morto Peter Principle, bassista dei Tuxedomoon, Tuxedomoon vecchio post

Tuxedomoon

18 luglio alle ore 14:32 ·

Peter Dachert “Principle”‘s cremation ceremony will take place at the Crematorium on 61, avenue du Silence, 1180 Uccle, Brussels at 11:15 am on July 24, 2017

17-07-2017

E’ morto Peter Principle, bassista dei Tuxedomoon

di Massimiliano Speri

Peter Principle, bassista e membro storico dei Tuxedomoon, è morto improvvisamente a Bruxelles, dove il gruppo stava “preparando un nuovo tour e della nuova musica”: ad annunciarlo sono i suoi ex-compagni in un breve post sul loro blog ufficiale, che si conclude con la frase “Siamo tutti scioccati. Le parole verranno più tardi”. Le conseguenze del decesso sembrano essere legate ad un malore fulminante, “probabilmente un infarto o un ictus”.

Peter Dachert, questo il suo vero nome, era nato a Queens il 5 dicembre 1954. Il caratteristico suono del suo basso è stato uno dei marchi di fabbrica dell’inafferrabile alchimia del gruppo californiano (da tempo trapiantato in Europa).

L’anno scorso i Tuxedomoon avevano già subito la perdita di Bruce Geduldig, visual artist della band sin dal 1979.

17-07-2017

E’ morto Peter Principle, bassista dei Tuxedomoon

di Massimiliano Speri

Peter Principle, bassista e membro storico dei Tuxedomoon, è morto improvvisamente a Bruxelles, dove il gruppo stava “preparando un nuovo tour e della nuova musica”: ad annunciarlo sono i suoi ex-compagni in un breve post sul loro blog ufficiale, che si conclude con la frase “Siamo tutti scioccati. Le parole verranno più tardi”. Le conseguenze del decesso sembrano essere legate ad un malore fulminante, “probabilmente un infarto o un ictus”.

Peter Dachert, questo il suo vero nome, era nato a Queens il 5 dicembre 1954. Il caratteristico suono del suo basso è stato uno dei marchi di fabbrica dell’inafferrabile alchimia del gruppo californiano (da tempo trapiantato in Europa).

L’anno scorso i Tuxedomoon avevano già subito la perdita di Bruce Geduldig, visual artist della band sin dal 1979.

http://www.ondarock.it/news.php?id=5690

Tuxedomoon

Half-Mute

di Fernando Rizzello

La fe­ri­ta oscu­ra.

Nel toc­ca­re la carne viva di que­sto disco oc­cor­ro­no pinze di Bab­cock atrau­ma­ti­che, per­ché di que­sto si trat­ta: un’o­pe­ra­zio­ne chi­rur­gi­ca di aspor­ta­zio­ne, alle vi­sce­re oscu­re della scena mu­si­ca­le dei primi anni 80.

Sotto i lam­pio­ni sin­ghioz­zan­ti di una in­fer­ma San Fran­ci­sco, tre po­li­stru­men­ti­sti, Ste­ven Brown, Blai­ne Le­slie Rei­nin­ger e Peter Da­chert in arte Prin­ci­ple, as­sor­bo­no va­gan­te ma­te­ria so­no­ra, la ela­bo­ra­no al­che­mi­ca­men­te ge­ne­ran­do un alie­no pul­san­te “vi­sci­do uovo co­smi­co” di Lo­ve­craf­tia­na es­sen­za: “Half-Mu­te”.

Al chia­ro­re pal­li­do della Luna di Tu­xe­do, l’uo­vo si schiu­de in un se­mi-si­len­zio e un­di­ci mu­tan­ti pren­do­no forma e es­sen­za, sono il frut­to am­bi­guo di madri trop­po de­di­te al­l’a­bu­so di so­li­tu­di­ne e cupe fre­quen­ta­zio­ni, flus­si di elet­tri­ci­tà ormai do­ma­ta fusa con ge­ne­ri mu­si­ca­li che per pro­ge­nie e ha­bi­tat sono ir­re­la­zio­na­bi­li.

