Siamo in guerra. Ve ne siete accorti? : Dino Frisullo ; 5 giugno 2003 muore il compagno DINO FRISULLO

Siamo in guerra. Ve ne siete accorti?

Non dico la grandine di bombe sull’Afghanistan, la tempesta che s’addensa sull’Iraq e sui kurdi, i lampi di guerra in Kashmir, lo stillicidio di morte in Palestina. Dico la guerra qui, in occidente, nelle nostre città.

Il consiglio dei ministri ha approvato ieri una legislazione antiterrorismo che sanzionerà pesantemente chi ospita o aiuta i terroristi. I ministri dell’Interno e della Giustizia dell’UE hanno proposto, e fra poco sarà direttiva europea, un’estensione continentale dei mandati di cattura e dunque delle relative motivazioni. Se tanto mi dà tanto, fra poco potrei essere arrestato su mandato, poniamo, d’un giudice tedesco, perché ho accompagnato in una serie d’incontri un esponente del PKK kurdo, che in mezza Europa è fuorilegge ed è stato incluso dal Dipartimento di Stato Usa nella lista delle organizzazioni terroriste…

Sempre ieri, secondo un giornalista bene informato, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza di Roma ha deciso che in tempo di guerra tutti i campi di stranieri illegali vanno sgomberati. Come nel ’91 fu sgomberata la Pantanella di Roma durante la guerra del Golfo… Non si capisce se l’illegalità si riferisca allo status giuridico degli interessati o alla loro occupazione abusiva di spazi. Ad ambedue probabilmente, a discrezione degli agenti. Voleranno gli stracci, comunque. A migliaia. Quale Gino Strada alzerà la voce in difesa dei profughi di casa nostra?

Non era una forzatura dunque l’apertura del documento sui migranti approvato a Perugia dall’Onu dei Popoli, che chiamava ad una “ingerenza umanitaria” in difesa delle vittime, nei luoghi in cui rischia di consumarsi la guerra della discriminazione e del razzismo, dalle frontiere ai ghetti urbani, dai centri di detenzione alle questure.

Già, le questure… Fra un’ora, alle 3 di notte, un folto gruppo di richiedenti asilo si disporrà a una lunga attesa, nella notte che si va facendo fredda, davanti al portone sbarrato dell’Ufficio stranieri della questura di Roma. Sperando di avere fortuna stavolta, di essere fra i pochi fortunati che domattina varcheranno quel portone e potranno presentarsi ad uno sportello per sapere del loro destino, cioè del responso del cieco oracolo che sta al Viminale, la commissione che dopo un anno ed oltre di attesa decide dell’asilo o dell’espulsione – della vita o della morte.

Nell’ultima settimana sono già cinque, solo fra i kurdi di Turchia e solo a Roma, i responsi negativi dell’oracolo. Questa sera erano in fila tutt’e cinque, lo sguardo perso nel vuoto, allo sportello legale dell’associazione Azad. “Considerato che l’atteggiamento di simpatia verso i partiti che appoggiano la causa curda, atteggiamento comune peraltro a tutto il popolo curdo, non dà luogo a una persecuzione diretta o personale…” Non sanno, quei funzionari, che la semplice simpatia per organizzazioni illegali costa lunghi anni di carcere duro in Turchia? Non gli ha forse raccontato, il diciannovenne Ayhan Tekin, del padre torturato dalla polizia davanti ai suoi occhi?

Ma la guerra copre, rimuove, ottunde. La guerra riduce i colori e le sfumature del mondo a un allucinante biancoenero: amico/nemico, e il nemico del mio amico (alleato Nato) è mio nemico.

Dunque era nemica anche Milli Gullu, morta per asfissia a ventisette anni nella stiva d’una nave negriera sotto gli occhi sbarrati del marito e delle due figlie piccole, e quella stiva fetida non fu aperta che due giorni dopo. Milli fuggiva da un processo daavnti al tribunale speciale per aver partecipato a uno sciopero della fame in difesa del suo presidente Ocalan, che prima di lei s’era presentato alla frontiera italiana per chiedere asilo. Uccisa lei prima di vedere l’Italia, consegnato lui alla cella della morte dopo averla appena intravista, l’Italia. Mi ha telefonato stasera M. da Crotone: al vedovo i gestori del centro d’accoglienza di Sant’Anna (su quella pista che vent’anni fa occupammo per non vederne decollare gli F-16, ed ora ospita le vittime degli F-16 in fuga) impediscono di uscire per vedere un’ultima volta, composto nell’obitorio e non nell’allucinante fetore di quella stiva, il corpo di sua moglie.

