antonella Anedda

In preda alle allucinazioni uditive ma non ammutolito in quel silenzio poetico che chiamava “asma”: è l’Osip Mandelštam che emerge da due libri recentemente pubblicati: Quasi leggera morte. Ottave, a cura di SerenaVitale e il primo dei Quaderni di Voronež in una versione rivista e aggiornata rispetto al volume pubblicato nel 1995 a cura sempre di Maurizia Calusio e dal poeta, ora scomparso, Ermanno Krumm.

Cosa aggiungono questi volumi al codice di Mandel’štam e alla sua vita raccontata dai capolavori in prosa di Nadežda Mandel’štam? Moltissimo in termini di scoperta e rilettura. Entrambe, Vitale e Calusio, e noi attraverso loro, continuano il lavoro assegnato dallo stesso Mandel’štam ai suoi interlocutori: ripercorrere i testi, interrogarli di nuovo rendendoli vicini, azzerando quasi midrashicamente il tempo per farlo rivivere nello spazio del linguaggio. Seamus Heaney nel saggio Fede, speranza e poesia ci ricorda che “Mandel’štam servì il popolo servendo la sua lingua”. La lingua lo ha ripagato strappando i suoi versi al silenzio, concedendogli prima della morte, nel 1938 nel campo di transito di Vtoraja Rečka, brevi tregue, con poesie all’altezza di capolavori come Mi lavavo all’aperto nel cortile: una poesia a proposito della quale la mai abbastanza ricordata Pia Pera aveva scritto “c’è tutto, denso come un buco nero, la luce di una stella dissolta”.

La traduzione compie allora il suo percorso più vero, quello fisico, seguendo la lezione di Paul Celan che a Mandel’štam dedica la raccolta Die Niemandrose: “il nome Osip ti viene incontro”. Mandel’štam è per Celan l’emblema di una restituzione: “quanto divelto si salda di nuovo – eccoli, prendili, eccoli entrambi, il nome, il nome, la mano, la mano, ecco prenditeli in pegno, lui prende anche questo, e tu hai di nuovo ciò che è tuo, ciò che era suo”. Avere di nuovo ciò che è tuo, che è nostro, significa ritrovarlo all’indietro. Ciò che è tuo, nostro, ritorna attraverso ciò che è stato nelle parole di un morto. I corpi che abbiamo conosciuto e amato: mani e nomi sono stati dati in pegno perché, appunto, “quanto divelto si saldi di nuovo”.

Scritte nel 1933, a fronte della poesia contro Stalin, le Ottave non hanno nulla di politico eppure, nascoste nelle federe dei cuscini, ribadiscono la convinzione di Mandel’štam che la vera poesia sgualcisce il letto lasciando che risponda dal suo luogo d’insonnia all’incalzare del secolo cane-lupo. Se compaiono nomi appartengono al passato: Mozart, Goethe, Schubert. Il tempo lineare non conta (Mandel’štam aveva ascoltato le lezioni di Bergson e amava la Recherche di Proust). Alla storia totalizzante e brutale si contrappone l’aria del foglio; alla ottusa regolarità delle convenzioni l’inaspettato di dettagli abbaglianti: “i monasteri di lumache e conchiglie”, “la zampa dentata dell’acero”. Mandel’štam si china sulle parole con la passione e la precisione dell’entomologo. Foglie, farfalle, rocce, lucertole. Grazie alla resa non addomesticata di Serena Vitale assistiamo al prodigio terreno di una poesia fatta di resti, abbozzi, scie, cesure, affondi; ma compiuta e irrevocabile: “Superando la fissità della natura / il durazzurro occhio ne penetra la legge: / nella crosta terrestre impazzano le rocce, / dal petto sgorga un lamento minerale”.

