KEATS E LEOPARDI by franco buffoni – To Autumn by John Keats

Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

Il sabato del villaggioi Giacomo Leopardi

KEATS E LEOPARDI – I parte

6 febbraio 2011

Pubblicato da

di FRANCO BUFFONI

Per Friedrich Schiller, nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (composto nel 1795-6), il poeta “moderno” soffre di una lacerazione tra lo “spirito” e i “sensi”: “Il poeta sentimentale deve sempre lottare tra due sentimenti contrapposti: la realtà come vincolo e l’idea come infinito”. John Keats ha cinque anni e Leopardi due allorché Schiller, nel 1800, pubblica il suo saggio.
Certo, pensare a Leopardi per qualche settimana cavalier servente di Fanny Targioni-Tozzetti nella Firenze del 1830… o a Keats ventunenne vestito alla Byron nella Londra del 1816, quando decise d’essere poeta a tempo pieno… Per entrambi l’infatuazione mondana fu breve: quella keatsiana era già svanita nella primavera del ’17. Resta la patetica coincidenza di quel nome: Fanny. Piccolo borghese la mentalità di Fanny Brawne, e vero amore quello di Keats, ammesso ufficialmente in casa come “fidanzato” solo quando divenne palese lo stato di irreversibilità del suo male. Quindi, umiliandolo ancora di più. Era il 22 dicembre 1819. E qualche settimana più tardi Junkets (come affettuosamente lo apostrofava Hunt nei giorni felici) avrebbe scritto a Fanny: “Non lasciare che tua madre pensi che mi fa male se mi scrivi di sera. Mi piacerebbe che mi chiamassi ancora Amore. Che barriera la malattia innalza tra me e te!”.
Ma nella stessa lettera indirizzata a Fanny del febbraio 1820 si leggono anche frasi di questo tenore: “Ora che mi è accaduto di passare delle notti sveglio e pieno di ansie, altri pensieri mi hanno occupato. ‘Se morissi ora’, dicevo a me stesso, ‘non ho lasciato nessuna opera immortale dietro di me, niente che possa rendere i miei amici fieri della mia memoria’”. Keats aveva allora già composto tutte le grandi odi, ma nessuno le aveva notate. Solo l’insuccesso di Endymion pesava, con la conseguente decisione di passare da Iperione a La caduta di Iperione lasciando quest’ultima grande opera incompiuta. Probabilmente è sincero Keats quando dice di non avere ancora scritto nulla di veramente grande. Lo pensa davvero. Come Leopardi, forse, quando si vedeva accolto come “erudito” e come “filologo”…
Riconoscimento tardivo per entrambi, dunque. Post mortem. Si pensi – per contro – alle quattromila copie di Childe Harold vendute da Byron in un giorno; o all’attesa per ogni nuovo inno sacro manzoniano. E – per entrambi, Keats e Leopardi – rifiuto dei “modelli”, dopo le grandi delusioni delle conoscenze “dirette”, e rifiuto – forse – anche dell’idea di diventare popolari. Il “popolaccio” d’Italia, annotava Leopardi, è il più cinico fra tutti i popolacci. (“Sento che è nelle mie possibilità diventare uno scrittore popolare”, scrive Keats a Reynolds il 25 agosto del ’19, “e sento anche in me la forza per rifiutare il velenoso consenso del pubblico”). Per non dire della fuga di entrambi dai circoli letterari e dai salotti. In Keats il disprezzo è per il “literary chit-chat” londinese: “Sono assolutamente disgustato dei letterati”, scrive a Bailey nell’ottobre del 1817, “e non ne voglio conoscere più, eccetto Wordsworth”. (L’incontro avverrà e sarà per Keats la delusione più grande). E nel 1822-3, in occasione del soggiorno a Roma, Leopardi ha modo di osservare: “Questi miserabili letterati mi disgustano della letteratura. Tutto questo m’avvilisce in modo, che s’io non avessi il rifugio della posterità, e la certezza che col tempo tutto prende il suo giusto luogo (rifugio illusorio, ma unico e necessarissimo al vero letterato), manderei la letteratura al diavolo mille volte”. E in questo possiamo – volendo – cominciare a individuare una prima differenza. Leopardi visse abbastanza a lungo per poter credere nella necessarissima illusione di una posterità che raddrizza i torti. Keats no.
E per fortuna non aveva ragione Arthur Hallam, che – in epoca vittoriana, a proposito di Keats e Shelley – giunge a chiedersi: “Ma perché mai dovrebbero essere popolari, loro, i cui sensi sempre colsero racconti tanto più ricchi e ampi di quanto la maggior parte degli uomini potesse comprendere, e che costantemente espressero, perché costantemente sentirono, sentimenti di piacere squisito e dolore, che alla maggior parte degli uomini non è concesso di provare?”. Non aveva ragione, perché poi i posteri rimisero le cose a posto. E quindi è forse possibile alludere a una specie di legge del contrappasso poetico – concernente in particolare il periodo romantico – in ragione della quale difficilmente i posteri apprezzano ciò che i contemporanei esaltano. Ma il giudizio di Hallam, sostituendo idealmente al binomio Keats-Shelley il binomio Keats-Leopardi, può fungere da perfetto tramite per illustrare un altro fondamentale tratto in comune tra i due poeti. Hallam parla di estrema tensione dei sensi, di assolutamente non comune stress emotivo. “Si ha talora la sensazione che i nostri padri, i contemporanei dell’Offenbach più giovane, e i nostri nonni, i contemporanei di Leopardi, e tutte le innumerevoli generazioni antecedenti, abbiano lasciato in eredità a noi, i posteri, solamente due cose: mobili carini e nervi raffinati”. Così inizia un saggio di Hugo von Hofmannsthal del 1892.
