La catastròfa. Marcinelle, 8 agosto 1956 i post

La lingua della miniera: autobiografie e memorie di minatori italiani in Belgio

Daniele Comberiati

Dottorando ULB di Bruxelles

Numeri e ragioni di un esodo

Il quindicennio 1946-1960 fu caratterizzato da un’enorme migrazione di lavoratori italiani in Belgio, quasi mezzo milione furono quelli che raggiunsero le miniere belghe. Si tratta del più grande fenomeno migratorio che il Belgio abbia mai conosciuto, poiché la comunità italiana divenne ben presto più numerosa di quella marocchina (la seconda per importanza) o di quella congolese, proveniente dall’ex colonia.

Il Belgio aveva bisogno della manodopera straniera in alcuni settori industriali, soprattutto nelle miniere di carbone. Vi erano diverse difficoltà nel reclutare minatori locali: il lavoro era duro, le malattie che venivano contratte non erano riconosciute come malattie professionali, il sindacato era ben organizzato (Morelli, 2004). Il ministro socialista Achille Van Acker, responsabile delle miniere, non aveva altra scelta: poiché il Belgio aveva necessità assoluta di vincere la cosiddetta «battaglia del carbone» (Burnelle, 1945) fu costretto a importare manodopera straniera. Il famigerato accordo italo-belga fu firmato a Roma, in protocollo, il 20 giugno 19461. Prevedeva che il governo italiano inviasse ogni settimana 2.000 minatori. I prescelti dovevano avere meno di trentacinque anni e superare l’esame medicoche si svolgeva a Milano, dove la Sicurezza Belga cercava di isolare i soggetti ritenuti sovversivi. L’accordo non prevedeva alcun periodo di addestramento e se il minatore si rifiutava di scendere poteva venire arrestato e rinviato in Italia. Nell’accordo bilaterale del 1946, inoltre, si era deciso che gli alloggi dovessero essere gratuiti e almeno decenti.

In realtà le abitazioni erano solo apparentemente gratuite: la direzione della miniera scalava l’equivalente dell’affitto dagli stipendi dei minatori, obbligandoli così a rimanere con la stessa compagnia fino all’estinzione del debito. La qualità era relativa: si trattava delle baracche utilizzate per i prigionieri durante la Seconda guerra mondiale. Questi campi erano vicini alle cave, le case erano costruite in lamiera, legno o carbone asfaltato su terreni abbandonati, addossati a montagne di rifiuti. All’interno i dormitori non erano riscaldati, mancavano acqua gas ed elettricità, i gabinetti erano all’esterno. Il clima piovoso del Belgio rendeva gli alloggi fangosi e insalubri. La vita nella miniera fu organizzata in modo da tenere gli emigranti il più lontano possibile da organizzazioni comuniste o socialiste. Durante il periodo mussoliniano molti antifascisti avevano preso la via del Belgio. I comunisti avevano anche fondato, nell’immediato dopoguerra, quello che era al tempo l’unico giornale italiano, Italia di Domani, che prese presto il nome di Italia libera.

