Gustav Mahler: Symphony No. 2 “Resurrection”

Sinfonia n. 2 in do minore “Risurrezione”

in cinque tempi per soprano e contralto soli, coro misto ed orchestra

Musica:
Gustav Mahler

  1. Allegro maestoso. Mit durchaus ernstem und feierlichem Ausdruck
    (Allegro maestoso. Con espressione assolutamente seria e solenne)
  2. Andante moderato. Sehr gemächlich
    (Andante moderato. Molto comodo)
  3. In ruhig fließender Bewegung
    (Con movimento tranquillo e scorrevole)
  4. “Urlicht” (Luce primigenia) – Sehr feierlich, aber schlicht, Choralmässig
    (Molto solenne ma con semplicità, come un corale)
    testo tratto da “Die Wunderhorn” di Ludwig Achim von Arnim e Clemens Brentano (vedi al n. 23/8 la versione per voce e orchestra)
  5. Im Tempo des Scherzo. Wild herausfahrend. Allegro energico. Langsam. Misterioso
    (Tempo di Scherzo. Selvaggiamente. Allegro energico. Lento. Misterioso)
    contiene l’inno “Die Auferstehung” (La Resurrezione) di Friedrich Klopstock rielaborato da Malher

Organico: soprano, contralto, coro misto, 4 flauti (3 e 4 anche ottavino), 4 oboi (3 e 4 anche corno inglese), 3 clarinetti (3 anche clarinetto basso), 2 clarinetti piccoli, 4 fagotti (4 anche controfagotto), 10 corni (dal 7 al 10 anche “in lontananza”), 10 trombe (4 “in lontananza”), 4 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti, triangolo, 2 tam-tam, frusta, Glockenspiel, 3 campane, arpa, archi, organo
Edizione: Hofmeister, Lipsia, 1897
Prima esecuzione: Berlino, Singakademie am Unter den Linden, 13 Dicembre 1895

Il Lied “Urlicht” (Luce primigenia) inserito nel secondo tempo, è tratto da “Die Wunderhorn” di Ludwig Achim von Arnim e Clemens Brentano (vedi al n. 23/8 la versione per voce e orchestra) mentre il quinto tempo contiene l’inno “Die Auferstehung” (La Resurrezione) di Friedrich Klopstock rielaborato da Malher.

Guida all’ascolto 1 (nota 1)

Mahler compose la sua Seconda Sinfonia fra il 1887 e il 1894, quando era direttore del Teatro dell’Opera di Budapest e di Amburgo; dopo una esecuzione parziale (i tre primi movimenti) diretta a Berlino nella primavera del 1895, Mahler presentò l’opera completa, sempre a Berlino, il 13 dicembre 1896: ai tre brani originari per sola orchestra se ne erano aggiunti due con interventi vocali, il Lied Urlicht (“Luce primordiale”) tratto dalla famosa raccolta di Arnim e Brentano Des Knaben Wunderhorn (scoperta dieci anni prima da Mahler a Lipsia con indicibile entusiasmo), e un quinto e ultimo movimento con l’intervento di un coro, oltre a due voci di soprano e contralto, su un’ode di Klopstock Die Auferstehung (“Resurrezione”).

Il testo di Klopstock e l’idea stessa di una conclusione corale avevano incontrato il compositore nella luttuosa circostanza della cerimonia funebre per la morte di Hans von Bülow: dopo Bach e Brahms, secondo il racconto di J. B. Foerster, un coro di voci bianche cantò, su una musica rimasta sconosciuta, i versi dell’ode di Klopstock “Aurersteh’n, ja aufersteh’n wirst du, mein Staub, nacli kurzer Ruh!” (“Risorgerai, certo, risorgerai, dopo breve riposo, mia polvere!”) e la scoperta fu decisiva per condurre in porto la Sinfonia che rischiava ormai di rimanere incompiuta e che proprio dal finale ha tratto il soprannome che spesso l’accompagna di Auferstehungssymphonie. La risoluzione di Mahler testimoniava una sensibilità non lontana dalla cosmica volontà di riaffermazione contenuta nell’eterno ritorno di Nietzsche, grande sponsor di idee anche nella musica di fine secolo: dal terzo movimento della Terza Sinfonia di Mahler ad Also sprach Zarathustra di Strauss al Mitternachtslied e alla Mass of Life di Delius; e cicliche trasfigurazioni sommuovono Tod und Verklärung di Strauss, unite a mistici ibridismi nella Prima Sinfonia di Skrjabin: dove un coro, un mezzosoprano e un tenore si uniscono in fine all’orchestra per celebrare l’Arte, capace di far “rivivere” le spossate energie degli esseri umani.

Raramente, come in quegli anni, la musica ha tentato con più pathos di superare se stessa. Per la prima esecuzione berlinese del 1896, cedendo alle insistenze del giovane critico e compositore Max Maschalk, Mahler stese un programma propedeutico all’ascolto della Seconda Sinfonia, poi soppresso nella pubblicazione dell’opera una volta assolta la sua funzione di guida. La Seconda incomincia là dove si era conclusa la Prima Sinfonia: «… Ho chiamato Totenfeier (cerimonia funebre) il primo movimento, e se vuoi saperlo, si tratta dell’eroe della mia Sinfonia in re maggiore che io porto a seppellire; da un osservatorio più alto raccolgo la sua vita in un limpido specchio. E, al tempo stesso, si pone la grande domanda: perché sei vissuto? perché hai sofferto? E tutto questo solo un grande, atroce scherzo?… Chiunque senta riecheggiare nella sua vita questo richiamo, deve rispondergli, e questa risposta la do nell’ultimo movimento».

L’esordio dell’opera è dominato da scabri frammenti della scala di do minore che paiono arrampicarsi su qualcosa che li respinge e li fa ripiombare in basso con sordi tonfi; questa cupa vitalità dei bassi non si interrompe nemmeno quando legni e ottoni espongono il loro tema di marcia; l’atmosfera tragica è allontanata solo dalla benevola cantabilità degli archi, la quale, con precisa funzione rilassante di “secondo tema”, deriva dai coevi Lieder da Des Knaben Wunderhorn. Dopo l’immane “Totenfeier”, Mahler voleva uno stacco di alcuni minuti per segnare bene il polo negativo da cui risalire la china verso la risurrezione celebrata nel finale. La prima tappa è il secondo movimento, la cui struggente dolcezza fa pensare alla frase di Adorno (per altro derivata dal Doktor Faustus di Mann a proposito dell’ultima sonata di Beethoven): «la musica di Mahler accarezza maternamente i capelli a quanti si rivolge»; di breve estensione e di forma semplice, il brano resuscita l’affettuosità del Ländler e la freschezza della musa schubertiana. Il terzo movimento ha funzione di Scherzo e, come più volte era già avvenuto in Schubert, si fonda sulla melodia di un Lied composto in precedenza. “La predica di Sant’Antonio ai pesci”, sempre ricavata dalla famosa raccolta di canti popolari curata da Arnim e Brentano: in questo brano di straordinaria presa emotiva, ai nostri giorni posto da Luciano Berio a fondamento dello Scherzo della sua Sinfonia (1968), l’affiorare e l’inabissarsi dei pesci senza requie si trasfigura in una ronda sinistra per il tambussare dei timpani, l’umor nero di oboe e clarinetto, l’ottuso rimbombo della grancassa; una luce più serena è diffusa dal Trio, ma tutto si riconduce poi ai mulinelli dell’esordio e alla fine non resta in superficie che una sola nota di contrabbassi, arpe, corni e controfagotto il cui timbro spettrale rivela da solo la mano di Mahler.

