Nemesi Philip Roth

Nemesi

Philip Roth

Traduttore: N. Gobetti

Al centro di “Nemesi” c’è un animatore di campo giochi vigoroso e solerte, Bucky Cantor, lanciatore di giavellotto e sollevatore di pesi ventitreenne che si dedica anima e corpo ai suoi ragazzi e vive con frustrazione l’esclusione dal teatro bellico a fianco dei suoi contemporanei a causa di un difetto della vista. Ponendo l’accento sui dilemmi che dilaniano Cantor e sulla realtà quotidiana cui l’animatore deve far fronte quando nell’estate del 1944 la polio comincia a falcidiare anche il suo campo giochi, Roth ci guida fra le più piccole sfaccettature di ogni emozione che una simile pestilenza può far scaturire: paura, panico, rabbia, confusione, sofferenza e dolore. Spostandosi fra le strade torride e maleodoranti di una Newark sotto assedio e l’immacolato campo estivo per ragazzi di Indian Hill, sulle vette delle Pocono Mountains – la cui “fresca aria montana era monda d’ogni sostanza inquinante” -, “Nemesi” mette in scena un uomo di polso e sani principi che, armato delle migliori intenzioni, combatte la sua guerra privata contro l’epidemia. Roth è di una tenera esattezza nel delineare ogni passaggio della discesa di Cantor verso la catastrofe, e non è meno esatto nel descrivere la condizione infantile.

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“Nemesi”, La voglia di espiare una colpa mai commess

l contagio colpisce gli innocenti e questo sconvolge il protagonista “Bucky” Cantor.

Alle mie modeste considerazioni sull’ultimo romanzo di Philip Roth tradotto in Italia, che però è anche l’ultimo per ora nella sua abbondante produzione di titoli (Nemesi, traduz. di N. Gobetti, Einaudi, Torino, 2011, euro 19), devo premettere una doverosa confessione, che forse consentirà al lettore di calmierare al meglio il mio giudizio su di lui anche in questo caso: considero Philip Roth, senza ombra di dubbio e di gran lunga, il più grande narratore vivente. Un’altra osservazione di minore portata, ma non del tutto estranea anch’essa alla mia posizione, devo aggiungere: Roth è nato sette mesi e quattro giorni prima di me, anno domini 1933. Da tempo sono persuaso che i nati negli anni ’30, più esattamente quelli venuti alla luce da dieci a tre-quattro anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, – la quale ha comunque inciso profondamente sui nostri (anche se lontani fra loro) destini infantili, – siano stati, e ancora per qualche anno siano destinati a restare, i più acuti testimoni di quanto successivamente è accaduto: conservano infatti memoria di quel che il mondo era e forse avrebbe potuto essere, senza esserne stati tuttavia eccessivamente plasmati; contemplano smarriti le miserie in cui esso è complessivamente e più o meno da allora caduto; ogni qual volta possono corrono con il pensiero alla loro origine, a quel cono di luce che per un decennio, emergendo miracolosamente dalle tenebre più totali, ci era sembrato d’intravvedere (Roth, in ogni caso, lo fa continuamente); e quando ne tornano vorrebbero subito ritornarci. Il periodo di cui anche qui si parla è questo, simile per tutti, inconfondibile e irripetibile: tragedia e speranza, attesa ed orrore… per i bambini, appunto, prima e più che per chiunque altro, divenuti poi i protagonisti in vario modo, ma ancora poi, nonostante le loro targhe e prosopopee professorali e autoriali, rimasti soprattutto “quei” bambini. Da questa specola autobiografico-critica leggo da anni, stupito e ammirato, Roth.

Di lui tutti ormai dicono che è un grande narratore perché parla di questioni imprescindibili, delle questioni capitali, e cioè della vita e della morte, e del sesso, il quale sovente si pone come nesso e intermediario, e talvolta come lente deformante, fra le due. Io preciserei: la “sentenza” è senz’altro fondata, pur nella sua genericità: ma la caratteristica principale e inconfondibile di Roth è che la sua visione del mondo è perfettamente incarnata nelle sue narrazioni, ovvero nel racconto, nella fabula, frutto a sua volta di un’immaginazione creatrice così ricca e inesauribile da apparire davvero stupefacente. Non fuori, o sopra o sotto, ma dentro le sue “storie”, va sempre cercato il senso di quel che dice.