Inutile dilungarci sulla questione salute e nevrosi in Leopardi. E in Keats? “Penso che se avessi una libera, sana e duratura organizzazione di cuore e polmoni – forti come quelli di un bue – così da poter sopportare incolume l’urto estremo di pensiero e di sensazione senza stancarmi, potrei passare la vita da solo anche se dovesse durare ottant’anni. Ma sento che il mio corpo è troppo debole per sostenermi… sono continuamente obbligato a frenarmi e cercare di essere un nulla”. Cattiva salute, nevrosi e stanchezza. Nella lettera a Reynolds del 21 settembre 1819 si legge: “Perdonami se non riempio l’intera pagina… Durante la mia passeggiata, oggi, mi sono piegato per passare sotto una specie di ringhiera che era sulla mia strada, e mi sono chiesto: ‘Perché non l’ho scavalcata?’. ‘Perché’, mi sono risposto, ‘nessuno ha voluto forzarti a passarci sotto’”.
Ma anche – per entrambi – nevrosi come produttrice di immagini e di memorabili epifanie. Nella medesima lettera si legge ancora: “In qualche modo i campi di stoppie sembrano caldi, come può sembrare caldo un dipinto. Questo mi ha colpito così tanto durante la mia passeggiata domenicale che ho scritto una poesia”. Per incidens: si tratta di “To Autumn”. Ma Keats, a questi componimenti scritti di getto – che poi sono quelli che lo hanno consegnato per sempre alla storia della poesia – non dava importanza. Per lui contavano solo i cosiddetti longer poems. E in questo atteggiamento vediamo una sostanziale ragione di distanza di Leopardi rispetto a lui. Intendendo Leopardi come poeta consapevolemente moderno. Anche nella invenzione metrica e nel rifiuto dei longer poems mitologici. Keats come moderno malgré lui.
A riguardo può essere illuminante citare dalla lettera a Bailey dell’8 ottobre 1817, dove Keats si domanda “perché intraprendere un long poem?”. La risposta è quanto di meno “moderno” (nel senso leopardiano) si potrebbe immaginare: “Chi ama la Poesia non preferirebbe forse avere una piccola regione in cui vagare di fiore in fiore, e in cui le immagini fossero così numerose che molte se ne potessero perdere e ritrovarne delle nuove a una seconda lettura? dove ci fosse cibo in abbondanza per una passeggiata di una settimana in primavera? Non preferirebbero questo a qualcosa che si fa in tempo a leggere prima che Mrs. Williams scenda le scale? il lavoro di una mattina al più? Inoltre un Poema lungo mette alla prova l’invenzione che secondo me è la stella polare della poesia, come la fantasia è le vele, e l’immaginazione il timone. I grandi poeti hanno forse mai scritto dei pezzi brevi?”.
Il punto è davvero cruciale. Keats spese l’intera esistenza alla costruzione di superbe architetture mitico-poetiche (Endymion, Hyperion…) riuscendo al più a soddisfare il gusto medio di qualche contemporaneo. Che tuttavia non le apprezzò più di altre “superbe” architetture di autori oggi completamente dimenticati. Se di Keats ancora leggiamo, traduciamo e studiamo i longer poems è perché egli è l’autore delle brevissime odi all’usignolo, all’urna greca, all’autunno. E persino della ballata della “Belle Dame” che lo consacrò presso i pre-raffaelliti. Tutte composizioni scritte di getto, senza un minimo di architettura, se non quella della nevrosi e dell’anima. E naturalmente dell’expertise acquisita scrivendo e architettando i longer poems. Si potrebbe proprio dire che questi ultimi servirono ad uno scopo assolutamente ignoto all’autore. Furono tirocinio, laboratorio, palestra sempre in funzione: il mito del long poem accompagna infatti Keats sino alla fine, con la scrittura interrotta di The Fall of Hyperion. I quattro favolosi anni della vita poetica keatsiana sono dunque vòlti alla illusoria creazione del nuovo grande Paradise Lost; tuttavia essi inanellano – come una catena alpina avvolta dalle nebbie – le grandi vette (“casuali”) dei componimenti brevi. E naturalmente – all’interno dei longer poems – appaiono brani stupendi di libera poesia che potrebbero benissimo costituire dei componimenti autonomi, come l’inno a Pan o la canzone della fanciulla indiana, rispettivamente nel I e nel IV libro di Endymion.
Pensiamo invece a Leopardi e alle sue modernissime redazioni in prosa preparatorie della successiva “messa in versi” nei Canti. Dove l’architettura consiste in un ragionamento e la mitologia – il mythos – funge esclusivamente da punto di appoggio virtuale per la distensione del logos. In questa ottica, Keats (con la sua distinzione tra la grande “costruzione” mitologica dei longer poems e la irrilevante “spontaneità” delle composizioni brevi) ci appare molto più vicino a Foscolo o a Hoelderlin che a Leopardi. Ma Hoelderlin – per contro – è più apparentabile a Leopardi per quanto attiene l’ambito metrico-formale, in particolare l’”invenzione” del verso libero.