La voce di contralto intona sommessa “O Röschen roth” (“O rosellina rossa”), esordio del Lied Urlicht, ancora una volta attinto all’inesauribile “corno meraviglioso del fanciullo”. Sulla voce umana che scompare si rovesciano, come montagne liquefatte, le sonorità orchestrali che aprono l’ultimo movimento, in capo al quale Mahler scrive “wild herausfahrend” (“prorompendo selvaggiamente”): dopo la condensazione di un clima di attesa, preceduta da un formidabile rullo delle percussioni, ancora prende corpo una marcia (allegro energico) che nel suo entusiasmo sembra avviare la Sinfonia a conclusione. Anche l’entrata del coro è preparata da una calma piena di promesse: ritornano i richiami dei corni in lontananza, prolungati da interventi dei flauti figurati da Mahler “wie eine Vogelstimme” (“come voce di uccello”). Quando anche questa “voce di natura” si è spenta, sorge la voce umana con le parole dell’ode di Klopstock; tutti gli elementi inventivi di questa sezione “con voci” hanno già fatto la loro apparizione in precedenza; ma nuovo è l’apporto del timbro corale che, con la patina neogotica di certi cori maschili del Parsifal di Wagner o della Faust Symphonie di Liszt, incarna il sogno della rigenerazione rappresentato dalla Seconda Sinfonia di Mahler con quasi traumatica partecipazione.

Giorgio Pestelli

Guida all’ascolto 2 (nota 2)

Lunga, tanto quanto mai in nessun altro lavoro di Mahler, e complessa fu la genesi della Seconda Sinfonia in do minore. Essa si intrecciò con la conclusione della Prima Sinfonia in re aggìore (marzo 1888), stabilendo con essa una continuità non soltanto cronologica, almeno per quanto riguarda il primo movimento, portato a termine di getto il 10 settembre 1888. Per quanto in origine pensata come movimento iniziale di una Sinfonia, la pagina fu provvisoriamente considerata finita e dotata di un titolo a sé stante, Totenfeier (Rito funebre), modellato sull’esempio del poema sinfonico. L’eroe celebrato nel finale della Prima Sinfonia veniva ora accompagnato alla tomba, e il rito funebre del poema sinfonico a questo si riferiva.

Per quanto non avesse mai rinunciato all’idea della Sinfonia, Totenfeier avrebbe trovato un seguito soltanto nel 1893. Negli anni che vi intercorsero Mahler fu impegnato come direttore d’orchestra prima a Budapest (1888-1891), poi ad Amburgo, e questi incarichi finirono per assorbirne quasi tutte le forze; come compositore produsse appena una manciata di Lieder, per pianoforte e per orchestra, tutti tratti dalla celebre raccolta di Arnim e Brentano intitolata Des Knaben Wunderhorn (II corno meraviglioso del fanciullo), sua principale riserva in questi e anche negli anni a venire. Ma nel corso dell’estate 1893 vennero composti di seguito altri tre movimenti di Sinfonia: un Andante moderato (finito il 30 luglio), uno Scherzo (già il 16 luglio il materiale musicale elaborava spunti del Lied coevo Des Antonius von Padua Fischpredigt) e un Lied per orchestra sempre dal Wunderhorn, Urlicht, già scritto in precedenza come pezzo indipendente. Ancora non era chiaro come e in quale ordine questi brani dovessero disporsi in una Sinfonia e quale ne sarebbe stato il Finale, e difatti nella seconda metà del 1893 l’opera non progredì, in attesa di una conclusione. Mahler intuiva che, in una forma musicale di grandi proporzioni, dopo l’impiego di un’orchestra colossale, spettasse alla “parola”, alla parola redentrice, il compito di portare a compimento l’idea musicale. Urlicht per voce sola era un passo in questa direzione, ma non ancora il passo definitivo verso la conclusione.

Questa arrivò finalmente nel 1894. Assistendo alla fine di marzo alla cerimonia funebre in onore di Hans von Bülow, il celebre direttore d’orchestra appena scomparso che tanto lo aveva aiutato nel periodo amburghese, Mahler ebbe la rivelazione: “Già da tempo riflettevo sull’idea di introdurre il coro nell’ultimo movimento e solo la preoccupazione che ciò potesse essere inteso come superficiale imitazione di Beethoven [Nona Sinfonia] mi faceva sempre esitare. Allora morì Bülow, e io assistetti alla cerimonia funebre in suo onore. Lo stato d’animo in cui mi trovavo stando là seduto e i pensieri che rivolgevo allo scomparso erano nello spirito del lavoro che portavo dentro di me. In quel momento il coro accompagnato dall’organo intonò il corale su testo di Klopstock ‘Auferstehen!’. Mi colpì come una folgore e tutto apparve limpido e chiaro alla mia anima! Chi crea attende questo lampo, è questo il ‘sacro concepimento’! L’esperienza che allora vissi dovetti crearla in suoni. Eppure, se non avessi già portato in me quell’opera, come avrei potuto vivere tale esperienza? […] Così è sempre per me: soltanto se vivo un’esperienza, compongo, soltanto se compongo, la vivo!…”.

Dopo una rapida revisione del primo movimento, in estate Mahler lavorò alacremente al Finale della Sinfonia, il cui punto culminante sarebbe stato dunque costituito dall’Inno alla Resurrezione di Klopstock (donde il titolo che poi l’avrebbe accompagnata), preceduto dalla grandiosa evocazione del Giudizio Universale. La composizione, ultimata nella strumentazione il 18 dicembre 1894, trovò a lenti passi, quasi mettendo insieme le tessere di un mosaico, il suo compimento, raggiungendo solo così la sua unitarietà, seppur di un carattere alquanto speciale. Prova ne sia che un’esecuzione limitata ai soli primi tre movimenti, diretta da Mahler a Berlino il 4 marzo 1895, ebbe un’accoglienza fredda e sconcertata, mentre miglior successo arrise alla prima esecuzione completa, diretta da Mahler sempre a Berlino il 13 dicembre 1895.