Questa sapiente mistura di elementi complessi si risolve talvolta in una formula in cui gli elementi “cogitativi”, le riflessioni sull¿essere e sul mondo, tendono a prevalere; altre volte in una formula in cui prevalgono gli elementi che definirei “fattuali”. Sono appena reduce anche dalla lettura di Controvita, apparso in Italia l’anno scorso, sempre da Einaudi (ma risalente al 1986), straordinario gioco di specchi sull’identità ebraica, osservata da quattro angolazioni diverse nelle sue innumerevoli potenzialità e nei suoi innumerevoli handicap, vissuta sempre da Roth nei suoi libri come eccezionale opportunità e smisurato inconveniente. In questo caso si tratta indubbiamente (pur mantenendosi come sempre mirabilmente l’equilibrio fra pensiero e narrazione) di un romanzo della serie “cogitativa”.

Nemesi, invece, è prevalentemente “fattuale”. Roth abbassa e restringe il suo orizzonte, semplifica le sue descrizioni e le sue psicologie, la natura e il dramma dei suoi personaggi. Nel quartiere ebraico di Newark, – il luogo, appunto, dell’”origine”, – dove vive gente normale e modesta come poche, nel luglio 1944 scoppia un’epidemia di poliomielite, che miete vittime e lascia terribili strascichi, com’è ovvio, soprattutto fra i bambini. “Nemesi” è parola greca di significato piuttosto ampio: vendetta, giustizia divina, sdegno, ripugnanza, biasimo, collera… Direi che ognuno di questi sensi va bene per un aspetto del libro. Protagonista ne è un giovane ventitreenne, Eugene Cantor, detto Bucky, forte, responsabile, coraggioso, esemplarmente attaccato alla sua professione, che è quella di istruttore atletico di giovanetti ebrei del suo quartiere. Non è andato soldato a combattere la guerra americana, perché soffre di un grave difetto alla vista. Ma si trova a combattere del tutto imprevistamente una guerra nella guerra, – l’epidemia di polio, – che è doppiamente ingiusta e terribile, perché assale soprattutto gli innocenti, è imprevedibile e inafferrabile e lo spinge a un certo punto a dubitare di Dio. Inoltre, Bucky scopre a un certo punto d’essere l’inconsapevole tramite del contagio fra i suoi ragazzi, prima di esserne lui stesso vittima. E a questo punto, – prova assoluta e disumana della sua serietà, – decide di punirsi della colpa non commessa, rinunciando per tutto il resto della sua vita a qualsiasi consolazione sentimentale o affettiva. Così “Nemesi” alla fine diventa per lui anche senso della colpa ed espiazione.

Singolarissimo è il modo con cui Roth risolve anche questa volta il nodo della narrazione. Il “narratore” emerge lentissimamente dal tessuto del racconto. Prima c’è un “noi” (p. 13), che in quel momento s’inserisce in maniera vistosamente ambigua e immotivata nel racconto.

Poi, più avanti, compare un “io” (p. 71), che prende anche un nome: quello di Arnie Mesnikoff, uno dei bambini del campo giochi di Newark, che hanno contratto la poliomielite.
Infine, solo ventisette anni più tardi (1971, p. 157), Arnie, adulto, segnato dalla poliomielite, ma non distrutto e annegato come lui dal morbo, viene finalmente in primo piano come testimone e, of course, narratore della vicenda di Bucky, il quale, reincontrato per caso, decide per la prima volta in vita sua di affidargliela per intero. La capacità di Roth, pirandelliano-shakespeariana, di giocare sui diversi punti di vista, s’impone ancora una volta con evidenza esemplare, struggente pietà e impietosa ferocia.

Nemesis was shortlisted for the 2011 Wellcome Trust Book Prize, which honors “the best of medicine in literature”.[3][4]

http://ilmiolibro.kataweb.it/recensione/catalogo/3317/nemesi-la-voglia-di-espiare-una-colpa-mai-commessa/

Malheur et châtiment. “Némésis”, Philip Roth

L’écrivain américain signe “Némésis”, l’histoire d’un jeune homme de Newark, en 1944, terrassé par son désir d’héroïsme. Magistral.