Scrive Leopardi: “Il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi… con non altra soddisfazione che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui”. Sintetizza Keats nell’incipit all’Endymion: “A thing of beauty is a joy for ever”. Non credo sia il caso di ritornare sulla questione della settecentesca e frequente menzione associata dei termini “bellezza” e “verità”. Già ho avuto modo di osservare come, infine, la bellezza si configuri alla stregua di una “funzione” della verità, e la verità di una funzione della bellezza. Per Keats, certamente, bellezza e verità possono anche venire separate nell’analisi, ma – nella viva esperienza dell’atto creativo – sono tanto inseparabili quanto l’emozione lo è dal pensiero. Perché, tanto la verità quanto la bellezza indicano – l’una nel linguaggio del cervello, l’altra in quello del sentimento – che è il momento della perfetta sintesi creativa: il momento cioè della coincidenza tra stato emotivo, capacità artistica e istante particolare dell’essere universale. Il momento, per dirla con Carlyle (coetaneo di Keats, ma in grado poi di attraversare fisicamente l’intero secolo), in cui “l’infinito si fonde con il finito, e si rende visibile, così che pare di poterlo afferrare, quaggiù”.
Per Leopardi il vero era nella filosofia; il bello nella poesia. C’è una famosa lettera dello Zibaldone in cui il poeta dichiara che in ogni grande filosofo è un grande poeta e in ogni grande poeta è un grande filosofo. E, precocemente raggiunta la convinzione dell’impossibilità di rigenerazione – o persino di conoscenza – attraverso una palingenesi di stampo salvifico, la filosofia diventa scienza. Come Bacone, come i primi grandi greci, Leopardi si occupa di scienza dichiarando di star facendo filosofia. Sempre temendo, naturalmente, l’alterigia, la supponenza dell’”arido vero”, ma fortemente percependo l’irrinunciabilità di tale propensione.
Ma la vera ragione per cui mi sono indotto ad accostare i due poeti che più ho amato nella mia giovinezza, concerne l’assoluta onestà intellettuale di entrambi, che impedisce loro di abbracciare surretiziamente un credo metafisico.

