Kafka : Il cacciatore Gracco – THE HUNTER GRACCHUS

“Queste, caro mio, sono osservazioni tue, altri ne avranno fatte di diverse. Qui ci sono solo due possibilità. O tu stai tacendo quel che sai di me per qualche tua definita intenzione, e allora ti dico francamente: sei su una strada sbagliata. Oppure davvero credi di non ricordarti di me perché confondi la mia storia con un’altra. E allora ti dico: io sono – no, non posso, tutti lo sanno e proprio io dovrei raccontartelo! E’ passato tanto tempo. Chiedilo agli storici! Nella loro stanzetta guardano a bocca aperta ciò che è accaduto da tanto tempo e lo descrivono senza sosta. Vai da loro e poi ritorna. E’ passato tanto tempo. Come posso conservarlo in questo cervello così stracolmo.”

…..

6.4.17. Nel piccolo porto, dove di solito si fermano, oltre alle navi da pesca, solo due vaporetti per trasporto passeggeri che coprono i collegamenti del lago, c’era oggi una barca straniera. Una vecchia barca pesante, relativamente bassa e molto panciuta, sporca e come inzaccherata di acqua fangosa, sembrava che ancora ne gocciolasse la fiancata giallastra, gli alberi incomprensibilmente alti, l’albero maestro spezzato nel terzo più alto, le vele spiegazzate, grezze, color marrone giallastro tese di traverso fra gli alberi, rammendate, inadeguate a qualsiasi soffio di vento.

Rimasi a guardare a lungo stupito, aspettai che qualcuno si mostrasse sul ponte, non venne nessuno. Vicino a me, sul muretto del molo, si sedette un operaio. “Di chi è la nave?” chiesi, “la vedo oggi per la prima volta.” “Viene ogni due o tre anni” disse l’uomo “e appartiene al cacciatore Gracco”.

Il cacciatore Gracco

[Quaderno in ottavo B, fine dicembre 1916:]

Due ragazzi sedevano sul muretto del molo e giocavano a dadi. Un uomo leggeva una rivista sui gradini di un monumento all’ombra dell’eroe che brandiva la sciabola. Una ragazza alla fontana riempiva d’acqua il suo mastello. Un fruttivendolo stava accanto alla sua merce guardando verso il lago. In fondo a una bettola, attraverso porte e finestre vuote, si vedevano due uomini con del vino. L’oste sonnecchiava davanti, seduto a un tavolo. Un battello scivolò silenzioso, come se fosse trainato, dentro il piccolo porto. Un uomo vestito di una casacca blu saltò a terra e tirò le funi attraverso gli anelli. Altri due uomini, in giacca scura con bottoni d’argento, portavano dietro al capitano una bara su cui evidentemente giaceva un uomo, sotto un grande telo di seta ornato di fiori e di frange. Sul molo nessuno si curò dei nuovi arrivati, neppure quando posarono la bara per aspettare il capitano, che era ancora affaccendato con le funi, nessuno si avvicinò, nessuno rivolse loro domande, nessuno li osservò più attentamente. Il capitano fu trattenuto ancora un poco da una donna che, con un bambino al seno e i capelli sciolti, appariva ora sul ponte. Infine giunse, accennò a una casa giallastra a due piani che lì vicino, a sinistra, si alzava verticale non lontano dall’acqua, i portatori sollevarono il peso e lo trasportarono attraverso il portale basso ma formato da sottili colonne. Un ragazzino aprì una finestra, fece in tempo a notare come il gruppo scomparisse nella casa e richiuse in fretta. Anche il portale ora venne chiuso, era ben costruito con pesante legno di quercia. Uno stormo di colombe che finora aveva volato intorno al campanile si posò sulla piazza davanti alla casa. Una di esse volò fino al primo piano e picchiettò sul vetro della finestra. Erano uccelli di colore chiaro, vivaci e ben nutriti. Con grande slancio, la donna dalla barca gettò loro del grano, gli uccelli lo raccolsero e volarono verso di lei. Un uomo anziano con cilindro e fasciato a lutto scese lungo una delle stradine sottili in forte pendenza che conducevano al porto. Si guardava intorno con attenzione, tutto lo turbava, la vista di immondizia in un angolo gli piegò il viso in una smorfia, sui gradini del monumento c’erano bucce di frutta, egli le spinse giù, passando, con il bastone. Giunto al portale con colonne, bussò, togliendosi al contempo il cilindro con la destra guantata di nero. Il portone si aprì immediatamente, almeno cinquanta ragazzini formavano una fila nel lungo corridoio, inchinandosi. Il capitano scese le scale, salutò il signore, lo condusse di sopra, al primo piano fece con lui il giro del cortile circondato da logge slanciate, ed entrambi entrarono, mentre i ragazzi si affollavano a rispettosa distanza, in un grande ambiente fresco nel retro della casa, di fronte al quale si ergeva non un’altra casa, ma solo una nuda parete di roccia nerastra. I portatori erano impegnati ad alzare e accendere alcune lunghe candele alla testa della bara; non per questo si ottenne luce, ma solo furono snidate le ombre che prima riposavano, e ora ondeggiavano sulle pareti. Il telo era stato rimosso dalla bara. Giaceva là un uomo con barba e capelli cresciuti disordinatamente insieme, pelle abbronzata, di aspetto simile a un cacciatore. Giaceva immobile, apparentemente senza respirare, con gli occhi chiusi, tuttavia solo le circostanze inducevano a pensare che potesse trattarsi di un morto.