LE MONDE DES LIVRES | 05.10.2012 à 12h34 • Mis à jour le 05.10.2012 à 18h59 | Par Alain Finkielkraut, écrivain et philosoph

Aux hommes qui, volontairement ou malgré eux, transgressent toutes les limites, empruntent la voie de l’outrage ou de l’outrance et succombent, ce faisant, à l’hubris, les Grecs promettaient la vengeance de Némésis. Cette messagère de justice, nous disent Platon et les tragiques, sanctionne la démesure par un châtiment approprié. Il y a longtemps que nous ne sommes plus grecs, mais, si l’on en croit le titre du dernier roman de Philip Roth, leur sagesse continue de s’appliquer à nous.

Eté 1944. L’Amérique est en guerre sur deux fronts. A cause de sa vue très basse, Bucky Cantor, jeune et vigoureux professeur de gymnastique dans une école de Newark, a été réformé. Ses meilleurs amis risquent leur vie sur les côtes normandes, et, lui, il pleure de honte. Tandis que la majorité des hommes de son âge sont mobilisés pour défendre la civilisation, il est le directeur du terrain de jeux de Newark, dans le New Jersey.

Il souffre donc de ne rien endurer, jusqu’au moment où un mal sans visage fond sur sa petite ville à l’écart de l’Histoire : la polio. L’épidémie se propage à la vitesse de l’éclair, les plus jeunes sont les plus exposés, et c’est aussi une guerre. On pense évidemment à La Peste, mais alors que Camus racontait un combat et voulait représenter la Résistance, Roth décrit une hécatombe, et la stupeur impuissante des victimes évoque irrésistiblement l’Extermination.

ÊTRE, C’EST COMPARAÎTRE

Bucky Cantor est désarmé, mais il fait face. Elevé par un grand-père aimant et rigoureux, il veut, même après sa mort, s’en montrer digne. Roth appelle d’ailleurs son héros “Mr Cantor”, parce qu’il est déjà un homme sur qui on peut compter et parce qu’il vit dans un monde où le nom a barre sur le prénom. Le nom, c’est-à-dire la lignée, les ancêtres, la dette, l’allégeance, le “nous” qui précède le “je” et qui l’oblige. Mr Cantor ne se suffit pas à lui-même : être, pour lui, c’est comparaître. Connu, depuis Portnoy et son complexe (Gallimard, 1970), pour être le romancier du ça et du bouillonnement pulsionnel, Philip Roth rend ici, comme dans Pastorale américaine (1999), un magnifique hommage au surmoi.

Mr Cantor prend sur lui, il va voir les parents dévastés par le chagrin, il calme aussi la frénésie vindicative de ceux qui cherchent un bouc émissaire. Cependant, après avoir une première fois refusé de déserter Newark pour rejoindre Marcia, la femme dont il est éperdument amoureux, dans un camp de vacances loin de l’épidémie, il cède quand elle accepte sa proposition de se fiancer avec lui. Néanmoins ce retour à la nature est illusoire. Tel Œdipe qui réalise l’oracle par tout ce qu’il fait pour lui échapper, Bucky Cantor voit surgir la maladie qu’il croyait fuir et se rend compte qu’il était porteur du virus. Il échappe à la mort mais reste handicapé et rompt avec Marcia pour la libérer du fardeau qu’il serait pour elle. Il se condamne ainsi à une solitude désolée. Cela, c’est le narrateur, longtemps discret, presque invisible, de Némésis qui nous l’apprend : Arnie Mesnikoff rencontre Mr Cantor, quelque trente ans après les faits. Il a été l’un des enfants du terrain de jeux. Il a contracté la maladie. Il en porte lui aussi les séquelles mais il s’est marié et il est heureux. Cette différence des biographies nous révèle soudain l’autre pathologie de Bucky Cantor : la pathologie de l’explication.