https://www.nazioneindiana.com/2011/02/06/keats-e-leopardi-i-parte/

KEATS E LEOPARDI – II parte

13 febbraio 2011

Pubblicato da

di FRANCO BUFFONI

Leopardi, nel trattato sugli errori popolari degli antichi, facendo risalire all’ignoranza e alla credulità acritica l’origine delle credenze magico-oracolari pagane, in realtà liberò se stesso da tutte le nozioni che non reggevano alla luce della ragione. Liberò se stesso per assoluta onestà intellettuale. Ma non gli altri. Tanto è vero che definisce la religione “una illusione necessaria”. Proprio come Keats che parla volterrianamente di “una pia frode”. Per riassumere la posizione di entrambi può valere la superba sintesi che nel Trecento diede Marsilio da Padova nel Primo Libro del Defensor Pacis: “Sebbene alcuni filosofi che stabilirono tali leggi o religioni non credessero a quella vita futura che chiamavano eterna e alla resurrezione umana, nondimeno finsero e persuasero gli altri che questa vita esistesse, e che in essa i piaceri e le pene fossero proporzionali alla qualità degli atti compiuti in questa vita mortale”.
“… Non io / Con tal vergogna scenderò sotterra”. Qual è, quindi, la vergogna di cui, nella “Ginestra”, Leopardi giura che non si sarebbe mai macchiato? Certamente la vergogna di avere ceduto ad una credenza finalistica, ad una concezione teleologica dell’esistenza. Nella convinzione che la vera alterigia è quella di chi, non sapendo accettare umilmente il proprio stato di mero caso biologico, giunge a ritenersi un essere in qualche modo “eletto”, e – spregiando il “finito” – persegue la propria finalistica elezione sopra a tutte le altre specie. “Io tengo per fermo”, afferma il Folletto nel “Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo”, “che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”.
E che cosa significa quel “alone” che appare nel penultimo verso del keatsiano “Can Death be Sleep, when Life is but a Dream”, se non “senza il pensiero consolante della esistenza di Dio”?

How strange it is that man on earth should roam,
And lead a life of woe, but not forsake
His rugged path; nor dare he view alone
His future doom which is but to awake.

(Come è strano che l’uomo debba vagare per il mondo
E condurre una vita di pene, ma non lasciare
Il suo irto sentiero, né osare guardare da solo
La sua futura condanna, cioè il risveglio).