Una genesi così lunga e complessa per un’opera di proporzioni e organico così insoliti (legni a 4, 10 corni, 8 trombe, 4 tromboni, 2 arpe, organo, 6 timpani e percussioni smisurate, senza contare le voci) non era soltanto il risultato di cause accidentali o esteriori. Se il progetto non vacillò mai, stentò a trovare una strada lineare per realizzarsi e dovette impantanarsi più volte prima di trovare la via risolutiva e definitiva. I tre grandi blocchi di cui si compone la Sinfonia in do minore – il primo movimento, i tre movimenti centrali, il Finaie – non nacquero da un piano predeterminato, ma si aggiunsero l’uno all’altro strada facendo, via via che Mahler ne individuava il filo conduttore. Nonostante la sua eterogeneità e la sua discontinuità, la Seconda non manca di un progetto chiaro, ma questo progetto si chiarificò per così dire solo a posteriori, dimostrando fino in fondo per la prima volta la volontà del compositore di scrivere una musica che fosse al tempo stesso rappresentazione del mondo e totalità di esperienze vissute.

Dai funerali di un eroe al Giudizio Universale e alla Resurrezione passando attraverso il mondo ingenuo, incantato e fiabesco del Wunderhorn: che cosa lega fra loro questi momenti nell’arco colossale di un’ora e mezzo di musica? È certo che la domanda dovette impensierire non poco anche Mahler. Non si trattava tanto di problemi musicali, che sarebbero stati risolti volutamente per aspri contrasti e contrapposizioni, senza ricercare il principio dell’unità tradizionale, quanto in primo luogo di rapporti e di riflessioni sul problema della Sinfonia e della musica a programma. Questo tema, particolarmente attuale allora, all’epoca dei primi Poemi sinfonici di Richard Strauss, non aveva mancato di interessare anche Mahler (non si dimentichi che la Prima Sinfonia e Totenfeier erano stati in un primo tempo definiti Poemi sinfonici secondo la terminologia lisztiana), senza che sull’argomento si fosse ancora fatta completa chiarezza. In una testimonianza del 1893 resa a Natalie Bauer-Lechner, il compositore affermava: “Chiamiamoli entrambi Sinfonie e nient’altro! Denominazioni come Poema sinfonico sono logorate e imprecise, e fanno pensare alle composizioni di Liszt, dove ogni tempo descrive qualcosa senza una più profonda coerenza interna. Le mie due Sinfonie esauriscono il contenuto di tutta la mia vita”. Per quanto, rispondendo a un critico musicale, Max Marschalk, che dopo la seconda esecuzione berlinese gli aveva chiesto chiarimenti, Mahler si affrettasse a precisare che “nella concezione di quest’opera [la Seconda Sinfonia, appunto] non ho mai inteso descrivere dettagliatamente un evento, ma tutt’al più un modo interiore di sentire”, in una lettera successiva allo stesso critico, del 1896, quasi rettificava il tiro: “In quanto a me, so che non farei certo musica sulla mia esperienza vissuta finché la posso riassumere in parole. La mia esigenza di esprimermi musicalmente, sinfonicamente, inizia solo là dove dominano le oscure sensazioni, sulla soglia che conduce all’altro mondo”; il mondo in cui le cose non si scompongono più nel tempo e nello spazio. Come trovo banale inventare musica su un programma, così considero insoddisfacente e sterile voler dare un programma a un’opera musicale. Con ciò non cambia il fatto che l’occasione per un’immagine musicale è certamente un’esperienza dell’autore, dunque pur sempre qualcosa di abbastanza concreto per poter essere rivestito di parole”. E ancora: “Dall’essenza della musica è facile comprendere che poi spesso in diversi singoli passi io immagino che davanti a me si svolga un evento reale, al modo, per così dire, di una rappresentazione drammatica”. Dove si gettava un ponte non soltanto tra Sinfonia e Poema Sinfonico, ma anche tra sinfonia e teatro.

Sta di fatto che per un’esecuzione della sua Seconda Sinfonia a Dresda nel 1901, dunque a una certa distanza dalla composizione, Mahler pubblicò un programma in cui si sforzava di offrire chiavi di lettura più esplicite, al fine di fornire all’ascoltatore qualche cartello indicatore e pietra miliare per il viaggio (“una carta astronomica, per comprendere il cielo notturno con i suoi mondi lucenti”, secondo le sue stesse parole), evidentemente ritenuto di ardua decifrazione: una specie di guida che, attaccandosi a qualcosa di “conosciuto”, impedisse di perdersi. Ecco il testo del programma:

Primo movimento. Siamo accanto alla bara di una persona amata. Ripercorriamo col pensiero ancora una volta, un’ultima volta, la sua vita, le sue lotte, quel che ha sofferto e quel che ha voluto. E ora, in questo momento grave e profondamente commovente, in cui ci liberiamo, come di una benda, di tutto quel che nella vita di ogni giorno ci distrae e ci degrada, una voce terribilmente seria che non percepiamo mai nell’agitazione assordante dei giorno, ci colpisce fin nel profondo del cuore: e ora? Che cos’è la vita? Cos’è la morte? Esiste per noi una continuazione nell’aldilà? Tutto ciò è solo un sogno disordinato, oppure vita e morte hanno un senso? E dobbiamo trovare una risposta a questa domanda se vogliamo continuare a vivere.

I tre tempi seguenti sono concepiti come Intermezzi.

Secondo movimento. Andante. Descrive un momento felice della vita del defunto a noi caro e fa rivivere il mesto ricordo della sua gioventù e della sua innocenza perduta.

Terzo movimento. Scherzo. Lo spirito dell’incredulità, della negazione si è impossessato di lui, egli affonda lo sguardo nel brulichio dei fenomeni e, insieme con la purezza dell’animo infantile, perde il saldo punto d’appoggio che solo l’amore può dare; dispera di sé e di Dio. Il mondo e la vita diventano per lui una ridda sconclusionata; il disgusto di tutto ciò che è e diviene lo stringe come in un pugno di ferro e lo incalza fino a strappargli un urlo di disperazione.

Quarto movimento. Urlicht (solo di contralto). La voce commovente della fede ingenua risuona al nostro orecchio. “Vengo da Dio e voglio tornare a Dio! Il Buon Dio mi darà un lumicino, mi illuminerà la strada che porta alla vita eterna e beata!”.

