LAVORO SALARIATO E CAPITALE, K.Marx – Wage Labour and Capital full – “INCREASING MISERY” ; bis

La relazione nascosta – Maurizio Donato – Sulla natura materiale del salario e dello sfruttamento

“La maggiore divisione del lavoro rende capace un operaio di fare il lavoro di cinque, di dieci, di venti; essa aumenta quindi di cinque, di dieci, di venti volte la concorrenza fra gli operai. Gli operai si fanno concorrenza non soltanto vedendosi più a buon mercato l’uno dell’altro; essi si fanno concorrenza nella misura in cui uno fa il lavoro di cinque, di dieci, di venti, e la divisione del lavoro, introdotta dal capitale e sempre accresciuta, costringe gli operai a farsi questo genere di concorrenza. [..] Noi vediamo dunque che, se il capitale cresce rapidamente, cresce in modo incomparabilmente più rapido la concorrenza fra gli operai, cioè sempre più diminuiscono proporzionalmente i mezzi di occupazione, i mezzi di sussistenza per la classe operaia e ad onta di ciò il rapido aumento del capitale è la condizione più favorevole per il lavoro salariato.” (K. Marx – Lavoro salariato e capitale)

La concorrenza tra i lavoratori, funzione crescente del tasso di disoccupazione e di precarietà, influenza negativamente il livello del salario favorendo comportamenti e dispositivi istituzionali che, nell’illusione di creare situazioni più favorevoli a un ampliamento dell’occupazione, finiscono inevitabilmente per ampliare la contraddizione per cui lo stesso elemento che da un lato costituisce un costo da ridurre è contemporaneamente domanda da ampliare. Questa contraddizione, tipica del modo capitalistico di produzione, rivela i suoi effetti in maniera più eclatante nei periodi di crisi.

Il punto centrale è quello relativo all’analisi del particolare scambio che si compie tra i possessori di forza-lavoro e i proprietari dei mezzi di produzione e che dà luogo, in cambio del potere di disporre per un determinato lasso di tempo della forza-lavoro alienata, alla corresponsione di un salario.

Che si tratti di uno scambio particolare è chiarito in più occasioni da Marx, già a partire da alcuni articoli precedenti all’edizione del Capitale e poi raccolti assieme in un opuscolo – Lavoro salariato e capitale- destinato a una notevole celebrità; tuttavia, nella sua introduzione del 1891 alla riedizione del testo, Friedrich Engels introduce alcune “modifiche” che lui stesso così descrive: “Le mie modificazioni si aggirano tutte attorno ad un sol punto. Secondo l’originale, l’operaio vende al capitalista, per un salario, il suo lavoro; secondo il testo attuale egli vende la sua forza-lavoro.

Aproposito di questa modificazione devo dare una spiegazione. Una spiegazione agli operai, perché essi vedano che non si tratta di una pedanteria verbale, ma piuttosto di uno dei punti più importandi tutta l’economia politica . Una spiegazione ai borghesi, perché essi possano convincersi della enorme superiorità degli operai incolti, ai quali si possono rendere facilmente comprensibili i problemi più difficili dell’economia, sui nostri presuntuosi uomini “colti”, cui tali questioni intricate restano insolubili per tutta la vita.”

LAVORO SALARIATO E CAPITALE[10]

I

Da diverse parti ci è stato rimproverato che non abbiamo esposto quali sono i rapporti economici, che formano la base materiale delle attuali lotte di classe e nazionali[11]. Di proposito, abbiamo sfiorato questi rapporti soltanto là dove essi esplodevano immediatamente in collisioni politiche.