Per Leopardi “la felicità consiste nella ignoranza del vero”, dove “vero” vuol dire consapevolezza della propria finitezza biologica senza alcuna illusione di stampo metafisico. Chiarissima, dunque, la sua collocazione nella storia e nella psiche umana di religione, ideologie e miti. Per tornare a Marsilio, l’invenzione delle religioni da parte di alcuni astuti filosofi aveva una fondamentale funzione: controllare quegli atti che in vario modo potessero sfuggire al controllo della legge civile. Quindi, per tenere sotto controllo le coscienze. Non a caso Marsilio da molti studiosi viene considerato tra i precursori di Machiavelli. A Leopardi e a Keats tale aspetto certamente non interessava. Tuttavia le conclusioni cui giungono sono le medesime, pur nel rammarico di non poter affermare il contrario. Meglio la disperazione piuttosto del venire meno della onestà e della lucidità intellettuale.
Di fronte ad ogni prova, ad ogni evidenza testuale, appaiono pertanto grotteschi, patetici, per non dire pelosamente faziosi, e in alcuni casi insultanti il coraggio intellettuale dei due poeti, i tentativi di leggerne cristianamente l’opera. Confondendo i numerosi riferimenti all’Antico o al Nuovo Testamento – null’altro che citazioni, sinonimo di appartenenza a una determinata civiltà culturale – con latenti dichiarazioni di fede. E la bibliografia – e quindi la mancanza di rispetto – a riguardo è piuttosto ampia.
La loro verità – per stare alla accezione leopardiana del termine – è lì stagliata orribilmente contro i farisei.
Stiamo parlando di poeti giovani, ancora capaci di sdegnarsi e di gridare “non è vero!”. Come si legge in “Sopra al monumento di Dante”: “… Anime care, / Bench’infinita sia vostra sciagura, / Datevi pace; e questo vi conforti / Che conforto nessuno / Avrete in questa o nell’età futura”. E Keats sino all’ultimo, nella stanza di Piazza di Spagna, all’amico Severn che tenta di convertirlo, replica: “You know, Severn, I cannot believe in your book — the Bible”. Fossero vissuti in buona salute, più a lungo, molto più a lungo, probabilmente il loro sdegno si sarebbe affievolito, il grido di verità si sarebbe attenuato, magari nella consapevolezza della necessità di un compromesso, utile alle anime semplici, necessarissimo alla tranquillità. Ma morirono giovani con quella convinzione. Quindi non è lecito distorcerne il pensiero. Invece è forse il caso di riflettere consapevolmente sulla genialità di Leopardi, che in un’epoca in cui la storia del mondo veniva ritenuta antica di quattromila anni, riesce a cogliere – caso unico tra i letterati europei dell’Ottocento (si pensi a Marx, a Hegel!) – il senso dell’abisso del tempo (quello che noi oggi definiamo “tempo profondo”), delle decine di migliaia di anni di vita associata che stanno alle spalle della Sapiens-sapiens: quando accenna ai popoli dell’Asia – “gli Imperi Orientali” – allo spessore immenso della loro storia. E Keats, con una intuizione altrettanto geniale, capace di anticipare verità scientifiche poi darwiniane, a chi gli suggeriva – al v. 311 del Primo Libro di Endymion – di sostituire il verbo “to bob”, con “push” o “raise”, trattandosi di delfini, rispondeva che proprio perché si trattava di delfini il verbo doveva contenere il senso di una volontaria e consapevole ludicità.
E entrambi, ne sono certo, sono gli ideali dedicatari di questo “raccontino” di Borges: “Due greci stanno conversando; forse Socrate e Parmenide. Conviene che non si sappiano mai i loro nomi; la storia sarà così più misteriosa e più tranquilla. Il tema del dialogo è astratto. Talvolta alludono a miti nei quali entrambi non credono. Non polemizzano; e non vogliono né persuadere né essere persuasi, non pensano né a vincere né a perdere. Liberi dal mito e dalla metafora, pensano o cercano di pensare. Non sapremo mai i loro nomi. Questa conversazione tra due sconosciuti in un luogo della Grecia è il fatto capitale della Storia. Essi hanno dimenticato la preghiera e la magia”.
L’infame volterriana – per loro – resta l’ infame. I veri figli del secolo dell’illuminismo sono loro.