M. ha coraggio. Dieci giorni fa, sorpreso a Lecce con un fascio di riviste della lotta del suo popolo (legali in Italia), è stato fermato, tenuto in isolamento per tre giorni nel centro di Otranto indegnamente intitolato al povero vescovo scalzo Tonino Bello, interrogato, spogliato nudo, picchiato, infine rilasciato. Chi potrà denunciarli? La sua parola contro la loro.

Centri d’accoglienza come centri di detenzione. D’altronde Bossi e Fini non propongono di recludere tutti i richiedenti asilo, tanto per non sbagliare e prevenire le istanze “strumentali”? E Livia Turco non trova di meglio, davanti a quel povero cadavere, che addebitare al nuovo governo di non averne aperti di più, di centri di detenzione, e di non aver messo in pratica gli accordi d’interdizione dell’esodo (e dunque, presumibilmente, di rimpatrio degli asilanti) con la Turchia. Mi raccontava ieri al telefono il marito di Milli, e lo pubblicherà domani il Manifesto, che la polizia turca li ha scortati fino al porto di Smirne, quei fuggitivi, facendosi lautamente pagare il disturbo. Tanto, che crepino in mare o nelle galere, che differenza fa? E oggi, nelle galere a cui Milli è sfuggita solo con la morte, un altro detenuto è morto per fame.

Centri di detenzione. Come quello cattolicissimo di Regina Pacis, a San Foca di Lecce, per il quale s’è chiesto addirittura il Nobel per la pace, e dal quale in agosto undici kurdi, in ottobre più di cento tamil dello Sri Lanka, sono stati consegnati alla polizia che a sua volta li ha consegnati ai loro torturatori. A Colombo è volato da Brindisi il primo charter “à la française” italiano. A bordo aveva centodieci disgraziati, che non avevano neppure potuto incontrare un avvocato, e cinquanta poliziotti di scorta.

Nel centro di Melendugno, a Lecce, più di trecento profughi hanno dovuto avviare uno sciopero della fame per ottenere almeno di potersi lavare e rivestire: avevano ancora indosso i panni della nave. Nel centro di Rotondella quaranta profughi, abbandonati dagli uomini e da dio, hanno inscenato una manifestazione.

Centri di detenzione… In quello di Ponte Galeria hanno portato cinque pakistani sorpresi nell’atto flagrante di vendere qualche cd senza pagare la tangente alla Siae, reato atroce a sanzionare il quale Bossi e Fini hanno destinato un terribilissinmo articolo della loro proposta di legge. Non so ancora se l’intervento dell’avvocata di Senzaconfine sia riuscito a evitargli il rimpatrio, so che al solo pensiero piangevano di paura: vengono dalla regione che confina con la guerra.

E dalla guerra fuggivano i compagni di sventura di Milli e suo marito, di guerra non finivano di parlare nel buio di quella stiva, mentre Milli agonizzava. Afghani, pakistani, irakeni, kurdi… La guerra moltiplica l’esodo, che accresce la sindrome d’invasione, che amplifica il razzismo, che sostanzia la guerra.

Per rompere questo cerchio infernale avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza, forza e passione. Di una rete capillare che sappia spiegare, tutelare, rivendicare diritti umani e convivenza. Anche disobbedendo le leggi, se a partorirle sono i Le Pen e gli Haider di casa nostra.

E… scusate lo sfogo. A notte fonda, volevo solo dividere con voi il peso di una lunga giornata di guerra. Non a Kabul, a Roma.

Dino Frisullo

10/19/01 +0200: Lettera dal fronte interno

5 giugno 2003 muore il compagno DINO FRISULLO

Pubblicato il 3 giugno 2012 da admin

CIAO FIROSILLO

 

Il cavaliere dalla nobile figura
ha lasciato un mondo dominato dai cavalieri dalla trista figura
ha lasciato un mondo dominato dai cavalieri dell’apocalisse.