Mandel’štam – nota Vitale nell’introduzione – non amava il caso nominativo “buddista” ma i dativi “che indicano una direzione”. Direzione in cui l’istante “scola via” e dativi come “a te”, “a me”, “a noi”, “a voi”, sono interscambiabili. Il “fiato” dell’io è dissolto nella consapevolezza che la creazione di una poesia non è folgorazione ma sedimentazione. Davvero, come ha scritto Philippe Jaccottet (altro grande traduttore di Mandel’štam) in La parola Russia, Mandel’štam “unisce prossimità e distanza”. Astrazione e concretezza si rispondono come vuoti e pieni in architetture verbali dove conta anche il minimo elemento e l’esattezza rende forte l’immagine. Così l’infinito non è (come non è per Leopardi) un deragliamento mistico ma, come si legge a proposito dell’ultima (la numero 11) delle Ottave, un termine matematico presente nei manuali scolastici. La contrattura della “quasi leggera morte” nel testo precedente si spalanca nell’“infinità” di questi versi: “E dallo spazio esco nel giardino / incolto delle grandezze, / strappo l’immaginaria costanza, / l’autoconsenso delle cause. // E il tuo manuale, infinità, io leggo / da solo, lontano dagli uomini: / selvaggio erbario senza foglie, libro di problemi dalle radici enormi.”

Anche la parola “erbario”, lečebnik, rimanda, spiega Vitale, a un “repertorio manoscritto, per lo più anonimo, di notizie e cure”, in seguito sostituito dai libri a stampa. Se le Ottave sono “una raccolta casuale” non lo è questo lessico in cui non c’è traccia di balbettio.

Il viaggio in Armenia, l’osservazione del suo paesaggio, l’amicizia con l’entomologo Boris Kuzin, entomologo e biologo avevano intensificato la passione di Mandel’štam per le pietre (Kamen’, “pietra”, è il titolo del suo primo libro) e per i fossili. Prima di Elizabeth Bishop, vede in Darwin un maestro di concentrazione assoluta e dimentica di sé. “Con stupefacente tenacia”, scrive, “egli [Darwin] calcola attentamente le distanze usando l’effetto del plein air, fornisce affascinanti fotografie dell’animale o dell’insetto, colti di sorpresa nella loro più caratteristica posizione”. L’ammirazione per Darwin fu fonte di problemi politici. Mandel’štam fu accusato di volersi impossessare della fede evoluzionistica, di non comprenderla e di manipolarla. “Non gli permetteremo di rubarci l’evoluzione e il progresso”, aveva protestato con Nadežda un certo signor Čedanovskij marxista “credente”. In realtà Mandel’štam è uno dei pochi (ancora oggi) che abbia letto davvero Darwin. “Alla natura”, nota (e sembra Leopardi), “Darwin non attribuisce nessun fine, le nega qualsiasi tipo di intenzione benigna. E meno di tutto pensa di attribuirle una volontà o una facoltà raziocinanti”.

Fondamentale per la comprensione delle Ottave (e dei Quaderni) è il Discorso su Dante. L’intuizione di un Medioevo fondato sul passo di un raznocinec, di un poveraccio come Dante, rivela la strada (per capre) da percorrere in poesia: concretezza di suoni-pensieri, orecchio-occhio ritmati su memoria e realtà. L’inferno per Mandel’štam è “una grammatica senza futuro”. In quello dantesco aveva tradotto l’orrore della letteratura sotto Stalin, così come in Tristia – titolo omonimo dei Tristia di Ovidio scritti in esilio a Tomi – aveva avuto il presagio del suo destino di confinato a Voronež.

Se le Ottave sono “conoscenza”, i versi del Primo Quaderno sono esperienza di un luogo preciso. Il poeta di Kamen’, che aveva sognato in greco, adesso si confronta con la grassa terra-nera di Čerdyn, con le sue “colline di voci dissodate”.