Per esistere quietamente nella convinzione della finitezza della propria esistenza – del caso biologico che ineluttabilmente pone la necessità della nascita come della morte, senza per questo presupporre la necessità di un senso assoluto a tutto ciò – occorre accettare il transitorio e il relativo, occorre la capacità negativa. In tale tormentata accettazione, malgrado il ricorso a forme e modi poetici e letterari molto diversi tra loro, Keats e Leopardi si stagliano in modo abbastanza unico nel panorama europeo dei primi decenni dell’Ottocento. Dove, allora le traiettorie dei due poeti divergono? O meglio, dove e come sento Keats abbandonare Leopardi? E in modo speculare a come, in precedenza, con riferimento ai long poems, s’è visto Leopardi divergere da Keats.
Qual è la via indicata dall’ultimo Keats? E’ la via del superamento della concezione filosofica occidentale dell’uomo come il “parlante” e il “mortale”: alias, dell’animale che ha la facoltà del linguaggio e la consapevolezza della propria morte. E’ la via del superamento della domanda sul perché la bellezza (la vita) venga offerta e perché poi svanisca. E’ – in “To Autumn” – la via della accettazione della condanna al nulla, senza più quella ribellione che implicitamente ancora accende, nell’”Ode sopra un’urna greca”, le esclamazioni di desiderio verso lo “stato” di eterna giovinezza e attesa delle creature incise nel marmo, e nell’”Ode a un usignolo” rende prorompente la reiterata presenza dell’io narrante. In “To Autumn” tale Selbst è già idealmente scomparso, portato lontano forse proprio da quei “gathering swallows” che chiudono il componimento, volgendo il loro garrire ai cieli nella bruma della sera. V’è dunque una consistenza di morte in “To Autumn”, superata però, circonfusa, nell’annullamento dell’io, dal principio di ciclicità: le rondini poi torneranno, la stagione rifiorirà. E il concetto è simile a quello espresso dal canto dell’usignolo nell’ode omonima: non l’uccello è eterno, ma il suo canto. Non quelle rondini o quell’autunno, dunque, ma altre rondini, altre primavere ed altri autunni eternamente ritorneranno.
L’ultimo Keats – con “To Autumn” – mi appare infine vòlto a una istanza di ciclicità vitale che in Leopardi non riesco a percepire. L’ultimo Keats pare confidare in una eterna rigenerazione del cosmo. Come per il primitivo, il sole e la luna sprofondano, le piante muoiono, ma poi rinascono il giorno dopo o a primavera. La luna sprofondata o divorata a morsi da un drago rinasce dopo tre notti e ricresce a poco a poco.
Non sento l’ultimo Keats lontano dal consolamentum buddhista: “Non siete persone, siete un fluttuare di eventi, ciascuno legato a una catena di cause e di effetti. Queste catene si intersecano, si aggrovigliano, creano la parvenza di una persona. Ma non vi fate ingannare, la persona è una illusione”.

https://www.nazioneindiana.com/2011/02/13/keats-e-leopardi-ii-parte/

All’Autunno  john keats

1

Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nocciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché l’estate ha colmato le loro celle viscose:

2

Chi non ti hai mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull’aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina, a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.

3

E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una musica ce l’hai.
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte del baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino: Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.

Fonti: ‘Poeti Romantici Inglesi’, a cura di Franco Buffoni, con testo originale a fronte, 2 Volumi, pagine 822, Mondadori

John Keats Ode on Melancholy – Ficino, la “renovatio” della malinconia

John Keats : Ode on Indolence – La Belle Dame sans Merci ed altro

John Keats : Bright Star – Ultima Lettera di Keats

Ode to an Grecian Urn – John Keats

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Four Seasons fill the measure of the year; John Keats

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Quando gli Shelley sconvolsero Lerici – Mary e … – controappunto blog

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