Quinto movimento
. Ci troviamo di nuovo di fronte a tutti i paurosi interrogativi; e nello stesso stato d’animo della fine del primo tempo. Si ode la voce di Colui che chiama: l’ora della fine è scoccata per tutti gli esseri viventi – il Giudizio Finale sovrasta, è sopravvenuto il terrore dell’Ultimo Giorno. La terra trema, le tombe si scoperchiano, i morti si alzano e procedono in un corteo infinito. I grandi e i piccoli della Terra – i re e i mendicanti, i giusti e i senza Dio – tutti vogliono avanzare – l’invocazione di misericordia e di grazia risuona spaventosa al nostro orecchio. La marcia del corteo si fa sempre più terrificante – tutti i nostri sensi vengono meno, vien meno la nostra coscienza nell’avvicinarsi dello Spirito eterno. Risuona il “Grande Appello” – echeggiano le trombe dell’Apocalisse; nel silenzio raccapricciante sembra di sentire un usignolo lontano lontano, come un’ultima eco tremolante della vita terrena! Si innalza, tenue, un coro di santi e di creature celesti: “Risorgerai, sì, risorgerai”. E ora appare Iddio nella Sua gloria! Una luce meravigliosa, soave, penetra fino al nostro cuore – tutto è pace e beatitudine! E vedi: non c’è giudizio, non c’è peccatore, né giusto, né grande, né piccolo – non c’è punizione né premio! Una sensazione irresistibile d’amore pervade e illumina tutto il nostro essere di una consapevole beatitudine.

Si suole giudicare molto severamente queste note esplicative, ritenendole troppo semplicistiche, quasi banali, e indegne della cultura di Mahler. Se è vero che ingenuità ed enfasi erano parte integrante del suo carattere, al pari della profondità e della nobiltà del sentire, è altrettanto vero che qui il tracciato della Sinfonia è delineato con una certa precisione, e tutto sommato svela, sia pure in forma letterariamente fiorita, i nodi cruciali del suo percorso dalla tomba al cielo, dalla morte alla trasfigurazione. Soprattutto sono indicati gli snodi di esso: il rapporto che intercorre tra il primo e l’ultimo movimento (questo idealmente riattacca là dove era terminato l’altro) e la funzione di sospensione, di parentesi legata al ricordo, dei tre movimenti centrali (in realtà il quarto, dove l’improvvisa entrata del contralto solo getta una luce illuminante sui tempi precedenti, è in un certo senso già premessa del Finale).

Idealmente, si è detto, la Seconda inizia là dove era terminata la Prima. “Ho chiamato il primo tempo Totenfeier“, scriveva Mahler al critico Marschalk, “e se vuole saperlo è l’eroe della mia Sinfonia in re maggiore che porto alla tomba, e la cui vita osservo riflessa in un limpido specchio, come in una visione d’insieme dall’alto. E intanto ecco il grande interrogativo: Perché sei vissuto? Perché hai sofferto? Tutto questo è soltanto un immane, atroce scherzo? A queste domande dobbiamo in qualche modo rispondere, se è nostro destino continuare a vivere, o anche solo continuare a morire! Chi anche una sola volta nella vita si è sentito risuonare dentro questa domanda deve dare una risposta; questa risposta io do nell’ultimo tempo”. Di che risposta si tratta? L’idea fondamentale è espressa chiaramente nelle parole del coro finale: “Risorgerai, sì risorgerai, mia polvere / dopo un breve riposo! / Vita immortale! Immortale / vita ti darà Colui che ti chiamò. / Di nuovo sarai seme per rifiorire!”. E ancora, più esplicitamente: “Credi, mio cuore, credi: / nulla andrà perduto per te! / Tuo è, tuo, sì tuo quello a cui anelavi! / Tuo quello che hai amato, per cui hai lottato! / Credi, non sei nato invano! / Non invano hai vissuto, sofferto! / Ciò che è nato deve perire! / Ciò che è passato, risorgere!”. L’approdo finale alla fede, musicato con forza propulsiva incalzante, quasi trionfalistica, come di chi si voglia e voglia convincere dell’assunto delle parole, converte la visione apocalittica del “Grande Appello”, nei cui squarci annichilenti si toccano i confini di un teatro immaginario, in certezza della rigenerazione. La resurrezione, dunque, intesa proprio nel senso cristiano della salvezza dalla morte e della conquista della vita immortale in virtù di una pietas che tutto abbraccia. Qui Mahler non parla più soltanto del suo eroe, nella cui scomparsa si sublima la vicenda individuale, ma dell’umanità intera, accomunando in quell’abbraccio pervaso d’amore tutti gli esseri viventi passati, presenti e futuri, in un messaggio ecumenico che nel bagliore accecante della luce “che nessun occhio ha penetrato” assume quasi i toni del Paradiso dantesco. E ciò offre anche la definitiva giustificazione della sofferenza umana, l’interpretazione della morte come promessa di vita eterna nella riconciliazione con l’Essere Supremo; gli ultimi versi infatti recitano: “Quello per cui hai combattuto / ti porterà a Dio!”.

Rispetto a questo tracciato che conduce direttamente dalle tenebre alla luce, sia pure per passaggi progressivi assai estesi, i tre movimenti centrali, pensati come interludi, sono, come si è visto, pause di riflessione, ricordi e sogni delle esperienze, liete e tristi, della vita passata. Nel secondo movimento SÌ contempla “un raggio dì Sole, puro e senza ombre, uscito dalla vita di questo eroe”. Mahler arriva perfino a immaginare come possano originarsi queste memorie, che sospendendo il tempo e lo spazio invitano quasi a fare un bilancio retrospettivo della vita: l’eroe visto dunque da se stesso. Osservava infatti, sempre a Marschalk: “Le sarà già accaduto di aver accompagnato alla tomba una persona cara, e poi forse sulla via del ritorno di vedersi improvvisamente davanti l’immagine di un’ora lontanissima di felicità, che si posa nell’anima come un raggio di sole, in nulla oscurato: quasi si potrebbe dimenticare ciò che è avvenuto! Questo è il secondo tempo! Quando poi Lei si desterà da questo malinconico sogno, e dovrà tornare alla nostra vita confusa, Le potrà facilmente accadere che questo movimento della vita, incessante, senza posa, sempre incomprensibile, Le appaia ripugnante, come il vorticare di figure danzanti in una sala da ballo ben illuminata, nella quale Lei guardi da fuori, stando nella oscurità notturna, da tale distanza che non sente più la musica! La vita, allora, appare priva di significato, un incubo spaventoso da cui scuotersi d’un tratto con un grido di raccapriccio. Questo è il terzo tempo!”. Quanto al quarto, esso è la chiave di volta che collega il passato al futuro: se musicalmente esiste anche un collegamento tematico tra il Lied e il Finale, la tenera cantilena del contralto solo “O rosellina rossa”, fin nelle fibre più intime impregnato di atmosfera Wunderhorn, evoca una promessa di pace, una speranza di beatitudine nei termini di infantile semplicità di un piccolo posto in Paradiso. Ciò che separa la vita dalla morte è soltanto una lunga attesa, bruciata nell’attimo della rivelazione della fede.