Rispetto ai Quaderni di Voronež pubblicati nel 1995, questo “Primo quaderno” (il progetto prevede la pubblicazione del secondo e del terzo), accompagnato – come le Ottave – da un irrinunciabile apparato di note e corredato anche da foto e disegni, presenta una diversa composizione dei testi e una maggiore condensazione. Esemplare a questo proposito è il testo Devo vivere, in cui la terra “ammattita” sostituisce la precedente “mezza ammattita”, e il verso “com’è gradevole al vomere la terra grassa” sfronda il “come fa piacere lo strato di grasso che arriva sul vomere” della prima versione. Una sintesi che riflette la condensazione suono-senso, fisicità-composizione musicale e architettonica, distesa dello spazio e acuto del tempo. La prima poesia, Abito orti importanti, immette chi legge nella realtà della periferia di Voronež, dove abitavano i Mandel’štam, con strade dissestate, cani randagi e galline. Il sarcasmo del tono iniziale si trasforma in un affondo di amarezza nell’ultima quartina: “sontuosamente si è curvata una tavola – / in questa tolda coperchio della bara. / In casa d’altri dormo male – solo la morte e una panca ho vicino”.

C’è la tentazione di trasformare Mandel’štam un “santino”, come da noi succede a Leopardi. Chissà – lui che si era scagliato contro ogni ritratto olegrafico di Dante tutto naso e cappuccino – se sarebbe stato contento del ritratto che ci consegna Lidija Ginzburg: “Mandel’štam parla stringendo la bocca senza denti, parla quasi cantando con una intonazione particolarmente ricercata”. La sua vicenda di poeta senza appoggi, non inquadrabile in nessuna corrente letteraria, è stata quella di tanti. Basta leggere le testimonianze raccolte “in cucina” da Svetlana Aleksievič nel suo Tempo di seconda mano. Le denunce erano la normalità di un’aberrazione corale come in ogni totalitarismo. L’articolo 58 puniva ogni “reato controrivoluzionario”, qualsiasi azione che potesse “rovesciare il soviet”. Mandel’štam viene arrestato, come tanti, per la delazione di qualcuno probabilmente convinto di servire il proprio paese. Se si vuole individuare un mandante è, per usare le sue stesse parole, “la rattristante crudeltà umana”. Lo dicono con terribile laconicità i versi di Anna Achmatova, nella poesia intitolata Voronež: “Nella stanza del poeta vegliano a turno la paura e la musa”.

Quando la paura dorme, la musa si risveglia, respira, dilata la poesia con l’esperienza dello spazio, delle acque, delle terre. Quando la paura dorme si consolida quella che Serena Vitale definisce “la più radicale e insieme più straziante utopia di Mandel’štam, poeta senza pubblico”, ossia “quella di un lettore “fondamentale esecutore-creatore”.

Voronež fa da cassa di risonanza all’ultima tregua della poesia e della vita di Mandel’štam. Vi arriva insieme a Nadežda dopo l’arresto e la traumatica esperienza della detenzione alla Lubjanka. Nadežda si ammala di tifo, viene ricoverata in ospedale; Mandel’štam inseguito da voci, tormentato dall’insonnia, si butta o cade dal balcone dell’ospedale. Si salva e appena in condizioni di sopravvivere tutte le cellule del suo corpo provato sembrano organizzarsi in funzione della poesia: gli Urali, i boschi di querce, le pietre, le acque cominciano a rivolgergli la parola, a dettargli versi “irsuti”, come li ha definiti giustamente Mario Caramitti, che prima formulati sulle labbra vengono copiati in solo un secondo tempo sulla pagina: “Guardavo allontanandomi l’oriente di conifere. La Kama in piena correva verso la boa…”. I luoghi sono versi-sonorità che anche noi ritroviamo leggendo. Cernozem-nerecerna-sinevii: il nero quasi blu (sinevii) è quello dell’aratura sui cui orizzonti ci sono “mille colli di voci dissodate”.

Lo stesso nome di Voronež si scompone e si dilata: suono-coltello-corvo. È ferita ma anche ritmo, volo, vocativo: “Fammi andare, lasciami Voronež: mi puoi far fuggire o scappare, / cadere o lasciarmi tornare, / Voronež ticchio / Voronež corvo / coltello”. Si può ascoltare il suono anche senza sapere il russo: Voronej – blaji – voronej – voron, noj.