Il signore si avvicinò alla bara, pose una mano sulla fronte dell’uomo disteso, quindi si inginocchiò e pregò. Il capitano fece un cenno ai portatori perché lasciassero la stanza, quelli uscirono, cacciarono i ragazzi che si erano affollati là fuori e chiusero la porta. Ma al signore questa quiete sembrò ancora insufficiente, guardò il capitano, questi capì e attraverso una porta laterale passò nella stanza adiacente. Subito l’uomo nella bara aprì gli occhi, con un sorriso doloroso volse il capo al signore e disse: “Chi sei?” Il signore, senza stupore apparente, si alzò dalla sua posizione inginocchiata e rispose: “Il sindaco di Riva.” L’uomo nella bara fece un cenno, indicò una sedia con il braccio debolmente alzato e disse, dopo che il sindaco aveva accolto il suo invito: “Naturalmente, signor sindaco, lo sapevo già, ma nel primo momento dimentico sempre tutto, tutto mi gira intorno ed è meglio che io chieda, anche quando so già tutto. Probabilmente anche lei sa che io sono il cacciatore Gracco.” “Certo”, disse il sindaco, “lei mi è stato annunciato stanotte. Dormivamo da parecchio, quando verso mezzanotte mia moglie esclama: “Salvatore” – così mi chiamo – “guarda la colomba alla finestra”. C’era in effetti una colomba, ma grande come un gallo. Mi è volata all’orecchio e ha detto: “Domani verrà il morto cacciatore Gracco, accoglilo in nome della città.”” Il cacciatore fece un cenno e passò la punta della lingua fra le labbra: “Sì, le colombe mi precedono in volo. Ma lei, signor sindaco, crede che io debba fermarmi a Riva?” “Questo non posso ancora dirlo”, rispose il sindaco. “Lei è morto?” “Sì”, disse il cacciatore, “come lei può notare. Molti anni fa, ora devono proprio essere moltissimi anni, nella Foresta Nera, che è in Germania, precipitai da una roccia mentre inseguivo un camoscio. Da allora sono morto.” “Eppure lei è anche vivo?” disse il sindaco. “In un certo senso”, disse il cacciatore, “in un certo senso sono anche vivo. La mia barca funebre ha sbagliato strada, un falso movimento del timone, un attimo di disattenzione del conducente, una deviazione nella mia meravigliosa patria, non so che cosa fu, solo questo so, che sono rimasto sulla terra e da allora la mia barca viaggia sulle acque terrene. Così io, che avrei voluto vivere solo sui miei monti, viaggio dopo la mia morte in tutti i paesi della terra.” “E non ha parte alcuna dell’aldilà?” domandò il sindaco con la fronte aggrottata. “Sono sempre sulla grande scala che porta lassù,” rispose il cacciatore, “su questa gradinata infinitamente ampia io mi aggiro, ora su ora giù, ora a destra ora a sinistra, sempre in movimento. Ma se prendo uno slancio decisivo verso l’alto, e già la porta mi risplende lassù, allora mi risveglio nella mia vecchia barca, che ristagna desolata in qualche acqua terrestre. L’errore di fondo della mia morte di un tempo mi deride nella mia cabina, Julia, la moglie del capitano, mi porta alla mia bara la bevanda mattutina del paese la cui costa stiamo attraversando.” “Un brutto destino”, disse il sindaco con la mano alzata come per difendersi. “E lei non ne ha colpa?” “Nessuna”, disse il cacciatore, “ero un cacciatore, forse è una colpa questa? Praticavo la caccia nella Foresta Nera, dove a quei tempi c’erano anche i lupi. Tendevo agguati, tiravo, colpivo, scuoiavo, è forse una colpa? Il mio lavoro era benedetto. Mi chiamavano il grande cacciatore della Foresta Nera. E’ forse una colpa?” “Non è compito mio deciderlo”, disse il sindaco, “ma neppure a me tutto questo sembra una colpa. Ma allora di chi è la colpa?” “Del barcaiolo”, disse il cacciatore

