NELO RISI, IL POETA CON LA CINEPRESA – Poesie Scelte Cristina Campo, video

Nelo Risi – Wikipedia

Ricordo di Nelo Risi – Rai Letteratura

da L’ESPERIENZA

I lupi

La mia città deserta

un nero vento invade,

la mia città dolora

all’alba delle case

Il muro non misura

più di tre metri, il sonno

di quel ragazzo steso

a lato è un peso eterno

Il lupi sono scesi

visitano le strade,

autunno o primavera

non mutano paese

La mia città deserta

ha occhi di rovina,

le rose del suo sangue

c’è già chi le coltiva.

I meli i meli i meli

Quell’albero che mi sorprese

con i suoi rami gonfi

quanti corvi sul ramo più alto

Quel toro che si accese

per una macchia scura al mercato

quanto sangue versato alle frontiere

Quella ragazza in tuta che s’intese

prima con i francesi e i polacchi

quanti vantaggi il suo corpo tra le braccia

Quel soldato che mi chiese

la via breve oltre Sempione

quanta ansia in uno sguardo

Da PENSIERI ELEMENTARI

Sotto i colpi

C’è gente che ci passa la vita

che smania di ferire:

doví’è il tallone gridano doví’è il tallone,

quasi con metodo

sordi applicati caparbi.

Sapessero

che disarmato è il cuore

dove più la corazza è alta

tutta borchie e lastre, e come sotto

è tenero l’istrice.

A compierla domanda fatica

buona pratica e usura, con tutto

che uno si dedica

magari in privato magari alla cieca

con appena uno sguardo in tralÏce

per vedere se cresce (vien su

così aspra) e poi sotto di lima

di puntello di leva, con tutto che uno

la cova di notte vero inno nel buio

(nel buio dellíaltro) all’insaputa

che uno ci sbava per metterla a punto

e quando scatta: allora è vendetta.

Geroglifici

In Egitto la valle dei Re sarà presto sommersa. A monte di una grande diga

forse centinaia di tombe rimarranno per sempre ignorate, sepolte sotto le acque del Nilo che annualmente crescono e si ritirano come ai tempi del Faraone o dei viaggi di Erodoto. Mi piace pensare di aver scoperto una di quelle tombe. E di essere riuscito a leggere nel porfido e nel granito qualche geroglifico riportato alla luce. Ecco alcuni esempi di traduzione di una  serie di segni nota a me solo.

IV – I subumani

In vendita, alla gogna, siamo noi la preda

di Libia e di Nubìa. Non uno che non abbia

assaggiato la canna del padrone é siamo

sangue inferiore inquadrato a consumo.

Chi scappa muore di freccia o è divorato

dalle fiere. Basta un frego sul papiro

e la pratica è archiviata dallo scriba

che ignora le sue vittime e ha le mani nette.

Telegiornale

Stando nel cerchio d’ombra

Come selvaggio intorno al fuoco

Bonariamente entra in famiglia

Qualche immagine di sterminio.

Così ogni sera si teorizza

La violenza della storia.

Alea

una serie d’eventi sfortunati (per es.
l’uso del latino o della storia senza
apprendistato) uno sbaglio di opinioni?
lo si dovrà pur rimediare, l’oggi
non è più un domani

La strada è polverosa la luce vaga
anche il tramonto è in fuga e la notte
una pietra levigata che non sia il momento
dell’antico fiume il nostro rubicone?
un ruscello e sembra un mare puro azzardo
che una volta sola è dato attraversare
un VADO O RESTO un tagliar corto
senza un amico cui consultarsi
solo con te stesso tu conosci
alternative un esito diverso?

da Né il giorno né l’ora Nelo Risi

Nelo Risi Scheda e Poesie Scelte – Cristina Campo

Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 19/9/2015, 19 settembre 2015