A Voronež, Mandel’štam è di nuovo abbastanza vivo da essere in grado di osservare, concentrarsi, scrivere. Ha bisogno solo di questo per respirare: non soffrire dell’asma del non scrivere e del non scrivere frasi vere. Non ha molte armi, una è quella dell’ironia contro “i caproni diffamatori” e la loro ansia di rieducazione: “Devo vivere, respirando e bolscevizzando, e migliorando prima della morte / restare ancora un po’, giocare con la gente”. Prova a scrivere un reportage sulle fattorie, ma non ci riesce. Prova a scrivere versi impegnati, ma ne è disgustato e li disconosce. Con Marina Cvetaeva condivide un intreccio fatale di smarrimento e intransigenza. Intuisce cosa lo aspetta, sa quale atteggiamento (forse) lo salverebbe, ma non può non reagire all’imbecillità. Quando viene a sapere che i versi del Canto della schiera di Igor compaiono (insieme ai suoi) nell’elenco dei nemici di classe, risponde ancora una volta servendo la sua lingua: “E non sono depredato, non sono piegato, / ma solo enormemente ingigantito… / Come il Canto della Schiera è tesa la mia corda / e nella mia voce dopo l’asma / risuona la terra-ultima arma- / l’arido umido di ettari di terra nera!”.

Osip Mandel’štam

Quasi leggera morte. Ottave

a cura di Serena Vitale

Adelphi, 2017, 91 pp., € 10

https://www.alfabeta2.it/2017/07/23/osip-mandelstam-codice-della-terra/

OSIP MANDEL’ŠTAM
Otto poesie da Kamen’ (Pietra)

a cura di Fiamma Giuliani

Una indicibile tristezza
ha spalancato gli occhi,
un vaso di fiori s’è svegliato
ed ha versato il suo cristallo.

Tutta la stanza è impregnata
di languore-dolce rimedio!

Un così piccolo regno
ha risucchiato tanti sogni.

Un po’ di vino rosso,
un po’ di maggio radioso
e la bianchezza delle piccole dita fine
che spezza il friabile biscotto

Un povero raggio, con misura fredda,
semina lentamente la luce nel bosco umido.
Io porto la tristezza nel cuore, come un uccello grigio.

Cosa fare con un uccello ferito?
Il cielo che tace, è morto.
Da un campanile velato di nebbia
qualcuno ha tolto la campana.

E resta orfano
e muto lo spazio –
come una vuota torre bianca
dove sono nebbia e silenzio.

Mattino, senza limite di tenerezza –
Metà realtà e metà sogno,
deliquio insoddisfatto,
suono vago di pensieri…

Oggi è un brutto giorno:
dorme il coro delle cavallette
e l’ombra delle cupe rocce
è più tetra di una lapide.
Sibilare di frecce che passano
E grida di corvi profetici…
Vedo, in un brutto sogno,
l’istante inseguire l’istante.
Allontana i limiti dei fenomeni,
distruggi la gabbia terrestre,
leva un inno furioso
il rame dei segreti in rivolta!
O pendolo severo delle anime,
oscilla dritto e sordo
e, con passione, il fato bussa
alla porta proibita, per noi

Un vento nero fa frusciare le foglie
che respirano confuse
e una rondine, tremando,
nel cielo oscuro traccia un cerchio.

Il crepuscolo che avanza
discutendo in silenzio
nel mio cuore tenero e morente
con il raggio che per ultimo sparisce.

E sopra il bosco quando fa sera
s’alza una luna di rame;
perché mai così poca musica,
perché mai un tale silenzio?

Perché l’anima è così melodiosa
e così pochi nomi amati
e un ritmo istantaneo – ascolta solo
l’inatteso Aquilone?