Importava innanzi tutto seguire la lotta di classe nella sua storia quotidiana e dimostrare empiricamente, sulla scorta del materiale storico esistente e giornalmente arricchito, che lo schiacciamento della classe operaia, che aveva fatto le rivoluzioni di febbraio e di marzo[12], ha significato contemporaneamente la disfatta dei suoi avversari, i repubblicani borghesi in Francia, le classi borghesi e contadine in lotta contro l’assolutismo feudale su tutto il continente europeo; che la vittoria dell’“onesta repubblica” in Francia ha segnato in pari tempo la sconfitta delle nazioni che avevano risposto alla rivoluzione di febbraio con eroiche guerre di indipendenza; che, infine, con la disfatta degli operai rivoluzionari l’Europa è ricaduta nella sua vecchia duplice schiavitù, nella schiavitù anglo-russa. Le giornate di giugno a Parigi, la caduta di Vienna, la tragicommedia del novembre 1848 a Berlino, gli sforzi disperati della Polonia, dell’Italia e dell’Ungheria, l’affamamento dell’Irlanda[13]: tali furono i momenti principali in cui si riassunse in Europa la lotta di classe fra borghesia e classe operaia, e in base ai quali noi abbiamo dimostrato che ogni sollevamento rivoluzionario, anche se i suoi scopi appaiono ancora molto lontani dalla lotta di classe, è destinato a fallire fino a che la classe operaia rivoluzionaria non abbia vinto, e che ogni riforma sociale resta un’utopia fino a che la rivoluzione proletaria e la controrivoluzione feudale non si siano misurate con le armi in una guerra mondiale. Nella nostra esposizione, come nella realtà, il Belgio e la Svizzera figuravano nel grande quadro storico come macchiette pittoresche tragicomiche e caricaturali; l’uno, lo Stato modello della monarchia borghese, l’altra, lo Stato modello della repubblica borghese, due Stati che si immaginano entrambi di essere estranei alla lotta di classe e alla rivoluzione europea.

Ora, dopo che i nostri lettori hanno visto svilupparsi la lotta di classe, nel 1848, in forme politiche colossali, è tempo di penetrare più a fondo i rapporti economici, sui quali si fondano tanto l’esistenza della borghesia e il suo dominio di classe quanto la schiavitù degli operai.

In tre grandi capitoli esporremo:

1) il rapporto fra il lavoro salariato e il capitale, la schiavitù dell’operaio, il dominio del capitalista;

2) la decadenza inevitabile delle classi medie borghesi e del cosiddetto ceto contadino nel sistema attuale;

3) l’asservimento commerciale e lo sfruttamento delle classi borghesi delle diverse nazioni europee da parte del despota del mercato mondiale, l’Inghilterra[14].

Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari dell’economia politica. Vogliamo farci comprendere dagli operai. Tanto più che la più curiosa ignoranza e confusione di concetti riguardo ai rapporti economici più semplici regnano in Germania, a partire dai difensori patentati delle condizioni esistenti fino ai socialisti miracolisti e ai genî politici incompresi, di cui la spezzettata Germania è più ricca che di padri della patria.

Passiamo dunque alla prima questione: Che cosa è il salario? Come viene esso determinato?

Se domandiamo agli operai: “Qual’è l’importo del vostro salario?”, essi risponderanno, l’uno: “Io ricevo un marco al giorno dal mio padrone”, l’altro: “Io ricevo due marchi”, ecc. Secondo le varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indicheranno diverse somme che ricevono dal loro rispettivo padrone per fare un determinato lavoro, ad esempio per tessere un braccio di lino, o per comporre un foglio di stampa. Malgrado la diversità delle loro risposte essi concordano tutti su un punto: il salario è la somma di denaro che il padrone paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di lavoro.

Il capitalista compera, dunque, a quanto sembra, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro. Ma ciò non è che l’apparenza. Ciò che essi in realtà vendono al capitalista per una somma di denaro è la loro forza-lavoro[15]. Il capitalista compera questa forza-lavoro per un giorno, una settimana, un mese, ecc. E dopo averla comperata, egli la usa, facendo lavorare gli operai per il tempo pattuito. Con la stessa somma di denaro con la quale il capitalista ha comperato la loro forza-lavoro, per esempio con due marchi, avrebbe potuto comperare due libbre di zucchero o una determinata quantità di qualsiasi altra merce. I due marchi con i quali egli ha comperato le due libbre di zucchero sono il prezzo delle due libbre di zucchero. I due marchi con i quali egli ha comperato dodici ore di uso della forza-lavoro sono il prezzo del lavoro di dodici ore. La forza-lavoro, dunque, è una merce, né più né meno che lo zucchero. La prima si misura con l’orologio, la seconda con la bilancia.