Con l’arrivo dell’emigrazione di massa, il «pericolo comunista» poteva considerarsi piuttosto serio: il sindacato cattolico belga Csc (Confédération des Syndicats Chrétiens) fece nel 1946 un accordo con le Acli per organizzare i nuovi arrivati. Nel 1947 venne edito il settimanale cattolico Sole d’Italia, fortemente anticomunista. Gli ambienti padronali assicurarono aiuti finanziari alle Acli e ai missionari italiani. Questi ultimi venivano inviati per organizzare e controllare le comunità emigrate, in collaborazione con i diplomatici italiani e la Democrazia Cristiana (Monaca, 1970). Talvolta la Federazione delle miniere belghe (Fédéchar) pagò uomini di fiducia per controllare i propri connazionali. In un contesto del genere il disastro di Marcinelle sembrò una tragedia annunciata. I fatti del famigerato 8 agosto del 1956 sono noti: nella miniera Bois du Cazier, a Marcinelle, a causa di un banalissimo errore umano, a quota1.045 metri sotto terra un carrello adibito al trasporto del carbone esce dai binari, urtando i cavi dell’alta tensione. L’incendio, favorito dalla massiccia presenza di grisou, divampa immediatamente: per i minatori rimasti intrappolati non c’è scampo. Solo 13 si salvano, mentre 262 sono le vittime, di cui più dellametà (136 perl’esattezza) italiane. Se la strage ebbe, per così dire, il merito di porre l’attenzione sulle condizioni disastrose in cui lavoravano gli emigranti italiani e i minatori, il processo che la seguì risultò quantomeno discutibile. Il tribunale indicò un’équipe di esperti chiamati a far luce su quanto fosse accaduto al Bois du Cazier: questi esperti però erano gli stessi ingegneri che avevano preparato il rapporto per la Compagnia proprietaria della miniera. Il Procuratore Generale che seguì il processo, inoltre, risultò essere il fratello del direttore della Compagnia (Destrument, 2000; Forti e Joosten, 2006). I sindacati belgi si mostrarono piuttosto reticenti a perorare la causa delle famiglie dei minatori morti e a sostenerle a titolo gratuito fu un collettivo di avvocati.

In realtà le grandi Compagnie minerarie avevano già in mente le strategie da attuare in caso di grave incidente: le relazioni di ingegneri e tecnici sulle condizioni di lavoro e sulla manutenzione venivano scritte proprio per evitare guai giudiziari. La linea portata avanti dalla Compagnia risultò vincente: si attribuì il disastro a un errore umano di un minatore e l’unico onere per i dirigenti fu quello di dover versare la cifra irrisoria di 1.000 franchi belgi per ogni vittima.

Esiste una lingua della miniera? Problematiche e criteri di selezione

Nel prendere in esame i testi scritti da minatori italiani emigrati in Belgio o da persone appartenenti alle loro famiglie, si presentano diverse questioni irrisolte: innanzitutto è da istituire un criterio che avrà l’obbligo di giustificare la selezione.

Fra le testimonianze di emigranti italiani impiegati in Belgio nelle miniere, moltissime sono le opere abbozzate, scritte e mai definitivamente corrette. Altrettante sono le testimonianze orali, i progetti di memorie mai compiuti. Per cercare un filo conduttore, ho scelto di lavorare esclusivamente sulle autobiografie pubblicate: per quanto la pubblicazione non sia necessariamente il segno dell’effettiva qualità dell’opera, essa sottintende che l’autore abbia avuto la volontà di cercare un pubblico interessato al suo scritto. Inoltre l’edizione di un testo del genere permette di affrontare il discorso in maniera più approfondita: è possibile riuscire a capire il riscontro di critica e pubblico, comprendere verso quali lettori l’autore si sia rivolto. Dalla mia selezione saranno esclusi tutti quegli autori che hanno utilizzato liriche o versi. Il motivo dell’esclusione risiede nella difficoltà di includere la poesia nel genere autobiografico, e nella consapevolezza che essa necessiti di parametri di giudizio propri. L’autobiografia si basa su un patto implicito fra autore e lettore (Lejeune, 1980): il primo si impegna nei confronti del secondo a raccontare una storia in cui ci sia piena coincidenza fra autore, protagonista e narratore. Nelle opere poetiche in questione questa coincidenza viene a mancare: più che autobiografie poetiche, questi lavori sono raccolte estemporanee.

A questa piccola antologia, inoltre, apparterranno opere scritte in italiano e in francese, talvolta con intere parti in dialetto o in wallon. Alla luce di quanto detto ho selezionato dieci opere, cinque in lingua italiana e cinque in lingua francese; la maggior parte di questi testi sono autobiografie di emigranti che hanno vissuto direttamente la miniera.