NELO RISI, IL POETA CON LA CINEPRESA

Nel 1957, quando cominciarono ad apparire le prove poetiche di Nelo Risi, Montale scrisse che leggendolo si avvertiva una specie di paradosso: e accennava alla lievità di Raoul Dufy, il pittore e illustratore francese, mescolata con una tetraggine da Ecclesiaste. In realtà, Risi aveva iniziato ben prima, a scrivere versi: quindici poesie le pubblicò già nel 1948, all’età di 28 anni, in un volumetto ben presto introvabile, intitolato Le vacche magre. Erano componimenti

Ma non solo la poesia, anche la vita l’ha vissuta precocemente. Nelo Risi è nato nel 1920 a Milano, dove, solo dopo la guerra, si è laureato in medicina (il padre era medico), senza mai esercitare, esattamente come il fratello maggiore Dino. Il padre era morto nel ’28, dunque i tre fratelli sono cresciuti con la madre, una donna colta che ai figli leggeva le poesie di Goethe in tedesco. Negli anni della guerra Nelo è stato soldato, tra l’altro sul fronte russo: «Eravamo sul Don, nelle divisioni che i russi chiamavano cikai, cioè “scappa”, un nome che già rende l’idea… ». Raccontava in una bella intervista, rilascia a Massimo Raffaeli e Francesco Scarabicchi nel 2006, di essere stato sergente di sanità, cioè in pratica infermiere, a 15 gradi sotto zero, prima di rientrare a casa, raggiungendo a piedi la ferrovia distante seicento chilometri.
Dopo l’internamento in Svizzera e dopo aver lavorato con Vittorini al «Politecnico», ha vissuto molto all’estero, in particolare a Parigi (dove è stato amico di Queneau) e in «una fetta d’Africa». Nella sua città natale è rimasto fino al ’55, quando si è trasferito a Roma, dove è morto nella sera di giovedì a 95 anni, ormai patriarca della poesia italiana. Come il fratello, si sarebbe dedicato al cinema e alla televisione, con documentari e lungometraggi: da Andremo in città, tratto da un racconto di sua moglie, la scrittrice ungherese Edith Bruck, al Diario di una schizofrenica (1968), a La colonna infame, a Le città del mondo (1975). Nell’immediato dopoguerra aveva girato l’Europa in macerie al seguito di due fotografi, un inglese e un americano, che volevano documentare le conseguenze del conflitto.
Era a Berlino quando si ritrovò tra le mani, per la prima volta, una macchina da presa, una Arriflex. Da lì in Grecia, sempre per girare documentari. Nonostante l’interesse per la psicanalisi, durato per tutta la vita (nel 1996 diresse un film su Sabina Spielrein, la paziente e amante di Jung, che divenne allieva di Freud), diceva di non credere nell’immagine romantica dell’artista folle: «Non sono mai stato in analisi, non mi sento un nevrotico, ho un buon rapporto di disagio con me stesso, sono molto legato alla realtà, non sfuggo all’autocritica. La mia poesia è un buon barometro di quello che so essere…».
Realtà è una parola molto importante per capire il poeta Risi, che evidentemente non si è mai dimenticato di essere anche documentarista. La critica ne ha sempre sottolineato il legame con l’illuminismo e il moralismo lombardo, specialmente con Parini: ma tra i contemporanei si avverte un’affinità con Giorgio Orelli e Luciano Erba, e anche con il siciliano-milanese Bartolo Cattafi, grazie alla tensione etico-realistica impostata sulla brevità quando non sull’epigramma. L’epigramma, come ha avvertito Maurizio Cucchi (prefatore della raccolta delle sue opere poetiche, Di certe cose, 19532005), diventa «il carattere più vistoso» del lavoro di Risi, esprimendosi in «un tocco brillante ed estroso», o in una vena civile che «assume il tono di un’ironia irridente, acuminata».
Classificato subito da Luciano Anceschi dentro la cosiddetta «linea lombarda» (nella famosa antologia del 1952), in verità Risi sente molto l’influsso del surrealismo francese (Prevert e Vian): la raccolta Polso teso (1956) è nata infatti negli anni parigini. «La poesia — ha scritto — è verità intuita con ritmo»: non è un pessimista, Risi, ma un deluso (sulla capacità di incidenza dell’intellettuale progressista), dunque, dopo le prime prove, fa poesia nutrendo una sorta di sfiducia nella poesia stessa e rifugiandosi perciò «in toni minori e svagati, nel “fatto personale” sia pure corretto sempre da un trattamento auto-ironico dell’io parlante» (Mengaldo). Mai nostalgici, però. Minime massime è una sua breve raccolta del 1962: «Il poeta è cosciente che l’inerte / appena nominato è già vivente». Altri suoi titoli, già in sé significativi della sua poetica da «stilista dell’usuale», sono: Pensieri elementari (1964) e Dentro la sostanza (1965).
Una poesia essenzialmente «non metaforica», l’ha definita Giovanni Raboni, nella quale contano la parola letterale, la nettezza, la trasparenza del dettato, il discorso diretto e frontale. Un anarchico, poeta di tensione morale, critica, civile, anzi «civilissima» per sua stessa ammissione, che si fa sempre più politica, quasi rivoluzionaria, con denunce e appelli con il potere e la violenza del proprio tempo. Ma Risi, pur restando fedele a se stesso, riesce a rinnovarsi anche utilizzando slogan e frammenti di linguaggi settoriali, composti in forma di collage alla maniera del neosperimentalismo, così apparentemente lontano dalla sua più profonda vocazione. Senza dimenticare l’esercizio continuo delle traduzioni: da Kavafis e da Sofocle, da Jouve e da Laforgue.