Un’atmosfera tragica, luttuosa, cadenzata al passo di una marcia funebre, pervade tutto il primo movimento, Allegro maestoso, in testa al quale l’autore prescrive “un’espressione assolutamente seria e solenne”. Lo introduce un tremolo di violini e viole infortissimo, con suono aspro e tagliente, su cui scabri frammenti di violoncelli e contrabbassi sempre in fortissimo che percorrono tempestosamente la scala di do minore sembrano arrampicarsi verso qualcosa che li respinge e li fa ripiombare in basso con sordi tonfi. La cupa concitazione di questo inizio non da orìgine a un tema vero e proprio, ma a una serie di incisi frantumati, carichi di energia disgregata. Una prima aggregazione di questo materiale si ha quando inizia la presentazione del primo tema, esposto dagli oboi e dal corno inglese. Si tratta però di un’aggregazione instabile, sottoposta a continua, irrequieta trasformazione, con una varietà cangiante di prospettive. Ai violini in pianissimo è affidato il secondo tema, una lunga e visionaria linea melodica ascendente verso l’acuto, subito interrotta dal ritorno improvviso del tremolo iniziale e dall’esplosione di violoncelli e contrabbassi, ora però accompagnata da fanfare degli ottoni: quando queste a poco a poco si spengono, ha termine l’esposizione. Lo sviluppo inizia con il ritorno del secondo tema in do maggiore e prosegue con una multiforme varietà di trasformazioni retta da una fitta rete di relazioni per così dire “paratematiche”. Una dissolvenza in pianissimo segna la conclusione della prima sezione dello sviluppo, marcata dal ritorno in fortissimo dell’introduzione (ma slittata a mi bemolle minore) con le tormentose scalette degli archi. Un insistente ritmo di marcia avvia poi la seconda parte dello sviluppo, in cui, con crescendo ad ondate di concitatissimi impulsi ad agire, si consuma, tra irruzioni e crolli improvvisi, una sorta di catastrofe che spalanca abissi di terrore. Da questa tessitura estremamente complessa e al tempo stesso vivida, oscillante tra i caratteri del Corale e della Marcia funebre, emergono con netto profilo due figure tematiche destinate ad avere grande importanza nel corso della Sinfonia: un intervallo di seconda minore intonato dal corno inglese (che ricorda la figura caratteristica del lamento) e un soggetto quasi di corale affidato ai corni riproducente nelle prime quattro note la melodia medievale della celebre sequenza del Dies irae. La ripresa, riassestata in do minore, ha funzione di ricapitolazione e di epilogo. Essa procede nel segno di una maggiore concisione del materiale tematico e di una radicalizzazione dei contrasti, che conduce a una dimensione elementare di dissoluzione, quasi eco di un processo che va esaurendosi: ne è suggello definitivo, dopo un’estrema reminiscenza idilliaca, la trasformazione di un accordo di do maggiore in minore, la quale si apparenta a un velo funebre che avvolga il corpo dell’eroe. A questo punto spetta alla coda negare l’apoteosi precipitando la musica in un ultimo crollo.

Dopo il primo movimento, quasi a riprendersi da tanta agitazione, Mahler prescrive in partitura “una pausa di almeno cinque minuti” (raramente rispettata), che serve anche a preparare lo stacco netto con il secondo movimento, Andante moderato (Molto comodo), in la bemolle maggiore. Esso occupa un posto a sé e in un certo senso sospende la fatidica, solenne progressione degli eventi. Formalmente si tratta di un Landler di neppur troppo nascoste reminiscenze classiche, viennesi, articolato in uno schema elementare di rondò in sviluppo (A B A’ B’ A”). Già si è accennato che la sfera in cui vive è quella della memoria, della rievocazione nostalgica di una felicità perduta eppure possibile, almeno nella dimensione irreale del sogno. Tutto si colora di tenerezza e di trasparenza, anche nella strumentazione sovente rarefatta (il primo tema è esposto dai soli archi, con i violoncelli divisi), anche se nella sezione B, in si maggiore, si insinuano i presagi di una oscura inquietudine, come nel passo dei clarinetti sul fluire regolare di terzine degli archi. In A’ il bellissimo controcanto molto espressivo dei violoncelli introduce una nota struggente. La tensione si accumula con il ritorno delle sezioni, fino al progressivo assottigliarsi e spegnersi del movimento (in partitura, “morendo”) nel registro acuto dei violini, sui tocchi delicati dell’arpa. Complessivamente si può notare una vivace contrapposizione tra l’energico impianto ritmico e il carattere raccolto, come velato e nebbioso, dei temi, spesso trattati in una fitta trama di sovrapposizioni contrappuntistiche.

Un aggressivo doppio colpo di timpano in fortissimo apre il terzo tempo, In ruhig fliessender Bewegung (In movimento tranquillamente scorrevole), nella tonalità di do minore. Anche se Mahler non lo indica come tale, la forma è quella tradizionale dello Scherzo, con una sezione centrale di Trio (A B A). Il materiale musicale fondamentale è tratto da un Lied del Wunderhorn, Des Antonius von Padua Fischpredigt (La predica ai pesci di Sant’Antonio da Padova), dove si immagina che Sant’Antonio, trovata vuota la chiesa dove doveva predicare, rivolga la sua predica ai pesci, che lo ascoltano con attenzione devota ma poi ritornano immediatamente ai loro comportamenti abituali: il flessibile e scorrevole fluire delle sestine di sedicesimi, che caratterizza quasi ininterrottamente lo svolgimento del pezzo, allude all’indaffarato affiorare e inabissarsi dei pesci attorno a Sant’Antonio predicatore. Naturalmente lo spunto è innalzato da Mahler a ben altri significati, per i quali si rimanda alla succitata lettera esplicativa; l’elaborazione sinfonica procede su un terreno compositivo autonomo, estremamente dilatato e rifinito, sovente imprevedibile. L’incessante, insensato movimento di sedicesimi, che Adorno paragonò al “corso del mondo”, da vita a varianti, sviluppi, apparizioni di nuove idee, precipizi e lacerazioni che rendono ancora più ossessiva l’inesorabile monotonia del ritmo, come in un caleidoscopio sempre uguale eppure sempre diverso. Ed è proprio questa sensazione di immutabilità nella mutevolezza più variegata a costituire il timbro del terzo movimento. I personaggi di questa ronda satanica, di questa danza macabra in una zona d’ombra, oltre al crepitare dei timpani e ai mulinelli dei violini, sono il chiocciare di clarinetti e oboi, l’ottuso rimbombo della grancassa e il tremolare delle bacchette di legno. Al clarinetto piccolo in mi bemolle il compositore prescrive un passo mit Humor, dell’umorismo più nero e sarcastico che si possa immaginare; alla tromba, protagonista di un episodio di struggente mestizia che prefigura lo squallore di certi cabarets di periferia, si accompagna l’irrompere di triviali disegni dei fiati con carattere di fanfara, come quello che corrisponde al “grido d’orrore” di cui parlava l’autore nei suoi commenti. Ogni volta che il discorso sembra assestarsi, ecco l’inabissarsi nella vertigine del vuoto che vuole spazzar via tutto, anche visivamente rappresentata da una ripetuta discesa cromatica a precipizio. Una luce appena più serena è diffusa dal Trio, sostenuto dai tocchi magici delle arpe, che nella descrizione di Mahler corrisponde alla scena immaginaria delle “figure danzanti in una sala da ballo ben illuminata”, ma vista dal di fuori nell’oscurità: un diaframma sembra qui frapporsi tra la visione consolatrice e l’estraneità di chi guarda. La ricapitolazione dello Scherzo condensa tutti i motivi principali in un fitto intreccio contrappuntistico, prima che una nuova esplosione riduca tutto il materiale in frantumi: da questo urto apocalittico si origina una melodia di corale dei corni e delle trombe che sarà sviluppata nel quinto movimento. La coda porta a conclusione il movimento rapidamente, sospendendolo su una sola nota di contrabbassi, arpe, tam-tam, corni e controfagotto dal timbro spettrale. Si ricorderà il magistrale ripensamento di questo straordinario perpetuum mobile operato da Luciano Berio nella terza parte della sua Sinfonia per otto voci e orchestra (1969).