Gli operai scambiano la loro merce, la forza-lavoro con la merce del capitalista, il denaro, e questo scambio si effettua secondo un rapporto determinato. Tanto denaro per tanto tempo di utilizzazione della forza-lavoro. Per tessere dodici ore, due marchi. E i due marchi, non rappresentano essi forse tutte le altre merci che posso comperare per due marchi? Di fatto, quindi, l’operaio ha scambiato la sua merce, la forza-lavoro contro altre merci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato. Dandogli due marchi il capitalista gli ha dato, in cambio della sua giornata di lavoro, tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna, di luce, ecc. I due marchi esprimono dunque il rapporto in cui la forza-lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio della sua forza-lavoro. Il valore di scambio di una merce, valutato in denaro, si chiama appunto il suo prezzo. Il salario non è quindi che un nome speciale dato al prezzo della forza-lavoro che abitualmente si chiama il prezzo del lavoro; non è che un nome speciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo.

Prendiamo un operaio qualsiasi, per esempio un tessitore. Il capitalista gli fornisce il telaio e il filo. Il tessitore si pone al lavoro e il filo si fa tela. Il capitalista s’impadronisce della tela e la vende, poniamo, a venti marchi. È il salario del tessitore una parte della tela, dei venti marchi, del prodotto del proprio lavoro? Niente affatto. Il tessitore ha ricevuto il suo salario molto tempo prima che la tela sia venduta, forse molto tempo prima che essa sia tessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non con il denaro che egli ricaverà dalla tela, ma con denaro d’anticipo. Come il telaio e il filo non sono prodotti del tessitore, al quale vengono forniti dal capitalista, così non lo sono le merci che egli riceve in cambio della sua merce, la forza-lavoro. È possibile che il capitalista non trovi nessun compratore per la sua tela. È possibile che dalla vendita di essa egli non ricavi neppure il salario. È possibile che egli la venda in modo molto vantaggioso in confronto col salario del tessitore. Tutto ciò non è affare del tessitore. Il capitalista compera con una parte del suo patrimonio preesistente, del suo capitale, la forza-lavoro del tessitore, allo stesso modo che con un’altra parte del suo patrimonio ha comperato la materia prima, il filo, e lo strumento di lavoro, il telaio. Dopo aver fatto queste compere — e in queste compere è compresa la forza-lavoro necessaria per la produzione della tela — egli produce soltanto con materie prime e strumenti di lavoro che gli appartengono. Tra questi ultimi è naturalmente compreso anche il nostro bravo tessitore, che partecipa al prodotto o al prezzo di esso non più di quello che vi partecipi il telaio!

Il salario non è, dunque, una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, già preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata quantità di forza-lavoro produttiva[16].

La forza-lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere.

L’esercizio della forza-lavoro è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto[17]. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato. .La forza-lavoro non è sempre stata una merce. Il lavoro non è sempre stato lavoro salariato, cioè lavoro libero. Lo schiavo non vendeva la sua forza-lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme con la sua forza-lavoro è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma la forza-lavoro, non è merce sua. Il servo della gleba vende soltanto una parte della sua forza-lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo.

Il servo della gleba appartiene alla terra e porta frutti al signore della terra. L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al migliore offerente, al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti. L’operaio non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera. L’operaio abbandona quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto, e il capitalista lo licenzia quando crede, non appena non ricava più da lui nessun utile o non ricava più l’utile che si prefiggeva. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita della forza-lavoro non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza. Egli non appartiene a questo o a quel capitalista, ma alla classe dei capitalisti; ed è affare suo disporre di se stesso, cioè trovarsi in questa classe dei capitalisti un compratore[18].

Prima di esaminare ora più da vicino il rapporto fra capitale e lavoro salariato, esporremo brevemente i fattori più generali che intervengono nella determinazione del salario.

Come abbiamo visto, il salario è il prezzo di una merce determinata, della forza-lavoro. Il salario è dunque determinato dalle stesse leggi che determinano il prezzo di qualsiasi altra merce. Si chiede dunque: come viene determinato il prezzo di una merce?

II

Da che cosa è determinato il prezzo di una merce?

Dalla concorrenza fra compratori e venditori, dal rapporto tra la domanda e la disponibilità, tra l’offerta e la richiesta. La concorrenza, da cui viene determinato il prezzo di una merce, ha tre aspetti.