“E ora lei pensa di rimanere da noi a Riva?” chiese il sindaco. “Io non penso”, disse il cacciatore sorridendo, e per attenuare lo scherzo pose la mano sul ginocchio del sindaco. “Io sono qui, altro non so, altro non posso fare. La mia barca è senza timone, viaggia con il vento che soffia nelle regioni più basse della morte.”

Io sono il cacciatore Gracco, la mia patria è la Foresta Nera in Germania.

Nessuno leggerà ciò che io scrivo qui; nessuno verrà ad aiutarmi; se fosse stabilito come compito di aiutarmi, allora tutte le porte di tutte le case rimarrebbero chiuse, tutte le finestre chiuse, tutti sarebbero nei loro letti, con le coperte gettate sulla testa, tutta la terra sarebbe un dormitorio. Ciò è ben comprensibile, perché nessuno sa di me, e se qualcuno sapesse non saprebbe però dove abito, e se sapesse dove abito non saprebbe però trattenermi là, e se sapesse trattenermi là non saprebbe però come venirmi in aiuto. Il pensiero di volermi aiutare è una malattia e deve essere curata a letto.

Questo io lo so e dunque non scrivo per procurarmi un aiuto, sebbene in certi momenti in cui non mi controllo, come per esempio proprio ora, mi viene da pensarci con forza. Ma per cacciare simili pensieri basta che io mi guardi intorno e mi rammenti dove sono e dove abito – posso ben dirlo – da secoli. Mentre scrivo tutto questo sono sdraiato su una panca di legno, indosso – non è un piacere vedermi – una camicia funebre sporca, capelli e barba, grigi e neri, crescono insieme inestricabili, le mie gambe sono coperte da un telo da donna di seta, ornato di fiori e frange. Alla mia testa si trova una candela da chiesa che mi fa luce. Sul muro davanti a me c’è un piccolo quadro, evidentemente un boscimano, che con una lancia prende la mira su di me e per quanto può si copre dietro uno scudo grandiosamente decorato. Sulle navi si trovano spesso quadri stupidi, ma questo è uno dei più stupidi. Per il resto la mia gabbia di legno è completamente vuota. Attraverso un oblò della parete laterale arriva l’aria calda della notte meridionale e ascolto l’acqua che batte contro la vecchia barca.

Qui io giaccio da allora, quando, mentre ero ancora il vivo cacciatore Gracco, precipitai inseguendo un camoscio nella patria Foresta Nera. Tutto andava secondo l’ordine delle cose. Io inseguivo, precipitai, mi dissanguai in una scarpata, morii e questa barca doveva trasportarmi nell’aldilà. Ricordo ancora con quanta felicità mi sono sdraiato per la prima volta su questa panca, i monti non avevano ancora mai udito da me un canto come quello che udivano queste quattro pareti, allora ancora al crepuscolo. Volentieri ero vissuto e volentieri ero morto, prima di salire a bordo lieto gettai via da me l’impiccio del fucile, della borsa e della veste da caccia che sempre avevo portato con orgoglio, ed entrai nella camicia funebre come una fanciulla nella veste nuziale. Giacevo qui e aspettavo.

Allora avvenne

[Quaderno in ottavo D, marzo-aprile 1917:]

“Come sarebbe, cacciatore Gracco, tu viaggi da secoli in questa vecchia barca?”

“Già da cinquecento anni.”

“E sempre in questa nave?”

“Sempre in questa barca. Barca è il nome giusto. Non ti intendi di navi, vero?”