In una serie del 1983, I fabbricanti del «bello», Risi tocca forse il suo vertice con la poesia dedicata a Tasso («Ha perso la quiete / forse la vita stessa…»), dove il poeta della Gerusalemme liberata viene raffigurato in catene, nell’«infinita malinconia che lo tormenta», vittima di topi indemoniati e di un tribunale che ha i tratti della brutalità eterna del potere. In una poesia raccolta in Risonanze, del 1987, Risi tornava meravigliosamente sulla sua città: «Milano, quando i navigli facevano corona/ portava in sé afrori di darsena, parvenze/ di mare, le donne a braccia nude/ battevano i panni su lucide ardesie…». E nello stesso libro enunciava la tensione e l’impegno che hanno sempre animato il suo scrivere: «Troppi avvenimenti, arduo/ essere del proprio tempo,… sto in mezzo/ ai fatti che urgono si accalcano/ e non ne afferro bene il disegno». Arduo, sì, ma sto.

PAOLO DI STEFANO

http://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=0000002328064



Andremo in città

Trama

Jugoslavia, seconda guerra mondiale, la giovane Lenka vive in un piccolo villaggio con il fratellino cieco Mischa, ella vive sola, a seguito della morte della madre e della scomparsa del padre Ratko, dopo che questi, un maestro elementare ebreo, è stato deportato dai nazisti. I due fratelli vivono aiutati da alcuni amici, tra i quali Ivan, un partigiano del quale Lenka si innamora.

Quando il padre, ufficialmente dato per morto, ricompare, Lenka lo accudisce nascondendolo nella soffitta, sostenendo contemporaneamente Mischa, continuando a descrivergli la realtà che non può vedere e promettendogli una nuova vita in “città” ed un’operazione che dovrebbe dargli la vista ma, all’arrivo delle SS, Ratko si sacrifica per non rivelare la presenza di Ivan che giace ferito ed altrettanto farà Lenka, che si incammina verso il treno diretto al campo di sterminio.

Durante il viaggio la giovane, abbracciando il fratellino, gli descrive uno scenario inesistente, con l’approssimarsi della “città” e la prospettiva dell’operazione con la quale “potrà vedere tutto”.

Sceneggiatura

Il film è un adattamento cinematografico del romanzo omonimo del 1962 scritto da Edith Bruck, moglie del regista e sopravvissuta ai campi di concentramento di Auschwitz, Dachau e Bergen-Belsen[1].

https://it.wikipedia.org/wiki/Andremo_in_citt%C3%A0


Anna Karénina….Nelo Risi incontra la signora Tolstoj …

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