La stessa merce è offerta da diversi venditori. Colui che vende merci della stessa qualità più a buon mercato è sicuro di eliminare gli altri venditori e di assicurarsi lo smercio maggiore. I venditori si disputano dunque reciprocamente le possibilità di vendita, il mercato. Ognuno di essi vuol vendere, vendere il più possibile, e possibilmente vendere solo, escludendo tutti gli altri venditori. L’uno, quindi, vende più a buon mercato dell’altro. Esiste perciò una concorrenza tra i venditori, che ribassa i prezzi delle merci che essi offrono.

Esiste però anche una concorrenza tra i compratori, che a sua volta fa salire il prezzo delle merci offerte.

Esiste, infine, anche una concorrenza tra i compratori e i venditori; gli uni vogliono comperare il più che sia possibile a buon mercato, gli altri vogliono vendere il più caro possibile. Il risultato di questa concorrenza tra compratori e venditori dipenderà dal modo come si comportano gli altri due aspetti della concorrenza che abbiamo indicato, cioè dal fatto che la concorrenza sia più forte nel campo dei compratori o in quello dei venditori. L’industria mette in campo l’un contro l’altro due eserciti, ognuno dei quali sostiene una lotta nelle proprie file, fra le proprie truppe. L’esercito nei cui ranghi hanno luogo gli scontri più lievi, riporta vittoria sull’avversario.

Supponiamo che si trovino sul mercato 100 balle di cotone, e in pari tempo dei compratori per 1.000 balle. In questo caso la domanda è dunque dieci volte maggiore della disponibilità. La concorrenza fra i compratori sarà dunque molto forte; ognuno di essi vorrà accaparrarsi almeno una e possibilmente tutte le 100 balle. Questo esempio non è un’ipotesi arbitraria. Nella storia del commercio abbiamo conosciuto periodi di cattivi raccolti di cotone, nei quali alcuni capitalisti, associati fra loro, tentarono di accaparrarsi non 100 balle, ma tutta la disponibilità di cotone del mondo. Nel caso citato, dunque, un compratore cercherà di eliminare l’altro offrendo per le balle di cotone un prezzo relativamente superiore. I venditori di cotone, i quali vedono che le truppe nemiche si battono accanitamente fra loro, e sono completamente sicuri di vendere tutte le loro 100 balle, si guarderanno bene dal prendersi per i capelli per abbassare i prezzi del cotone in un momento in cui i loro avversari vanno a gara per spingerli in alto. Nell’esercito dei venditori si stabilisce quindi improvvisamente la pace. Essi stanno come un sol uomo di fronte ai compratori, incrociano filosoficamente le braccia, e le loro richieste non avrebbero alcun limite se le offerte dei compratori, anche dei più insistenti, non avessero i loro limiti ben determinati.

Dunque, se la disponibilità di una merce è inferiore alla domanda, la concorrenza fra i venditori è minima o nulla. Nella stessa proporzione in cui questa concorrenza diminuisce, aumenta quella fra i compratori. Risultato: aumento più o meno notevole dei prezzi della merce.

È noto che il caso contrario, che porta a risultati contrari, si verifica più spesso. Disponibilità di merci notevolmente superiore alla domanda: concorrenza disperata fra i venditori; mancanza di compratori: liquidazione delle merci a prezzi irrisori[19].

Ma che cosa significa aumento, diminuzione dei prezzi, prezzo alto e prezzo basso? Un granello di sabbia è alto se lo si guarda al microscopio, e una torre è bassa in confronto con una montagna. E se il prezzo è determinato dal rapporto tra la domanda e la disponibilità, da che cosa è determinato a sua volta quest’ultimo rapporto?

Rivolgiamoci a un qualsiasi capitalista. Egli non esiterà un momento, e, come un secondo Alessandro il Grande, taglierà questo nodo metafisico con l’aiuto della tavola pitagorica. Se la produzione della merce che io vendo mi è costata 100 marchi, ci dirà, e dalla vendita di essa ricavo 110 marchi, entro lo spazio di un anno, s’intende, questo è un guadagno civile, onesto, legittimo. Ma se ricevo in cambio 120, 130 marchi, il guadagno è forte; se poi ne ricavo 200 marchi, il guadagno sarebbe straordinario, enorme. Che cosa serve dunque al capitalista come misura del guadagno? I costi di produzione della sua merce. Se in cambio di questa merce egli riceve una somma di altre merci la cui produzione è costata di meno, ha perduto. Se in cambio della sua merce egli riceve una somma di altre merci la cui produzione è costata di più, ha guadagnato. La diminuzione o l’aumento del guadagno egli li misura dai gradi che il valore di scambio della sua merce si trova sopra o sotto lo zero, cioè sopra o sotto i costi di produzione[20].