L’in­fra­strut­tu­ra mi­ni­ma­le di “Nazca” apre l’al­bum e cer­ti­fi­ca che l’a­bo­mi­ne­vo­le schiu­sa è av­ve­nu­ta, l’in­gres­so di quat­tro ac­cor­di pa­ra­noi­ci e ri­pe­ti­ti­vi di una ra­re­fat­ta ta­stie­ra, so­da­liz­za­no con la drum ma­chi­ne pro­gram­ma­ta a bat­ti­to car­dia­co del na­sci­tu­ro. La de­so­la­zio­ne in­com­be e so­vra­sta, la crea­tu­ra deve nu­trir­si e lan­cia la sua fa­me­li­ca istan­za al mondo at­tra­ver­so i fra­seg­gi strug­gen­ti del sax di Brown, così evo­ca­ti­vi e spiaz­zan­ti tanto da as­sog­get­ta­re il senso di di­sa­gio e apri­re a trat­ti,  ina­spet­ta­ta­men­te, alla con­so­la­zio­ne. Poi lo swit­ch-off im­prov­vi­so degli stru­men­ti, solo il lar­va­to bat­ti­to del cuore fino alla fine del brano: l’in­for­me è vivo.

Il senso di al­lar­me di­vie­ne tan­gi­bi­le e mi­su­ra­bi­le in brani come “59 to 1” e “Lo­ne­li­ness”. Nella prima, dove si odono echi di teu­to­ni­ca elet­tri­ci­tà, la cru­dez­za del basso di Prin­ci­ple e i la­men­ti di un sax che scor­ti­ca fra­seg­gi funk ac­com­pa­gna­no il canto mec­ca­ni­co di un an­droi­de, di­ret­to a peg­gio­ra­re lo stato di ne­vro­si nar­ra­to da que­sto clau­stro­fo­bi­co salmo de­di­ca­to a Crono. La pa­ra­no­ia è ancor più ma­gni­fi­ca­ta nelle at­mo­sfe­re della se­con­da, dove una voce de­pres­sa re­ci­ta un li­ta­ni­co “me­men­to mori” de­gna­men­te gui­da­ta da una mar­zia­le drum ma­chi­ne, una trom­ba alie­na­ta e un ip­no­ti­co giro di basso.

Che si stia­no at­tra­ver­san­do i più cor­rot­ti ter­ri­to­ri del free-jazz, sulle sco­mo­de pan­che di un go­ti­co ca­les­se è ciò che è raf­fi­gu­ra­to sulla lo­go­ra tela di “Fifth Co­lumn” è qui che il la­sci­to idea­le della pie­tra fi­lo­so­fa­le di John Col­tra­ne è por­ta­to a gem­ma­zio­ne. Nella cupa fu­ci­na dei Tu­xe­do­moon, Brown tra­sfor­ma uno spos­sa­to sax nel man­ti­ce che ali­men­ta il fuoco sotto il cro­gio­lo e fi­nal­men­te l’ar­ca­na tra­smu­ta­zio­ne di­ven­ta con­cre­ta… l’em­pio me­tal­lo evol­ve in oro pu­ris­si­mo.

I tre sa­cer­do­ti di San Fran­ci­sco, ce­le­bra­no i riti di una nuova “avant-gar­de”, in­dos­san­do i loro bla­sfe­mi man­tel­li per dare ori­gi­ne a rin­no­va­to sgo­men­to, da ser­vi­re agli in­cau­ti adep­ti, que­sto av­vie­ne nei 2 mi­nu­ti e 49 se­con­di di “Tri­to­ne (Mu­si­ca Dia­blo)”, dove le ac­ce­le­ra­zio­ni vio­len­te del vio­li­no di Rei­nin­ger, in­sie­me agli araz­zi mi­ni­ma­li delle ta­stie­re, ge­ne­ra­no una di­sgre­gan­te ten­sio­ne emo­ti­va, frut­to anche del pec­ca­mi­no­so tri­to­no, da sem­pre proi­bi­to nel­l’ar­mo­nia clas­si­ca e da madre Chie­sa. Anche in “Volo Vi­va­ce” è an­co­ra il vio­li­no piz­zi­ca­to da Rei­nin­ger a ge­me­re e crea­re cre­pu­sco­la­ri fuo­chi fatui che il­lu­mi­na­no il sen­tie­ro trac­cia­to dal vian­dan­ti del­l’im­prov­vi­sa­zio­ne jazz.

Se nel la­bi­rin­to osseo del­l’a­scol­ta­to­re fosse an­co­ra ri­ma­sto un pò di spa­zio so­no­ro ec­co­lo su­bi­to riem­pi­to dalle pol­ve­ri spe­ri­men­ta­li di una buia e ag­ghiac­cian­te “James Whale”, omag­gio alla fi­gu­ra del re­gi­sta hor­ror del primo Frank­en­stein o forse al suo co­rag­gio­so “co­ming out” in una Hol­ly­wood del do­po­guer­ra an­co­ra trop­po bi­got­ta e pu­ri­ta­na. Le cam­pa­ne a morto suo­na­no meste e l’at­mo­sfe­ra rag­giun­ge il punto più buio e abis­sa­le di tutto l’al­bum.