Non lascia tutti quelli che credono nei valori in cui lui credeva .

Lo incontravi sempre di corsa, per poco tempo, perché  lui
era uno di quelli che spendono la propria vita per gli altri.

noi ricordiamo una nave di lazzaro di cui i migranti cancellarono il nome e ci scrissero
FIROSILLO
non sapevano scrivere bene il suo nome ma lo conoscevano.

Dino il fuoco del Nevroz continuerà ad ardere.

Giugno 2003

http://www.controappunto.org/Le%20navi%20di%20Lazzaro/documenti/Dino%20e%20i%20Kurdi/CIAOFIROSILLO2.htm

Ciò che lascio è…

Se morissi adesso o fra due giorni o un anno
Ecco il mio testamento.
Il testamento di un comunista
Avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso.
Lascio tutto il mio disprezzo a chi mi ha usato.
Lascio tutto il mio odio
A chi mi ha dato un mondo senza gioia,
da attraversare a pugni e denti stretti.
Lascio la nostalgia per le moschee di Gerusalemme e gli ulivi di Puglia
Ed ogni roccia pianta finestra stella
Che i miei occhi hanno accarezzato nel cammino
Lascio universi di dolcezza
Alle donne che ho amato.
Lascio fiumi di parole dette e scritte
Spesso con rabbia raramente con saggezza
In malafede mai,
un mare di parole
che già evapora al vento rovente del tempo.
Lascio, a chi vorrà raccoglierlo,
il testimone del mio entusiasmo,
nella folle staffetta mozzafiato
volgendomi indietro dopo vent’anni
non so più se ho corso da solo.
Lascio il mio sorriso a chi sa ancora sorridere
E le mie lacrime a chi sa piangere ancora.
Non è poco. In cambio,
voglio essere sepolto senza cippi e lapidi
fra le radici di un albero grande
in piena nuda terra rossa e grassa
perché il mondo con me respiri ancora
e si nutra con me di ogni mia fibra.
Con me (non vi sembri retorica)
Solo una bandiera rossa
E la nave del Ritorno
Intagliata con le unghie nella pietra
Di un prigioniero assetato di vita
Nel deserto del Neghev.

Dino Frisullo

CRONACA NERA

Ali veniva, poniamo, da Zako.

Portava in tasca un pane di sesamo

comprato in fretta con gli ultimi spiccioli

nel porto a Patrasso

pane caldo profumo di casa

speranza di vita

prima di calarsi nel buio del ventre del camion.

Ali aveva già visto l’Italia, poniamo.

Aveva l’odore dolciastro del porto di Bari

l’Italia

gli piacque il castello svevo dalle mura merlate

le luci gialle della città vecchia

gli scaldarono il cuore

ma il primo italiano che vide

vestiva una divisa

e fu anche l’ultimo.

Respingeteli, disse.

Ali non capì le parole ma lesse lo sguardo

le ginocchia gli tremarono

poi si voltò contro il muro

perchè un uomo non piange.

Ali veniva da Zako, poniamo,

e sapeva già usare il kalashnikov

ma di raffiche ne aveva abbastanza

e di agenti turchi irakeni americani arabi

e di kurdi che ammazzano kurdi

e di paura masticata amara con la fame

e dell’eco delle bombe

Qendàqur come Halàbje

bombardieri turchi come gli aerei irakeni

gli stessi occhi sbarrati contro il cielo che uccide.

Ali, poniamo, aveva una ragazza

rimasta sola

la famiglia fuggita in Germania,

con lei aveva sognato l’Europa

con lei aveva cercato gli agenti turchi e turkmeni

e kurdi, maledizione, anche kurdi

per contrattare il passaggio della prima frontiera,

batteva forte il loro cuore al valico di Halìl

divise verdeoliva

mazzi di banconote stinte

di tasca in tasca nel buio

e poi liberi

corrono veloci i minibus da Cizre verso Mardin

ogni mezz’ora un posto di blocco

divise verdeoliva banconote via libera

colonna di autobus veloce

viaggiando solo di notte

tre notti trenta posti di blocco

zona di guerra

da Màrdin ad Adàna

poi veloci fino a Istanbul

e quella notte ad Aksaray

nel più lurido degli alberghi

fra scarafaggi e zanzare e russare di ubriachi

per la prima volta avevano fatto l’amore

e per l’ultima volta.