“No, è solo da oggi che me ne occupo, da quando so di te, da quando sono salito sulla tua nave.”

“Non devi scusarti. Anch’io vengo dall’interno. Non ero un marinaio, né volevo diventarlo, monti e foreste erano la mia felicità, e ora – il più anziano viaggiatore sul mare, il cacciatore Gracco protettore dei marinai, il cacciatore Gracco implorato dal mozzo che si torce le mani sulla coffa, angosciato nella notte di tempesta. Non ridere.”

“Ridere io? No davvero. Con il cuore in tumulto stavo davanti alla porta della tua cabina, con il cuore in tumulto sono entrato. I tuoi modi amichevoli mi tranquillizzano un poco, ma non dimenticherò mai di chi sono ospite.”

“Certo, hai ragione. Ad ogni modo, io sono il cacciatore Gracco. Perché non assaggi un po’ di vino, non conosco la marca, ma è dolce e forte, il capo mi tratta bene.”

“Ora no, ti prego, sono troppo agitato. Forse più tardi, se mi sopporterai ancora qui. Chi è il capo?”

“Il proprietario della barca. Questi capi a dire il vero sono persone eccellenti. Io però non li capisco. Non mi riferisco alla loro lingua, anche se naturalmente spesso non capisco neppure quella. Ma questo è collaterale. Ho imparato abbastanza lingue nel corso dei secoli, e potrei fare da interprete fra gli antenati e i contemporanei. Quello che non capisco dei capi è il loro modo di pensare. Forse tu puoi spiegarmelo.”

“Non ho molta speranza. Come potrei spiegare qualcosa a te, davanti a te sono solo un bambino che balbetta.”

“Non fare così, te lo dico una volta per tutte. Mi farai un piacere se ti comporterai in modo un po’ più virile, un po’ più sicuro di te. Che me ne faccio di avere per ospite un’ombra. Piuttosto lo soffio via sul mare attraverso l’oblò. Ho bisogno di diverse spiegazioni. Tu che te ne vai in giro là fuori puoi darmele. Ma se ciondoli qui intorno al mio tavolo e ingannandoti dimentichi quel poco che sai, allora puoi anche levarti subito di torno. Io non ho peli sulla lingua.”

“C’è qualcosa di giusto in quel che dici. In effetti per certi versi io ti sono superiore. Cercherò di dominarmi. Fammi la domanda.”

“Meglio, molto meglio se esageri in questa direzione e ti immagini una qualche superiorità. Devi solo capirmi per bene. Io sono un uomo come te, solo più impaziente di quel paio di secoli di cui sono più anziano. Allora, volevamo parlare dei capi. Fai attenzione. E bevi un po’ di vino per aguzzarti il cervello. Senza paura. Forza. Ne abbiamo ancora una nave intera.”

“Gracco, è un vino eccellente. Viva il capo.”

“Peccato che sia morto proprio oggi. Era un brav’uomo e se n’è andato in pace. Giudiziosi ragazzi ormai cresciuti stavano al suo letto di morte, ai suoi piedi la moglie ha perso i sensi, ma il suo ultimo pensiero lo ha dedicato a me. Era un brav’uomo, di Amburgo.”

“Santo cielo, di Amburgo, e tu qui al sud sai che è morto oggi.”

“Come, non dovrei sapere quando muore il mio capo? Sei proprio un sempliciotto.”

“Vuoi offendermi?”

“No, niente affatto, non lo faccio apposta. Tu però devi stupirti di meno e bere di più. Con i capi la cosa sta nei seguenti termini: in origine, la barca non apparteneva a nessuno.”

“Gracco, una preghiera. Prima di tutto dimmi in modo succinto ma coerente come stanno le cose riguardo a te. Ti confesso la verità: non ne so niente. Per te naturalmente si tratta di cose evidenti, e come fai di solito ne presupponi la conoscenza nel mondo intero. Ora però in una breve vita umana – perché la vita è breve, Gracco, cerca di capirlo – in questa breve vita dunque si è già fin troppo impegnati a innalzare se stessi e la propria famiglia. E per quanto il cacciatore Gracco sia interessante – e questa è convinzione, non piaggeria – non si ha tempo per pensare a lui, informarsi di lui e neppure per preoccuparsi di lui. Forse sul letto di morte, come il tuo amburghese, questo non lo so. Forse in quel momento un uomo diligente ha per la prima volta il tempo di distendersi e allora il verde cacciatore Gracco sfiora finalmente i suoi pensieri oziosi. Ma altrimenti, come ho detto: io non sapevo niente di te, sono qui nel porto a motivo dei miei affari, ho visto la barca, la passerella era lì davanti, sono salito – ma ora vorrei sapere qualcosa che ti riguardi.”

