Grazia Apisa Gloria : Mater Dolorosa Mater Amorosa – L’ultima trasformazione

Grazia Apisa Gloria

Si direbbe fuori dalla temporalità l’incidenza poetica di Grazia Apisa Gloria che proietta le proprie immagini di luce sullo schermo dell’universale. Ed è sotto molteplici aspetti che incombe e si manifesta quella luce, quale veicolo della verità. Ha spiegato Ferruccio Masci nello studio monografico L’opera di Grazia Apisa Gloria tra filosofia, psicologia ed arte: “È allora possibile affermare che la poesia di Grazia Apisa Gloria è una poesia della luce e per la luce, una poesia che vuole e sa infrangere i divieti autoposti da una ragione asfittica, l’anelito caparbio e determinato teso alla soddisfazione del superamento dei supremi limiti gnoseologici, l’estrema violazione dello spazio e del tempo, la ricerca insonne di un varco, dell’anello che non tiene, la certezza che l’amore è e sarà quella porta che ci immette nell’assoluto”. A sua volta Ivo Lovetti ha precisato che la verità “rischiara il passato, avvolge i corpi, ridesta alla bellezza”; e così anche “il pensiero / come dirsi infinito / più carne della carne”. (La bambina di luce); e, riguardo al modello estetico adottato, “la componente onirica e metafisica si inserisce senza forzature nel tessuto poetico che ne stempera ogni oscurità possibile”. Lo stesso critico ha evidenziato altresì nei Contributi per la Storia della Letteratura Italiana. Il Secondo Novecento (2004) che “le formule linguistiche più significative sono comunque le anafore (“Se un mattino dal mare… Se una sera dal mare… Se una notte dal cielo” (Radiosità) e le aggregazioni di parole. Il poeta si riappropria infine del ruolo di veggente, di incursore privilegiato dei territori del sogno e dell’inconscio, delle più rarefatte altitudini dove l’anima entra in sospensione”.
Guido Miano

Da: Dizionario Autori italiani contemporanei, Guido Miano Editore, pag. 18

Spunti critici tratti dalla monografia di Ferruccio Masci: “L’opera di Grazia Apisa Gloria tra filosofia, psicologia e arte”, casa editrice Guido Miano, dicembre 2008

