ieri sera ho visto “Robinù” di Michele Santoro

Questi sono ragazzi che negli anni 70 sarebbero finiti nei NAP, per chi straparla di quegli anni…

Posted 09/08/2016 by Giampiero Raganelli

Robinù

di Michele Santoro

Michele Santoro presenta a Venezia 73, nell’ambito del Cinema nel Giardino, Robinù: inchiesta sulle gang giovanili che imperversano nei quartieri di Napoli. Veri e propri bambini soldato che diventano eroi popolari nel quartiere. Vite che si bruciano in un attimo, destinate a finire, a vent’anni, nelle sanguinose faide tra gang, o in carcere.

Kids Return

I baby boss della Camorra per la prima volta si raccontano senza mediazioni: la sete di potere, l’amore per i soldi, il divertimento sfrenato, le loro pagine facebook da vere star. Ribelli insofferenti ai capi “d’o’sistema”, la vecchia Camorra, senza padroni e senza paure. Si uccidono tra loro: la droga è il motore della mattanza. [sinossi]

Il 15 giugno 2015 il tribunale di Napoli ha condannato una quarantina di imputati, perlopiù ragazzi, riconoscendo così ufficialmente l’esistenza di un cartello mafioso composto da giovanissimi gangster. È la “paranza dei bambini”, la batteria di fuoco di kalashnikov impugnati da adolescenti. Un fenomeno inquietante che ha attirato le telecamere di Michele Santoro, che ha così realizzato il film reportage Robinù, presentato a Venezia 73, nell’ambito della neonata sezione Cinema nel Giardino.
Boss e gangster mafiosi giovanissimi che postano le loro imprese su facebook e twitter, ragazzi che stanno scontando pene a Poggioreale da cui usciranno ormai adulti di mezza età (“Tu queste cose le devi fare ora. Perché così, se vai in galera per vent’anni, esci e hai tutta la vita davanti”).
Michele Santoro piazza loro la telecamera in faccia, filma la loro vita; tutto si capisce dai quei volti giovani ma già consumati, visi fotogenici deturpati da una dentatura marcia. Qualcuno in prigione ci è anche nato. E le ragazze che raccontano e si vantano di quanto sono brave a confezionare palline di cocaina. E poi le madri, donne che possono avere anche quattro figli in carcere. Santoro utilizza anche momenti rubati, frasi che i personaggi intervistati si lasciano andare raccomandando che non vengano poi inserite nel film.

I protagonisti di Robinù non sono dei villain, Santoro sa sfuggire da schematici manicheismi e si pone semmai il problema di comprendere le loro motivazioni e il contesto in cui sono maturate. Ci sono donne che non si possono nemmeno permettere il lusso di porsi interrogativi etici, “Lo faccio per dar da mangiare ai miei figli e per mio marito che è in prigione”, dice una di queste. È un modo di sentire le cose popolare, partenopeo, che vede come proprie valvole salvifiche la Chiesa, la religiosità che si coagula attorno alla liquefazione del sangue di San Gennaro, quanto attorno a Maria de Filippi, cui in molti scrivono lettere.
Il ritratto è così anche quello dei quartieri popolari di Napoli, da Forcella ai Decumani, a via dei Tribunali, a Porta Capuana, dove questi personaggi sono dei veri e propri eroi popolari, che rubano ai ricchi per dare ai poveri, ricordati come martiri. A partire da Emanuele Sibillo, il leggendario e mitizzato nuovo re di Napoli, ucciso diciannovenne all’apice della sua carriera criminale. “I figli di quella Napoli hanno il destino già deciso, segnato”, chiosa Roberto Saviano dalle pagine di Repubblica. Sembra di vedere quello stesso universo palermitano colto in Belluscone. Una storia siciliana, con i cantanti neomelodici che fanno dediche ai detenuti dell’Ucciardone.
Il film ha anche una deriva parigina nel seguire alcuni personaggi e i loro traffici internazionali. E la capitale francese si presenta alle telecamere di Santoro con la bocca dell’allegoria dell’Égalité, nel monumento di Place de la République, significativamente sbarrata, per atti vandalici. E ne esce male anche l’istituzione penitenziaria, dove i detenuti vengono maltrattati, da cui si esce marchiati come animali, e in cui i personaggi del film ricevono lettere dai loro fan. Quello che trapela nelle motivazioni ultime di questi babyboss è in definitiva, oltre all’adrenalina di compiere azioni criminali, un impulso al capitalismo, all’ostentazione dell’opulenza, la rincorsa a una vita benestante degli esclusi dalla ricchezza, in un contesto sociale dove è fortissimo il divario tra ricchi e poveri. “Se vedo uno che spende 1000 euro, io devo spenderne 2000”, dice uno dei personaggi.

Santoro conduce così un’inchiesta rigorosa – dove peraltro non compare mai come certo protagonismo televisivo imporrebbe –, puntuale e drammatica. E nell’organizzazione del materiale che presenta, lascia alle didascalie finali, prima dei titoli di coda, tutta la descrizione cronachistica dei fatti. In questo modo lo spettatore che non li conosca già – condizione sicuramente maggioritaria visto che la stampa nazionale non vi ha mai dedicato eccessivo clamore –, vede prima di tutto delle persone, i loro sentimenti, la loro vita e umanità, scevro da preconcetti.

http://quinlan.it/2016/09/08/robinu/





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