Abbiamo visto come il rapporto mutevole tra la domanda e la disponibilità provoca ora un ribasso, ora un rialzo dei prezzi, ora prezzi alti, ora prezzi bassi.

Se il prezzo di una merce aumenta notevolmente in seguito alla scarsità della disponibilità o ad un aumento sproporzionato della domanda, necessariamente ribassa, in proporzione, il prezzo di qualsiasi altra merce; poiché in ultima analisi il prezzo di una merce esprime soltanto in denaro il rapporto in cui altre merci vengono date in cambio di essa. Se per esempio il prezzo di un braccio di tessuto di seta aumenta da cinque a sei marchi, il prezzo dell’argento, in rapporto al tessuto di seta, cade, e cadono pure, nei confronti del tessuto di seta, i prezzi di tutte le altre merci che sono rimaste ferme al loro prezzo primitivo. Per ricevere la stessa quantità di tessuto di seta bisogna dare in cambio una maggiore quantità di queste merci.

Quali conseguenze avrà l’aumento del prezzo di una merce? Una massa di capitali si getterà nel ramo di industria fiorente, e questa immigrazione di capitali nel campo dell’industria favorita durerà fino a tanto che essa tornerà ai guadagni abituali, o, piuttosto, fino a tanto che il prezzo dei suoi prodotti cadrà, in seguito a sovrapproduzione, al di sotto dei costi di produzione.

Viceversa, se il prezzo di una merce cade al di sotto dei suoi costi di produzione, i capitali si ritrarranno dalla produzione di questa merce. Eccettuato il caso in cui un ramo di industria non è più adatto al suo tempo, e quindi deve decadere, la produzione di tale merce, cioè la disponibilità di essa, diminuirà, in seguito a questa fuga dei capitali, fino a tanto che essa corrisponda alla domanda, fino a tanto, cioè, che il suo prezzo si porti nuovamente al livello dei suoi costi di produzione, o meglio, fino a tanto che la disponibilità sarà caduta al di sotto della domanda, cioè fino a tanto che il suo prezzo abbia nuovamente superato i suoi costi di produzione, poiché il prezzo corrente di mercato di una merce sta sempre al di sopra o al di sotto dei suoi costi di produzione.

Così vediamo come i capitali emigrano e immigrano costantemente dal campo di un’industria a quello di un’altra. Il prezzo alto provoca una immigrazione eccessiva e il prezzo basso una eccessiva emigrazione[21].

Ponendoci da un altro punto di vista potremmo mostrare che non soltanto la disponibilità, ma anche la domanda è determinata dai costi di produzione; ma questa dimostrazione ci condurrebbe troppo lontano dal nostro argomento.

Abbiamo visto ora che le oscillazioni della domanda e della disponibilità riconducono sempre il prezzo di una merce ai costi di produzione. In realtà il prezzo di una merce è sempre al di sopra o al di sotto dei costi di produzione; ma il rialzo e il ribasso si integrano a vicenda, di modo che, entro un determinato limite di tempo, e tenuto conto degli alti e bassi dell’industria, le merci vengono scambiate l’una con l’altra a seconda dei loro costi di produzione; il loro prezzo, dunque, viene determinato dai loro costi di produzione.

Questa determinazione del prezzo sulla base dei costi di produzione non deve essere intesa nel senso in cui la intendono gli economisti. Gli economisti dicono che il prezzo medio delle merci è uguale ai costi di produzione; che tale è la legge. Il movimento anarchico, per cui il rialzo viene compensato dal ribasso e il ribasso dal rialzo, lo considerano come un fatto occasionale. Con lo stesso diritto, come hanno fatto altri economisti, si potrebbero considerare le oscillazioni come legge e la determinazione sulla base dei costi di produzione come fatto occasionale. Ma solo queste oscillazioni che, considerate più da vicino, portano con sé le più terribili devastazioni e scuotono la società capitalista dalle fondamenta come terremoti, solo queste oscillazioni determinano nel loro corso il prezzo secondo i costi di produzione. Il movimento complessivo di questo disordine è il suo ordine. Nel corso di questa anarchia industriale, in questo movimento ciclico la concorrenza compensa, per così dire, una stravaganza con l’altra[22].