“Ah, che mi riguardi. Storie vecchie, vecchie. Tutti i libri ne sono pieni, in tutte le scuole gli insegnanti le disegnano alla lavagna, la madre ne sogna mentre il bambino si nutre al seno – e tu stai qui seduto e mi chiedi qualcosa che mi riguardi. Devi aver proprio bruciato la tua gioventù.”

“Può essere, succede a tutte le gioventù. Però credo che ti sarebbe assai utile se tu per una volta ti guardassi un po’ intorno nel mondo. Per quanto possa sembrarti comico, e io stesso in questo luogo quasi me ne stupisco, tu non sei l’oggetto delle chiacchiere cittadine, di quante cose si possa parlare, tu non sei fra quelle, il mondo va per il suo corso e tu per il tuo viaggio, ma mai finora mi sono accorto che vi siate incrociati.”

“Queste, caro mio, sono osservazioni tue, altri ne avranno fatte di diverse. Qui ci sono solo due possibilità. O tu stai tacendo quel che sai di me per qualche tua definita intenzione, e allora ti dico francamente: sei su una strada sbagliata. Oppure davvero credi di non ricordarti di me perché confondi la mia storia con un’altra. E allora ti dico: io sono – no, non posso, tutti lo sanno e proprio io dovrei raccontartelo! E’ passato tanto tempo. Chiedilo agli storici! Nella loro stanzetta guardano a bocca aperta ciò che è accaduto da tanto tempo e lo descrivono senza sosta. Vai da loro e poi ritorna. E’ passato tanto tempo. Come posso conservarlo in questo cervello così stracolmo.”

“Aspetta, Gracco, voglio aiutarti, ti farò delle domande. Da dove vieni?”

“Dalla Foresta Nera, come tutti sanno.”

“Naturalmente, dalla Foresta Nera. E così hai cacciato laggiù nel quarto secolo.”

“Senti, conosci la Foresta Nera?”

“No.”

“Ma non conosci proprio niente. Il bambino del timoniere sa più di te, ma davvero, molto di più. Ma chi ti ha fatto entrare. E’ proprio un destino. La tua modestia iniziale era davvero fin troppo ben fondata. Sei un nulla che io sto riempiendo di vino. Ora viene fuori che non conosci neppure la Foresta Nera. Io ho cacciato laggiù fino all’età di venticinque anni. Se il camoscio non mi avesse attirato – ecco, ora lo sai – avrei avuto una lunga e bella vita di cacciatore, ma il camoscio mi ha attirato, sono precipitato e mi sono sfracellato sui sassi. Non farmi più domande. Qui io sto, morto, morto, morto. Non so perché sono qui. Fui caricato sulla barca funebre, come si conviene, un povero morto, furono fatte con me quelle tre o quattro manovre come con tutti, perché fare eccezioni con il cacciatore Gracco, tutto era in ordine, io giacevo disteso nella barca,

[Diari, quaderno 11, nota del 6.4.1917:]

6.4.17. Nel piccolo porto, dove di solito si fermano, oltre alle navi da pesca, solo due vaporetti per trasporto passeggeri che coprono i collegamenti del lago, c’era oggi una barca straniera. Una vecchia barca pesante, relativamente bassa e molto panciuta, sporca e come inzaccherata di acqua fangosa, sembrava che ancora ne gocciolasse la fiancata giallastra, gli alberi incomprensibilmente alti, l’albero maestro spezzato nel terzo più alto, le vele spiegazzate, grezze, color marrone giallastro tese di traverso fra gli alberi, rammendate, inadeguate a qualsiasi soffio di vento.