Anche la spe­ran­za sem­bra ad­dor­men­tar­si nel buio, poi un sus­sul­to re­pen­ti­no, una fi­ne­stra viene spa­lan­ca­ta e la luce di “What Use?” il­lu­mi­na e fe­ri­sce gli occhi, un so­fi­sti­ca­to elet­tro-pop de­cli­na un’i­na­spet­ta­ta me­ta­mor­fo­si sti­li­sti­ca, ma resta la sola pos­si­bi­li­tà di ri­ve­de­re il gior­no la­scia­ta dal disco. Ci pen­sa­no gli in­cu­bi di “7 Years” a ri­tra­sci­nar­ci giù per l’a­bis­so dove re­gna­no le an­go­sce della Luna di Tu­xe­do, basso me­to­di­co e ca­ver­no­so, voce de­pres­sa di Brown e il vio­li­no che ri­tor­na ad es­se­re stra­zia­to e, a trat­ti, me­sme­ri­co.

In­fi­ne il ca­po­la­vo­ro fi­na­le del­l’al­bum, le due perle nere in unica suite: “KM/See­ding the Clouds”, elo­gio to­ta­le alla de­so­la­zio­ne e al­l’in­quie­tu­di­ne. È il sax ad apri­re, ma­lin­co­ni­co e fred­do si in­si­nua nel vuoto, sci­vo­la in­dif­fe­ren­te alla man­can­za di ac­com­pa­gna­men­to e pro­se­gue nel suo tor­bi­do re­frain fino a quan­do un giro del basso ci­cli­co e so­spe­so si af­fian­ca a so­ste­ner­lo, con len­tez­za un passo dopo l’al­tro nuovo ma­te­ria­le so­no­ro con­flui­sce e si ag­gre­ga al tema, come pic­co­le gocce d’ac­qua che sci­vo­la­no sui vetri delle no­stre tri­stez­ze. Poi il sax si spe­gne e le scie ba­gna­te delle tra­iet­to­rie di ca­du­ta si tra­sfor­ma­no in un sot­to­fon­do in­cor­po­reo di sin­te­tiz­za­to­ri, è il pre­lu­dio alla schiu­sa del­l’ul­ti­mo mu­tan­te: il se­mi­na­to­re di nu­vo­le. L’e­le­gan­za fosca del testo, la strut­tu­ra quasi psi­che­de­li­ca, l’e­let­tro­ni­ca por­ta­ta a si­ste­ma ne fanno l’in­no uni­ver­sa­le delle ma­ce­rie del vi­ve­re quo­ti­dia­no. Poi gra­dual­men­te il brano si af­fie­vo­li­sce e muore nelle note di un piano che viene la­scia­to da solo a spie­ga­re al mondo il senso di tanta di­spe­ra­zio­ne.

Le forme trop­po in­cer­te e di­ra­da­te del suono dei Tu­xe­do­moon, fanno si che que­sto la­vo­ro ri­sul­ti il­leg­gi­bi­le, dai co­mu­ni let­to­ri di co­di­ci a barre, ai fini della ca­ta­lo­ga­zio­ne di ge­ne­re. Cer­ta­men­te sono pre­sen­ti ci­ta­zio­ni più o meno “colte”, ma ap­pa­io­no sem­pre come omag­gi e mai sot­to­mis­sio­ni.

Half-Mu­te ha in­fer­to pro­fon­di squar­ci nel tes­su­to mu­si­ca­le del­l’e­po­ca, e que­ste fe­ri­te, seb­be­ne giu­di­ca­te gua­ri­bi­li in poco tempo, non si sono mai ci­ca­triz­za­te del tutto e an­co­ra oggi, nelle notti senza nu­vo­le, sotto la Luna di Tu­xe­do, pro­vo­ca­no tut­to­ra … oscu­ro do­lo­re

http://www.storiadellamusica.it/elettronica_grooves_dance/elettronica/tuxedomoon-half_mute(ralph_records-1980).html






TUXEDOMOON | controappuntoblog.org

Tuxedomoon – Jinx | controappuntoblog.org

Questa voce è stata pubblicata in musica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.