Tout doit faire sens. Rien ne doit être sans raison. Au début de l’épidémie, il invectivait le Créateur de toutes choses et donc du virus. Et puis, sans pour autant se réconcilier avec le Maître de l’univers, il a retourné sa rage métaphysique contre lui-même. Il était le fautif car il lui fallait absolument un fautif à son surmoi déchaîné. Il n’y avait pas de place, dans l’esprit et dans la sensibilité de Mr Cantor, pour la contingence. “Le dévot, a écrit Clément Rosset, est d’abord celui qui est incapable d’affronter le non nécessaire.” Alors même qu’il accablait le ciel d’injures sacrilèges, Mr Cantor était, pour son malheur, un dévot. Au lieu d’épouser Marcia comme elle l’en adjurait, il a plaidé coupable et il a détruit leurs deux vies.

C’est le refus du tragique qui précipite Mr Cantor dans la tragédie. Selon un scénario que les Grecs n’avaient pas prévu, la Némésis qui le frappe coïncide rigoureusement avec l’hubris qui l’emporte : “non pas l’hubris de la volonté ou du désir”, mais le délire d’interprétation, le besoin irrépressible de trouver une réponse à la question “pourquoi ?”. Mr Cantor est un “martyr du pourquoi”.

Rares sont les êtres aussi scrupuleux que Bucky Cantor. Mais, d’une manière ou d’une autre, nous sommes d’autant plus enclins à tomber dans cette folie, l’hubris de la raison, que nous la confondons avec l’intelligence. Aussi Philip Roth ne se contente-t-il pas de décrire ses ravages. Il lui apporte le démenti magistral du roman. En imaginant, dans Le Complot contre l’Amérique (2006), ce qui serait advenu si les Américains avaient, en 1940, porté à la présidence Charles Lindberg, l’aviateur héroïque mais nazi ; et en tenant, dans Némésis, la chronique d’une épidémie qui n’a pas eu lieu mais dont la menace planait et, avec elle, la peur panique d’attraper le virus et d’être enfermé dans un poumon d’acier. Inspiré par ce que Musil appelle ironiquement le principe de raison insuffisante, Roth dissipe l’illusion de nécessité et rend au passé son caractère fragile, aléatoire. Ce qui a été aurait pu être autrement.

Rien donc n’est vrai dans Némésis. Mais de cette fiction totale est née l’inoubliable vérité d’un homme terrassé par sa grandeur d’âme et par son incapacité de consentir à la part de hasard et d’absurdité que comportent toutes les choses humaines.

Némésis (Nemesis), de Philip Roth, traduit de l’anglais (Etats-Unis) par Marie-Claire Pasquier, Gallimard, “Du monde entier”, 228 p., 18,90 €.

Gallimard
228 pages / 18,90 €

[ EXTRAIT ]

“Il n’avait pas prévu d’aller au cimetière. Après la synagogue, il avait le projet de rentrer aider sa grand-mère à finir les tâches domestiques du week-end. Mais il pénétra dans la voiture dont on lui tenait la portière ouverte et s’assit sur le siège arrière à côté d’une femme qui portait une voilette noire et s’éventait en agitant un mouchoir devant son visage poudré et strié de sueur. Assis à la place du chauffeur, il y avait un petit homme trapu en complet noir qui avait le nez cassé comme celui du grand-père de Mr Cantor, et peut-être pour la même raison : les anti-sémites. A côté de lui il y avait une fille de quinze ou seize ans, brune, au physique plutôt ingrat, qu’on lui présenta comme Meryl, la cousine d’Alan. L’homme et la femme étaient l’oncle et la tante d’Alan du côté maternel.
Ils durent rester enfermés quelques dix minutes dans la voiture étouffante, à attendre que le cortège funèbre se forme derrière le corbillard. Mr Cantor essayait de se rappeler ce qu’avait dit Isadore Michaels, dans son éloge, sur la façon dont Alan avait eu l’impression que sa vie, tant qu’il vivait, était illimitée, mais invariablement il se retrouvait à imaginer Alan rôtissant dans sa caisse comme un morceau de viande.”

http://www.lemonde.fr/livres/article/2012/10/05/malheur-et-chatiment_1769810_3260.html


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