Segue senza interruzione il quarto movimento, in re bemolle maggiore, “Molto solenne ma con semplicità (come un Corale)” La voce di contralto, raddoppiata dagli archi, intona sommessa O Röschen roth! (O rosellina rossa!); quindi si effonde un dolce corale di corni e trombe al cadere del quale al contralto è affidato il Lied di Des Knaben Wunderhorn, Urlicht (Luce primordiale). Il suo procedere è caratterizzato dai continui passaggi da un ritmo binario a un ritmo ternario. La prima strofa si uniforma all’andamento di Corale, mentre un andamento più libero e mosso, da racconto infantile, sostiene la seconda (Da kam ich aufeinen breiten Weg), impreziosita dalle terzine del clarinetto, dal timbro favoloso di arpa e Glockenspiel e dagli arabeschi del violino solo e dell’ottavino. L’espandersi del canto (Ich bin von Gott una will wiederzu Gott!: questo spunto tematico ritornerà nel quinto movimento, come motivo di reminiscenza) tocca l’apice di un’implorazione appoggiata dagli archi, che si spegne delicatamente su un gesto di fiduciosa attesa.

Dirompente è invece il gesto che apre il quinto movimento, Wild herausfahrend (Prorompendo selvaggiamente), in fa minore e poi mi bemolle maggiore, che da solo occupa oltre i due quinti dell’intera Sinfonia. Una violenta scala ascendente dei bassi riporta di colpo al clima del primo tempo, ma a un grado ancora più ardente di temperatura. Da questo caos organizzato, tutto sussulti e deflagrazioni, solcato dal segnale dei corni che devono suonare fortissimo ma disposti il più lontano possibile, si originano a poco a poco alcune figure tematiche riconoscibili, come il tema di Corale, amplificazione del motivo del Dies irae del primo movimento e l’intervallo di seconda minore con il suo carattere di lamento. Gli strumenti si rispondono ad eco, misurando teatralmente lo spazio musicale con ieratici intervalli di quinta. Ritornano gli squilli degli ottoni, possenti come voces clamantes in deserto, poi poco per volta tutto si ricompone in un quadro di immota attesa. È il Giudizio Universale. Preceduta da un formidabile rullo delle percussioni, si scatena una nuova, selvaggia marcia che rielabora il tema del Corale Dies irae, evocando, ancora una volta con piglio decisamente teatrale, i “morti che si alzano e procedono in un corteo infinito”; quando le energie si placano, si squaderna il “Grande Appello”, introdotto dai corni e da quattro trombe che suonano in direzioni diverse e fuori dall’orchestra, in lontananza, all’uso delle fanfare militari. Agli ottoni in lontananza rispondono prolungati ricami di flauto e ottavino, sotto i quali Mahler annota wie eine Vogelstìmme, “come la voce di un uccello”: sono i “suoni di natura” che si fanno udire nell’ora estrema, eco tremolante della vita terrena. Quando anche questa voce di natura si è spenta, attacca il coro a cappella in pianissimo, lento e misterioso, con un effetto di arcana, purissima suggestione emotiva. Tutti gli elementi che concorrono a definire quest’ultima sezione vocale della Sinfonia avevano già fatto la loro apparizione in precedenza e si trovano qui rifusi e completati: soprattutto il tema della Resurrezione (una quinta discendente seguita da un disegno ascendente per gradi congiunti), che era stato preannunciato ma solo accennato, assume ora un rilievo decisivo. La distribuzione vocale va dal coro a cappella dell’inizio agli interventi solistici del contralto cui si aggiunge un soprano (O glaube, mein Herz, o glaube), fino alla massima espansione di coro e solisti insieme (O Schmerz! Du Alldurch-dringer!). La ripresa del coro “con la massima forza” e a piena orchestra dell’Aufersteh’n conduce all’epilogo osannante, cui partecipano ora anche l’organo con il suo sonoro ripieno e tre campane dal suono grave e solenne.

Rispetto all’inno di Klopstock da cui prese lo spunto, Mahler utilizzò soltanto i primi otto versi del testo originale con alcune piccole modifiche, proseguendo poi con un proprio libero corso di idee e di immagini. Anche in questo tratto si manifestava la volontà di affermare un principio del tutto personale, di tradurre in parole i propri pensieri e sentimenti a coronamento di un ciclo di morte e redenzione nel quale alla musica, con inesausta tensione, era toccato di compito di rappresentare tutta la sua vita e di indicare la strada verso la salvezza.

Sergio Sablich

Guida all’ascolto 3 (nota 3)

Nel 1888, subito dopo aver terminato la Prima Sinfonia, Gustav Mahler cominciò ad abbozzare una seconda partitura sinfonica, la cui stesura, fra abbandoni e ripensamenti, lo avrebbe impegnato fino al 1894. Sono gli anni in cui Mahler viene acclamato come direttore d’orchestra, alla guida dei teatri di Budapest e Amburgo; ma la sua opera di compositore non viene parimenti apprezzata. La prima esecuzione della Prima Sinfonia, a Budapest il 20 novembre del 1889, è un sostanziale insuccesso, il primo dei tanti che accoglieranno i successivi lavori sinfonici. Per l’esattezza in questa prima versione la Prima Sinfonia venne presentata al pubblico con il titolo di “poema sinfonico”, e solamente nel 1896 perdette tutte le didascalie esplicative per acquistare il nome di “Sinfonia”.