Noi dunque vediamo che il prezzo di una merce è determinato dai suoi costi di produzione, in modo che i periodi in cui il prezzo della merce supera i costi di produzione sono compensati dai periodi in cui esso scende sotto i costi di produzione e viceversa. Naturalmente, ciò non vale per un singolo prodotto industriale determinato, ma soltanto per l’intero ramo dell’industria, allo stesso modo che non vale per il singolo industriale, ma soltanto per la classe degli industriali nel suo complesso.

La determinazione del prezzo secondo i costi di produzione è uguale alla determinazione del prezzo sulla base della durata del lavoro che si richiede per la produzione di una merce, poiché i costi di produzione consistono: 1) in materie prime e logorio degli strumenti, cioè in prodotti industriali la cui produzione è costata una certa quantità di giornate di lavoro, e che rappresentano perciò una certa quantità di giornate di lavoro, e che rappresentano perciò una certa quantità di tempo di lavoro e 2) in lavoro immediato, la cui misura è appunto il tempo.

Le stesse leggi generali che regolano in generale il prezzo delle merci, regolano naturalmente anche il salario, il prezzo del lavoro[23].

Il salario ora aumenterà, ora diminuirà, a seconda del rapporto tra domanda e disponibilità, a seconda del modo come si configura la concorrenza fra i compratori della forza-lavoro, i capitalisti, e i venditori della forza-lavoro, gli operai. Alle oscillazioni dei prezzi delle merci in generale corrispondono le oscillazioni del salario. Nei limiti di queste oscillazioni, però, il prezzo del lavoro sarà determinato dai costi di produzione, dal tempo di lavoro che si richiede per produrre questa merce, la forza-lavoro.

Ma quali sono i costi di produzione della forza-lavoro?

Sono i costi necessari per conservare l’operaio come operaio e per formarlo come operaio.

Quanto meno tempo si richiede per apprendere un lavoro, tanto minori sono i costi di produzione dell’operaio, tanto più basso è il prezzo del suo lavoro, il suo salario. Nei rami industriali dove non si richiede nessun apprendistato e basta la semplice esistenza fisica dell’operaio, i costi di produzione richiesti per la sua formazione si riducono quasi esclusivamente alle merci necessarie per mantenerlo atto al lavoro[24]. Il prezzo del suo lavoro sarà dunque determinato dal prezzo dei mezzi di sussistenza necessari.

Ma bisogna fare ancora una considerazione. Il fabbricante, che calcola i costi di produzione e, a seconda di essi, il prezzo dei prodotti, tiene conto del logorio degli strumenti di lavoro. Se una macchina gli costa, per esempio, 1.000 marchi e si logora in dieci anni, egli conteggia 100 marchi all’anno nel prezzo della merce, per potere, dopo dieci anni, sostituire la macchina vecchia con una nuova. Allo stesso modo, nei costi di produzione del semplice lavoro46 devono essere conteggiati i costi di riproduzione, per cui la razza degli operai viene posta in condizione di moltiplicarsi e di sostituire gli operai logorati dal lavoro con nuovi operai. Il logorio dell’operaio viene dunque conteggiato allo stesso modo del logorio della macchina.

I costi di produzione del semplice lavoro ammontano quindi ai costi di esistenza e di riproduzione dell’operaio. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il salario. Il salario così determinato si chiama salario minimo[25]. Questo salario minimo, come, in generale, la determinazione del prezzo delle merci secondo i costi di produzione, vale non per il singolo individuo, ma per la specie. Singoli operai, milioni di operai non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi; ma il salario dell’intera classe operaia, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo[26].

Ora che ci siamo intesi sulle leggi più generali che regolano il salario, come regolano il prezzo di ogni altra merce, possiamo passare all’esame del nostro argomento più in particolare.

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