Solleverà una nuvola di polvere,
comincerà a fare un rumore di fogli di carta
e non tornerà mai più – o
tornerà completamente diverso…

O, vento largo di Orfeo,
te ne andavi verso i paesi marini –
e, accarezzando un mondo ancora non creato,
io dimenticavo l’inutile “io”.

Ho vagato in un bosco fitto di giocattoli
e ho scoperto una grotta celeste…
possibile che io sia proprio qui, ora
e che davvero arriverà la morte?

No, non la luna, ma un quadrante luminoso
brilla per me e per quale motivo sono colpevole
di sentire la sostanza lattea delle stelle?

E l’orgoglio di Batjuškov mi repelle:
che ora è? Gli hanno domandato qui –
e lui ha risposto con curiosità: è l’eternità!

Odio la luce
delle stelle monotone.
Salve, mio antico delirio –
crescita della torre ogivale!
Pietra, sii come merletto
e diventa una ragnatela.
Ferisci con un ago sottile
il petto vuoto del cielo!
Così sarà il mio turno –
sento un’apertura di ali.
Così – dove va
la freccia del pensiero vivo?
O forse, portati a termine la strada e la data,
io tornerò:
là – non posso amare
qua – ho paura di amare…


PEDONE

Sento una paura invincibile
in presenza dell’altezza misteriosa;
io sono soddisfatto della rondine nei cieli
e amo il volo delle campane!

E, sembra, antico pedone,
che sopra l’abisso, sui ponti che si curvano,
ascolto come cresce una palla di neve
e l’eternità batte sulle ore di pietra.

Se così fosse! Ma io non sono
quel viandante che passa rapido sulle foglie sbiadite
e veramente in me canta la tristezza.

In realtà, la valanga è sulle montagne!
E tutta la mia anima è nelle campane
ma la musica non salva dall’abisso!

TRISTIA

Ho imparato l’arte degli addii
nei lamenti notturni a testa nuda.
Ruminano i buoi e si prolunga l’attesa –
ultima ora di veglie cittadine,
rispetto il rito di questa notte di gallo
quando, sollevato il fardello del dolore del viaggio,
guardavano lontano gli occhi rossi di pianto
e il lamento delle donne si confondeva col canto delle muse.

Chi può sapere di fronte alla parola “addio”
quale congedo ci attende,
cosa ci predice il clamore dei galli,
quando arde il fuoco nell’acropoli
e all’alba di una qualche nuova vita,
quando nei ricoveri rumina pigramente il bue,
perché il gallo, araldo di una nuova vita,
sulle mura della città batte le ali?

Ed io amo la consuetudine della tesssitura:
ordisce la spola, il fuso ronza.
Guarda, come piuma di cigno,
già ci vola incontro scalza Delia!
Oh, meschino ordito della nostra vita,
quando è povera la lingua della felicità!
Tutto è già stato, tutto di nuovo si ripete,
ci è dolce soltanto l’attimo del riconoscimento.

Che così sia: una diafana figurina
giace su un semplice piatto d’argilla,
come pelle appiattita di scoiattolo,
china sopra la cera, guarda una fanciulla.
Non sta a noi divinare sul greco Erebo,
per le donne la cera è come il rame per gli uomini.
Noi affrontiamo il destino solo in battaglia,
a loro è dato di morire.

A STALIN

Viviamo senza fiutare il paese sotto di noi,
i nostri discorsi non si sentono a dieci passi
e dove c’è spazio per un mezzo discorso
là ricordano il montanaro caucasico.
Le sue dita tozze sono grasse come vermi
e le parole , del peso di un pud, sono veritiere,
ridono i baffetti da scarafaggio
e brillano i suoi gambali.

E intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo sottile,
si diletta dei servigi di mezzi uomini,
chi fischia, chi miagola, chi frigna
appena apre bocca e alza un dito.
Come ferri di cavallo forgia decreti su decreti –
a chi da’ nell’inguine, a chi sulla fronte, a chi nelle sopracciglia, a chi negli occhi
ogni morte è per lui una cuccagna
e l’ampio petto di osseiano.

(novembre 1933)


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