Negli anni di gestazione della Seconda, dunque, centrale è nel pensiero di Mahler il superamento di quell’antitesi fra “musica pura” – veicolata attraverso l’equilibrio delle grandi forme ereditate dal classicismo – e “musica a programma” – per cui all’origine di una composizione musicale si doveva porre un percorso letterario o ideale – che aveva animato tutto il dibattito musicale della seconda metà del secolo, trovando le proprie incarnazioni-simbolo nelle figure di Brahms, da una parte, e della scuola neo-tedesca di Liszt e Wagner dall’altra. L’ingresso di Mahler nel mondo sinfonico si muove in direzione della ricomposizione di questa antitesi, o meglio del suo superamento.

La genesi complessa e tormentata della Seconda Sinfonia è, in questa direzione, quasi altrettanto indicativa di quella della Prima. L’attuale primo tempo della Sinfonia fu il primo ad essere composto, in una veste musicale sostanzialmente analoga a quella attuale, ma con un titolo, «Totenfeier», ossia “Esequie”. E in effetti il contenuto luttuoso di questo movimento si avvicina al poema sinfonico più che a un primo tempo di sinfonia; eppure l’autore vi appose l’indicazione di «Sinfonia in do minore. I movimento». Che questo tempo isolato costituisse qualcosa di sostanzialmente inedito rispetto alla produzione contemporanea è confermato dal giudizio fortemente negativo di Hans von Bülow, il grande pianista e direttore, tenuto in somma considerazione da Mahler, il quale sembra abbia affermato che, in confronto, il Tristano di Wagner appariva come una sinfonia di Haydn; dunque lavoro di olimpica serenità, anziché di macerazione interiore e crisi espressiva.

Il parere di Bülow non fu forse senza conseguenze, se si pensa che Mahler accantonò la partitura, per riprenderla solamente nel 1893, con l’aggiunta dei tre movimenti successivi. Per l’esattezza l’autore si basò su un suo Lied di qualche anno prima, Des Antonius von Padua Fischpredigt, per elaborare un vasto Scherzo. Tornò poi agli abbozzi del 1888 per comporre un tempo lento, Andante moderato. Dalla stessa raccolta del Lied alla base dello Scherzo, la celebre antologia di poesia popolare Des Knaben Wunderhorn (“Il corno magico del fanciullo”) raccolta da Achim von Arnim e Clemens Brentano, Mahler trasse anche il testo per il Lied Urlicht (“Luce primordiale”), che, a questo punto della gestazione, o forse l’anno successivo, venne inglobato nel progetto della Sinfonia; «Provengo da Dio e voglio ritornare a Dio» è il verso chiave di questa lirica popolare. Rimaneva il problema del finale. E proprio la morte di Hans von Bülow, nel 1894, doveva costituire lo stimolo involontario che convinse Mahler a compiere un passo che in un primo momento gli era sembrato temerario, per l’inevitabile confronto con la Nona Sinfonia di Beethoven: aggiungere all’ultimo movimento la presenza del coro, una scelta che, prima di Mahler, solo Mendelssohn aveva osato replicare, con la Sinfonia-Cantata «Lobgesang». Lo stesso autore ha raccontato qualche anno più tardi: «In quel periodo Bülow morì ed io fui presente qui [ad Amburgo] alle sue esequie. Lo stato d’animo che dominava in me mentre me ne stavo là seduto pensando allo scomparso, corrispondeva proprio allo spirito dell’opera che era allora in gestazione. Ecco, il coro intona dall’organo il Corale di Klopstock: «Aufersteh’n» (“Risorgere”)! Ne fui colpito come un lampo, e tutto appariva al mio spirito in assoluta chiarezza e limpidità!».

Chiaro insomma l’intendimento di Mahler; la Seconda Sinfonia doveva essere l’espressione di un percorso che portava dalle esequie (il movimento «Totenfeier») alla Resurrezione, esplicitata attraverso l’intervento corale sul testo di Klopstock; il tutto sviluppato nella dilazione e nella progressiva transizione di tre movimenti intermedi, incluso il desiderio di “ritornare a Dio” del Lied di Arnim-Brentano. D’altro canto il tema della rinascita, della resurrezione era, per così dire, nell’aria; dal poema sinfonico Tasso, lamento e trionfo di Liszt a Morte e trasfigurazione e Così parlò Zarathustra di Strauss, alla Prima Sinfonia di Skrjabin, le composizioni musicali che interpretavano la rigenerazione dell’uomo erano numerose, e trovavano, a livello speculativo, un corrispettivo e una fonte di ispirazione nella teoria nietzschiana dell’eterno ritorno. Un preciso percorso ideale, dunque, è quello della Seconda Sinfonia, esplicitato dallo stesso autore nel 1901 con una serie di didascalie illustrative, che riferiscono, a proposito del tempo iniziale, i dubbi e gli interrogativi dell’esistenza; prospettano poi i tempi centrali come intermezzi; e offrono infine, con l’ultimo tempo, una risposta agli interrogativi iniziali. Senonché, come ha sostenuto lo studioso Henry-Louis de La Grange, Mahler ebbe occasione di scrivere almeno quattro differenti programmi per la Seconda, in più punti divergenti. E lo stesso compositore ebbe modo di chiarire come fosse per lui «una insulsaggine inventare della musica a partire da un programma dato» (lettera a Max Marschalk del 26 marzo 1896) e come la funzione autentica del programma fosse quella di rendere meno ostica una musica così impervia per gli ascoltatori del tempo.

Superfluo, dunque, un programma dettagliato per un percorso che si traduce e si realizza in termini prettamente musicali. La scelta di Mahler di veicolare questo percorso attraverso la forma sinfonica è già a questo proposito indicativa. Senonché diverso è poi l’uso che viene compiuto degli elementi musicali; la forma sinfonica, invece di nutrirsi della coerenza e della coesione di tutti i materiali, viene animata invece da una logica del tutto dissimile, che si avvale di materiali eterogenei e li allinea non secondo ferrea consequenzialità, ma piuttosto secondo sbalzi logici. C’è, innanzitutto, la soluzione, del tutto originale, di inserire nella sinfonia il canto liederistico; se già nella Prima Mahler aveva fatto ricorso a un suo Lied giovanile per il materiale tematico del primo movimento (e a una canzone popolare, Frère Jacques, per il terzo), analogo procedimento è quello dello Scherzo della Seconda, che viene costruito ampliando il Lied sulla predica ai pesci, tratto dalla raccolta di Armin-Brentano. E davvero inedita e ardita è la decisione di ricorrere nuovamente al “Corno magico del fanciullo” per inserire nella sinfonia un Lied cantato; la fede incrollabile e insieme ingenua, popolare, di questo Lied è effetto dell’impiego di materiali non “aulici” ma umili. Accanto al Lied si pongono poi danze caratteristiche, marce, squilli e richiami lontani, suoni della natura; il tutto, assemblato sincretisticamente, rivela però solo strada facendo la sua funzione e la sua perfetta coerenza costruttiva.