[…] L’elemento mitico fiabesco nell’opera di Grazia Apisa Gloria lo si può riconoscere palesemente in Stelle d’Igea (1994), nell’agile libretto dedicato significativamente “A chi è nell’impossibile. A chi va oltre”. In esso, infatti, è facile individuare un percorso, un inseguirsi di tracce, suggerimenti e segni che indicano il cielo anche se, come afferma un antico proverbio, quando il saggio indica il cielo lo sciocco guarda il dito.
Ancora non per caso, ribadisco, il messaggero del nuovo mondo di luce è un bimbo che illuminandosi ne rivela il nome: Stelle d’Igea; subito e senza titubanza la viaggiatrice dell’Infinito che già è sa “che si tratta di una nuova dimensione”. La protagonista, Piccola Stella, prometeica viaggiatrice in nome dell’amore per l’umanità, non sa staccarsi dal mondo, non comprende le parole di Stella millenaria che le ripete “che gli umani moriranno per non aver voluto trapassare nelle stelle. Solo pochi di loro diventeranno stelle e terranno accesa la luce nell’universo” (idem).
Piccola Stella, però, non si arrende ad un destino così doloroso per l’umanità, prosegue nel suo disperato andirivieni tra il cielo e gli uomini e, solo dopo lungo travaglio, comprende che “Doveva morire all’amore terrestre, non solo all’amore dei 5 sensi, ma anche alla parola e alla bellezza dell’ arte” (idem). Non sapeva e non poteva sapere che la sua morte sarebbe stata ancora un dono, il suo sacrificio, nel senso primigenio del termine di divenire sacro, era un atto assoluto di amore, un darsi per inconsapevolmente essere, ma soprattutto un donarsi. “La Piccola Stella non aveva quasi più luce quando giunse al confine tra la terra e il cielo, lì sopravvisse solo pochi lunghissimi istanti (ma un istante di assoluto non è forse eterno?) infine si dissolse. Il suo ultimo pensiero fu: ‘Almeno voi, amati, per cercarmi, vedrete Igea: Se mi avete amato vivrete ciò che io ho visto e non ho potuto vivere’. Una lacrima spense la sua ultima luce”. Ma la morte di Piccola Stella è un atto catartico che la trasporta “in una dimensione più luminosa” dalla quale, in una visione contemplativa più ampia, poteva cogliere cielo e terra, fu così che poté osservare gli umani. “Sembravano molto indaffarati in mille frenetiche e ripetitive attività. Forse avevano dimenticato di alzare gli occhi al cielo. Forse si erano dimenticati anche che esisteva il cielo?” (idem).
Fortunatamente per gli uomini esiste ancora chi ha il coraggio di alzare gli occhi al cielo. E fu infatti un pittore che “alzò lo sguardo verso il cielo e pianse” dopo aver colto e tradotto sulla tela la splendida luce bianca che i suoi occhi avevano saputo vedere, forse in sogno, forse dentro di sé, forse nell’infinito per sempre che abita silenzioso ogni essere umano, la luce bianca delle stelle, i “Segnali luminosi dell’oltre” che abbagliano l’eroe pla­tonico del mito della caverna, ma che ogni vero artista ha imparato ad ama­re, è forse per questo che si può dire che “i quadri erano fatti dalle stelle […] quadri dipinti dall’Essere nella sua evoluzione stellare” (Stelle d’Igea).
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[…] È assolutamente illuminante quanto Grazia Apisa Gloria scrive sull’amore, specie quando tratteggia il passaggio dal momento dialettico, quando l’uno e l’altro sono ancora due e si devono relazionare, al momento dialogico, quando l’unità archetipa si manifesta nel sapersi uno della coppia, primo e forse solo atto di cui l’uomo è ancora capace nel cammino verso la condizione sapienziale di coincidenza con l’Essere. Ed ancora ha scritto Grazia Apisa Gloria: “Se il momento dialettico è costituito da un porsi (affermazione) un distanziarsi (negazione) un tornare a darsi (sintesi), il momento dialogico nasce dal riconoscimento della reciprocità dei due nella relazione: Io e tu coincidono e si vedono nel punto di unione. Sono uno” (idem). […]
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[…] Altro tema ricorrente ed originalmente vissuto dalla poetessa è il rapporto tra ragione e passione, quel dualismo solo apparentemente dicotomico che è riconosciuta peculiarità umana; significativa la citazione della Montefoschi scelta da Grazia Apisa Gloria per Scacco matto alla ragione: “È nella dialogicità che l’uomo nasce, nella sua totalità, alla dimensione umana, culturale, ovvero spirituale, così che la propria corporeità non è più vissuta nel limite egoico come portatrice di bisogni, ma diviene la portatrice del «verbo», ovvero diviene essa stessa il movimento della vita verso la coscienza di sé che è poi il movimento stesso dello spirito” (Scacco matto alla ragione).
Forse è proprio la lacerante cicatrice tra spirito e materia la sorgente primigenia della parola, della necessità della parola che sia però capace di accedere all’Essere così che “Quando l’universo si farà parola […] nella perenne trasformazione” che precipita la nostra limitata ragione nel lago della vita husserliano dove si perde la possibilità di comprendere ed esserci coscientemente in senso heideggeriano, sia ancora una parola a riportarci in un orizzonte sconfitto ma comprensibile nel quale l’uomo possa cogliere il limite della ragione e sappia concedersi all’ulteriore. Sarà questo eroe – poeta che non rinuncia alla speranza di poter raggiungere il suo luogo di elezione, il territorio edenico perduto per immeritata condanna che, in una sorta di orazione, all’alba reciterà: “(…) ad ogni alzata del giorno/ci troviamo come in attesa/che un miracolo si compia” (idem). Ma il miracolo più grande rimane il miracolo dell’amore e splendida è la sua capacità di coglierne due esempi complementari e antitetici che, in poche righe, rappresentano il volto al maschile ed al femminile di un addio “(…) ti promisi che appena mi fossi accorta che non mi amavi più con la stessa intensità, anche se nei mutamenti naturali del tempo, ti promisi che me ne sarei andata. Sapevo che tu non mi avresti mai saputo lasciare”(idem). […]

http://www.poeti-poesia.it/SitiCommunity/GraziaApisaGloria/Critica.htm

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