Rimasi a guardare a lungo stupito, aspettai che qualcuno si mostrasse sul ponte, non venne nessuno. Vicino a me, sul muretto del molo, si sedette un operaio. “Di chi è la nave?” chiesi, “la vedo oggi per la prima volta.” “Viene ogni due o tre anni” disse l’uomo “e appartiene al cacciatore Gracco”

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THE HUNTER GRACCHUS

Two boys were sitting on the wall by the jetty playing dice. A man was reading a newspaper on the steps of a monument in the shadow of a hero wielding a sabre. A young girl was filling her tub with water at a fountain. A fruit seller was lying close to his produce and looking out to sea. Through the empty openings of the door and window of a bar two men could be seen drinking wine in the back. The landlord was sitting at a table in the front dozing. A small boat glided lightly into the small harbour, as if it were being carried over the water. A man in a blue jacket climbed out onto land and pulled the ropes through the rings. Behind the man from the boat, two other men in dark coats with silver buttons carried a bier, on which, under a large silk scarf with a floral pattern and fringe, a person was obviously lying. No one bothered with the newcomers on the jetty, even when they set the bier down to wait for their helmsman, who was still working with the ropes. No one came up to them, no one asked them any questions, no one took a closer look at them.

The helmsman was further held up a little by a woman with disheveled hair, who now appeared on deck with a child at her breast. Then he moved on, pointing to a yellowish, two-story house which rose close by, directly on the left near the water. The bearers took up their load and carried it through the low door furnished with slender columns. A small boy opened a window, noticed immediately how the group was disappearing into the house, and quickly shut the window again. The door now closed, as well. It had been fashioned with care out of black oak wood. A flock of doves, which up to this point had been flying around the bell tower, came down in front of the house. The doves gathered before the door, as if their food was stored inside the house. One flew right up to the first floor and pecked at the window pane. They were brightly coloured, well cared for, lively animals. With a large sweep of her hand the woman threw some seeds towards them from the boat. They ate them up and then flew over to the woman.

A man in a top hat with a mourning ribbon came down one of the small, narrow, steeply descending lanes which led to the harbour. He looked around him attentively. Everything upset him. He winced at the sight of some garbage in a corner. There were fruit peels on the steps of the monument. As he went by, he pushed them off with his cane. He knocked on the door of the parlour, while at the same time taking off his top hat with his black-gloved right hand. It was opened immediately, and about fifty small boys, lined up in two rows in a long corridor, bowed to him.

The helmsman came down the stairs, welcomed the gentleman, and led him upstairs. On the first floor he accompanied him around the slight, delicately built balcony surrounding the courtyard, and, as the boys crowded behind them at a respectful distance, both men stepped into a large cool room at the back of the house. From it one could not see a facing house, only a bare gray-black rock wall. Those who had carried the bier were busy setting up and lighting some long candles at its head. But these provided no light. They only made the previously still shadows positively jump and flicker across the walls. The shawl was pulled back off the bier. On it lay a man with wildly unkempt hair and beard and a brown skin—he looked rather like a hunter. He lay there motionless, apparently without breathing, his eyes closed, although his surroundings were the only thing indicating that it could be a corpse.

The gentleman stepped over to the bier, laid a hand on the forehead of the man lying there, then knelt down and prayed. The helmsman gave a sign to the bearers to leave the room. They went out, drove away the boys who had gathered outside, and shut the door. The gentleman, however, was apparently still not satisfied with this stillness. He looked at the helmsman. The latter understood and went through a side door into the next room. The man on the bier immediately opened his eyes, turned his face with a painful smile towards the gentleman, and said, “Who are you?” Without any surprise, the gentleman got up from his kneeling position and answered, “The burgomaster of Riva.” The man on the bier nodded, pointed to a chair by stretching his arm out feebly, and then, after the burgomaster had accepted his invitation, said, “Yes, I knew that, Burgomaster, but in the first moments I’ve always forgotten it all—everything is going in circles around me, and it’s better for me to ask, even when I know everything. You also presumably know that I am the hunter Gracchus.”

“Of course,” said the burgomaster. “I received the news today, during the night. We had been sleeping for some time. Then around midnight my wife called, ‘Salvatore’—that’s my name—‘look at the dove at the window!’ It was really a dove, but as large as a rooster. It flew up to my ear and said, ‘Tomorrow the dead hunter Gracchus is coming. Welcome him in the name of the city.’”

The hunter nodded and pushed the tip of his tongue between his lips. “Yes, the doves fly here before me. But do you believe, Burgomaster, that I am to remain in Riva?”

“That I cannot yet say,” answered the burgomaster. “Are you dead?”