Si parte dunque dalla «Totenfeier», movimento che si articola nello schema classico – esposizione bitematica, sviluppo, ripresa e coda – ma che rinnega poi la logica consequenzialità classica, in favore della divagazione, della peregrinazione verso orizzonti lontani, che tuttavia si dipanano tutti da un ritmo di marcia funebre sotteso a tutto il movimento. Il vigoroso gesto iniziale di violoncelli e contrabbassi – una frammentaria scala ascendente, che ricade su se stessa – rimane in sottofondo, tanto rispetto al ritmo marziale dei legni, che si afferma poco dopo, quanto rispetto allo squarcio lirico del secondo tema, esposto dagli archi. Invece di una replica testuale dell’esposizione Mahler preferisce far ascoltare nuovamente, ma in una luce diversa, tutto questo materiale. Dal secondo tema parte poi la sezione dello sviluppo, che conduce questa volta, a più riprese, verso una interpretazione affermativa e trionfalistica della marcia. La scala ascendente dei bassi, che si insinua anche nello sviluppo, è anche il punto di partenza per la riesposizione, che ripropone tutto il materiale iniziale in una prospettiva nuovamente trasfigurata. Dal mormorio discendente dei bassi procede la coda, verso un progressivo e calibratissimo crescendo-descrescendo, sigillato da un ultimo scoppio. Proprio la coda porta al maggior grado di complessità quello che è uno degli elementi costanti e più seducenti del movimento, ossia il fittissimo ordito polifonico, che stratifica i vari elementi tematici senza snaturarli ma donando anzi loro nuovo rilievo proprio dal reciproco contrasto.

Il blocco massiccio e austero del tempo iniziale confligge nettamente con i tre tempi centrali che fungono da intermezzi, tanto che lo stesso Mahler prescrive in partitura una pausa di circa cinque minuti prima del tempo seguente. E infatti l’Andante moderato si profila come qualcosa di nettamente diverso; si tratta di un Ländler, una danza popolare, che si presenta attraverso i soli archi, e ha comunque a ogni nuova apparizione una veste rinnovata e quasi cameristica, che mette in rilievo i violoncelli, oppure preferisce la leggerezza del pizzicato. Questo Ländler viene intercalato con episodi dissimili, che partono da un’ambientazione trasparente e quasi mendelssohniana per sfociare in esiti più complessi. Ma è il lirismo puro e struggente della danza a imporsi poi, spegnendo nel nulla il movimento.

Con il terzo tempo, lo Scherzo «In ruhig flieBender Bewegung» (“In un movimento tranquillamente scorrevole”) troviamo la parafrasi del Lied sulla predica ai pesci di Sant’Antonio da Padova; c’è in questo tempo il fluire continuo del ritmo, che rimane incessante, come elemento acquatico; e ci sono le melodie ingenue, cantilenanti, che restituiscono la semplicità del canto popolare. Si insinuano più volte squilli festosi, che vengono smentiti però da struggenti melodie o da improvvisi e disarmanti ripiegamenti. Su tutto si impone però ancora una volta la complessità dell’ordito polifonico, che dona prezioso rilievo agli arabeschi dei legni, come ai sinistri interventi dei timpani. Si inserisce, senza soluzione di continuità, la voce di contralto che incarna il Lied Urlicht; all’angoscia e al dolore del contralto e degli archi rispondono fiduciosamente le sommesse fanfare degli ottoni. Clarinetti e violino solo aprono l’episodio centrale; e il Lied trapassa poi nella calorosa e candida perorazione finale.

Retrospettivamente, i tre movimenti centrali rivelano il loro più autentico significato; alla marcia funebre dell’eroe si contrappongono tre diverse incarnazioni del “popolare”, espressioni di uno stadio ingenuo e pertanto più autentico della coscienza, esempi di come il sinfonismo di Mahler traduca un disagio cosmico, universale. In particolare il quarto tempo, con il suo atto di fede, costituisce il vero punto di passaggio verso il grande affresco del finale, autentico contraltare del blocco del primo tempo. Come nella Nona di Beethoven anche qui l’intervento del coro viene preceduto da una vasta introduzione orchestrale, che si presenta però come estremamente eterogenea. Un grande scoppio orchestrale lascia spazio all’intuizione di una “trasfigurazione”, con squilli che si appoggiano a una melodia discendente. Si giunge così a un misterioso silenzio, in cui squillano richiami lontani – una sorta di Tuba mirum per questo giorno del giudizio – e gli strumenti a fiato si propongono come consolatori suoni della natura. Dopo una sorta di marcia, ecco che, sul tremolo degli archi, i legni espongono un breve inciso discendente, cui si contrappone un corale degli ottoni. Il richiamo lontano viene “trasfigurato” e il movimento incessante degli archi ci riporta all’ambientazione del primo tempo. Poi il rullo dei timpani introduce a una vasta e complessa marcia. Riappare ai tromboni l’inciso discendente, si inseriscono nuove fanfare lontane, e si impone una nuova trasfigurazione. Poi ancora una sezione di silenzio, rotto dai richiami esterni e dai suoni di natura dei fiati. Il procedimento usato è insomma quello della dissolvenza e dell’accumulazione, che restituiscono tensione e preparano all’ingresso del coro. Dopo tanta temperie, ecco che ancor più disarmante e efficace è l’ingresso del coro a cappella a quattro voci, dalle quali emerge sul finire il candore del soprano solista, autentica corifea. La sezione corale e conclusiva della partitura non presenta in realtà materiale nuovo – né sarebbe possibile dopo l’accumulo dei temi già sentiti – ma riprende i temi molteplici dell’introduzione, donando loro una nuova veste e un nuovo significato, quello appunto della liberazione dalle “terrene cose”. C’è il tema “trasfigurato” e c’è un nuovo ingresso del coro, con un sobrio accompagnamento orchestrale. Poi, sul tremolo degli archi, è il contralto a intonare l’inciso discendente, che costituisce l’autentica affermazione di fede. Ritroviamo il corale degli ottoni, che il coro palesa essere esortazione alla vita. Contralto e soprano duettano animatamente respingendo dolore e morte. E tutto è pronto per la grande climax che porta alla massima apoteosi, con squilli grandiosi, intonazione collettiva e risuonar di campane, il tema della trasfigurazione. La quale trasfigurazione, però, non si esaurisce nel gesto retorico che talvolta le si attribuisce; nel lungo percorso che la precede, nella “storia” di quel materiale tematico, ripetutamente dilazionato nella sua autentica e conclusiva valenza, riconosciamo l’esperienza del dolore, che è sempre cifra autentica e ineludibile della musica di Mahler.

Arrigo Quattrocchi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 21 Novembre 1993
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 25 Ottobre 2003
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Chiesa di sant’Ignazio, 6 maggio 1998

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