Sui testi scelti vorrei fare alcune precisazioni: l’autobiografia Ritorno a Salicia – storia di un emigrante calabrese: zi’ Carmelo Sità è firmata da Carmelo  Sità e da Franco Caporossi. Si tratta dunque di un testo scritto a quattro mani, caso piuttosto frequente nelle autobiografie dei migranti. In alcuni casi gli autori non hanno una scolarizzazione sufficiente per scrivere un testo di tale lunghezza, in altri sentono l’esigenza di utilizzare la lingua del paese di accoglienza  per raggiungere un pubblico maggiore e si servono di un coautore che ha il compito di rendere il linguaggio comprensibile.

La maggior parte di questi testi presenta alcuni tòpoi comuni: l’opera si compone di tre parti ben distinte, ciascuna delle quali rappresenta rispettivamente la descrizione dell’Italia, il viaggio, il lavoro in miniera. In questo senso i libri di Antonio Bonato3 e Franco Caporossi rappresentano dei veri e propri «classici»: in un linguaggio leggermente retorico raccontano l’abbandono della patria, il viaggio, le visite mediche a Milano, la nostalgia della famiglia e la drammatica esperienza in miniera. Un messaggio sottinteso attraversa entrambi testi: il relativo benessere economico dell’Italia attuale è anche fruttodei sacrifici degli emigranti.

La data di pubblicazione è molto importante: Come era nero il carbone di Franco Caporossi è uscito nel 1983, mentre Memorie di un minatore di Antonio Bonato nel 1989. Si tratta del periodo in cui il Belgio aveva interrotto quasi del tutto le attività delle miniere carbonifere, fino a chiuderle definitivamente nel 1993: è dunque il timore degli autori di essere dimenticati che rende necessarie queste testimonianze.

Caratteristiche del tutto differenti presenta invece il testo La légion du sous-sol di Eugène Mattiato, l’unica opera scritta in lingua francese fra i minatori immigrati di prima generazione, nonché la prima autobiografia di un  minatore italiano, pubblicata nel 1958. Figlio di un italiano fuggito in Belgio a causa del fascismo, Eugène Mattiato cominciò a lavorare in miniera nel 1924. Conobbe quindi la miniera in un periodo in cui la maggior parte dei lavoratori era impegnata politicamente, e fu spettatore della seconda ondata di immigrati italiana giunta dopo il 1946. Nelle intenzioni dell’autore il testo  dovrebbe essere una sorta di manuale di sopravvivenza del novello minatore.

Diventa interessante analizzare la scelta della lingua francese: se il testo era rivolto esclusivamente a minatori italiani, sarebbe stata certamente più utile un’altra versione. Si può ipotizzare però che il testo fosse diretto a tutti i minatori immigrati (ve ne erano molti giunti dalla Turchia e dalla Grecia), oppure addirittura che, come traspare dalle autobiografie di Raul Rossetti e Girolamo Santocono, gli italiani, provenienti da diverse regioni e poco alfabetizzati, utilizzassero un francese maccheronico per comunicare fra loro che diventava una sorta di lingua franca dei minatori: era piena di termini tecnici e doveva essere semplificata per dare a tutti la possibilità di capire.

Questo testo funge da capostipite del genere e ha il ruolo di individuare  subito quale sarà il pubblico di queste opere: si tratta quasi sempre di membri della comunità italiana, di impiegati di enti sociali o religiosi4. Generalmente l’autore ha un rapporto quasi diretto con i lettori, la circolazione e la distribuzione passano raramente attraverso i canali tradizionali, ma sono legate a eventi specifici o commemorazioni.

autobiografie e memorie di minatori italiani in Belgio by Daniele …

Dallo zolfo al carbone Un film di Luca Vullo.

http://www.controappuntoblog.org/2012/06/09/dallo-zolfo-al-carbone-un-film-di-luca-vullo/

La catastròfa. Marcinelle, 8 agosto 1956 : Paolo Di Stefano – Toni Ricciardi – MARCINELLE 2016 TS

La catastròfa. Marcinelle, 8 agosto 1956 | controappuntoblog.org

Avanzamenti di Guido Bertolotti ; Marcinelle – HUELGA

catastròfa song | controappuntoblog.org


Questa voce è stata pubblicata in memoria, schiavitù e capitalismo e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.