“Yes,” said the hunter, “as you see. Many years ago—it must have been a great many years ago—I fell from a rock in the Black Forest—that’s in Germany—as I was tracking a chamois. Since then I’ve been dead.”

“But you are also alive,” said the burgomaster.

“To a certain extent,” said the hunter, “to a certain extent I am also alive. My death boat lost its way—a wrong turn of the helm, a moment when the helmsman was not paying attention, a diversion through my wonderful homeland—I don’t know what it was. I only know that I remain on the earth and that since that time my boat has journeyed over earthly waters. So I—who only wanted to live in my own mountains—travel on after my death through all the countries of the earth.”

“And have you no share in the world beyond?” asked the burgomaster wrinkling his brow.

The hunter answered, “I am always on the immense staircase leading up to it. I roam around on this infinitely wide flight of steps, sometimes up, sometimes down, sometimes to the right, sometimes to the left, always in motion. From being a hunter I’ve become a butterfly. Don’t laugh.”

“I’m not laughing,” protested the burgomaster.

“That’s very considerate of you,” said the hunter. “I am always moving. But when I go through the greatest upward motion and the door is already shining right above me, I wake up on my old boat, still drearily stranded in some earthly stretch of water. The basic mistake of my earlier death smirks at me in my cabin. Julia, the wife of the helmsman, knocks and brings to me on the bier the morning drink of the country whose coast we are sailing by at the time. I lie on a wooden plank bed, wearing—I’m no delight to look at—a filthy shroud, my hair and beard, black and gray, are inextricably intertangled, my legs covered by a large silk women’s scarf, with a floral pattern and long fringes. At my head stands a church candle which illuminates me. On the wall opposite me is a small picture, evidently of a bushman aiming his spear at me and concealing himself as much as possible behind a splendidly painted shield. On board ship one comes across many stupid pictures, but this is one of the stupidest. Beyond that my wooden cage is completely empty. Through a hole in the side wall the warm air of the southern nights comes in, and I hear the water lapping against the old boat.

“I have been lying here since the time when I—the still living hunter Gracchus—was pursuing a chamois to its home in the Black Forest and fell. Everything took place as it should. I followed, fell down, bled to death in a ravine, was dead, and this boat was supposed to carry me to the other side. I still remember how happily I stretched myself out here on the planking for the first time. The mountains have never heard me singing the way these four still shadowy walls did then.

“I had been happy to be alive and was happy to be dead. Before I came on board, I gladly threw away my rag-tag collection of guns and bags, and the hunting rifle which I had always carried proudly, and slipped into the shroud like a young girl into her wedding dress. Here I lay down and waited. Then the accident happened.”

“A nasty fate,” said the burgomaster, raising his hand in a gesture of depreciation, “and you are not to blame for it in any way?”

“No,” said the hunter. “I was a hunter. Is there any blame in that? I was raised to be a hunter in the Black Forest, where at that time there were still wolves. I lay in wait, shot, hit the target, removed the skin—is there any blame in that? My work was blessed. ‘The great hunter of the Black Forest’—that’s what they called me. Is that something bad?”

“It not up to me to decide that,” said the burgomaster, “but it seems to me as well that there’s no blame there. But then who is to blame?”

“The boatswain,” said the hunter. “No one will read what I write here, no one will come to help me. If people were assigned the task of helping me, all the doors of all the houses would remain closed, all the windows would be shut, they would all lie in bed, with sheets thrown over their heads, the entire earth would be a hostel for the night. And that makes good sense, for no one knows of me, and if he did, he would have no idea of where I was staying, and if he knew that, he would still not know how to keep me there, and so he would not know how to help me. The thought of wanting to help me is a sickness and has to be cured with bed rest.

“I know that, and so I do not cry out to summon help, even if at moments—as I have no self-control, for example, right now—I do think about that very seriously. But to get rid of such ideas I need only look around and recall where I am and where—and this I can assert with full confidence—I have lived for centuries.”

“That’s extraordinary,” said the burgomaster, “extraordinary. And now are you intending to remain with us in Riva?”

“I have no intentions,” said the hunter with a smile and, to make up for his mocking tone, laid a hand on the burgomaster’s knee. “I am here. I don’t know any more than that. There’s nothing more I can do. My boat is without a helm—it journeys with the wind which blows in the deepest regions of death.”

FRANZ KAFKA : aforismos, visiones y sueños – controappunto blog

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