Sul comodino un vaso di fiori stecchiti

lei ne sfilò uno

glielo regalò con un sorriso

come fosse una rosa di maggio.

Fu all’alba che vennero a prenderli

taxi scassati

gabbiani a stormi contro il cielo grigio del Bosforo

(Ali non aveva mai visto un gabbiano

e neppure il mare)

poi tutti a piedi verso un’altra frontiera

in fila indiana nel fango in silenzio

fino alle ginocchia nell’acqua del Méric

ha la pistola il mafioso

“più in fretta” sussurra,

di là c’è la Grecia l’Europa

è calda la mano di Leyla

si chiamava Leyla, poniamo

era calda la mano di Leyla

prima che scoppiasse sott’acqua la mina

prima che i greci cominciassero a sparare

prima dell’inferno…

Un uomo non piange

ma il cuore di Ali restò a galleggiare

fra i gorghi di melma del Méric

mentre si nascondeva nel canneto

perchè i greci non scherzano

e se ti consegnano ai turchi è la fine

i maledetti verdeoliva che hanno intascato i tuoi soldi

ti fanno sputare sangue

nelle celle di frontiera.

Così in Grecia l’uomo si fa gatto

si fa topo ragno gazzella

nascondendosi di giorno negli anfratti

marciando di notte fino a Salonicco

e poi un passaggio da Salonicco a Patrasso

giovani turisti abbronzati, poniamo,

Ali ha la febbre batte i denti fa pena

rannicchiato sul sedile della Rover

è bella la ragazza straniera

ma la sua Leyla era più bella

più profondi del mare i suoi occhi.

La Rover frena quasi sul molo

c’è un traghetto che sta per partire

di là c’è l’Europa davvero

con gli ultimi soldi paga il biglietto per Bari

Ali il mare non l’aveva mai visto

fa paura di notte il mare

ti chiedi quanto sarà profondo

(erano più profondi i suoi occhi)

ma un uomo non ha mai paura

e il cielo dal mare non è poi diverso

dal cielo dei monti di Zako nelle notti chiare.

Fa più paura la polizia di frontiera

“ez kurd im”

“ma che vuoi, che lingua parli,

rispediteli a Patrasso

ne abbiamo abbastanza di curdi qui in Puglia

non bastavano i cinquecento dell’ultima nave,

chiudeteli nella cabina

che non scendano a terra

sennò chiedono asilo…”

E’ triste il cielo dal mare

come il cielo dei monti di Zako nelle notti scure.

E’ duro esser kurdi su un molo

sperduti fra il cielo ed il mare

erano in dieci, poniamo,

che quella notte a Patrasso contrattarono in fretta

seicento dollari a testa disse il camionista

non uno di meno

seimila dollari quei dieci corpi

quasi il valore di un carico intero

e il suo amico Huseyn pagò anche per lui

prima di coricarsi abbracciati nel buio

stretto il pane di sesamo in tasca

stretto in mano un fiore secco

in dieci stretti fra le balle di cotone

che ti penetra in gola

negli occhi nel naso

ti toglie il respiro…

E’ cronaca nera

MORTI SOFFOCATI SEI CLANDESTINI IN UN TIR

è politica

MILLE CLANDESTINI RESPINTI NEL PORTO DI BARI

è diplomazia

ACCORDO CON LA GRECIA SUI RIMPATRI

è ipocrisia

ROMA CHIEDE COLLABORAZIONE AD ANKARA

è propaganda

INASPRITE LE PENE CONTRO I TRAFFICANTI

è nausea è rabbia è dolore

Sotto le stelle di Zako

mille Ali sognano l’Europa

in Europa sogneranno il ritorno

e nella nebbia di Amburgo, poniamo,

nella gelida nebbia senza stelle

Huseyn bussa a una porta

ha da consegnare una cattiva notizia

un pane di sesamo secco

e un fiore stecchito…

Dino Frisullo, ottobre 2000

Forse si potrebbe far camminare per parecchio tempo col favore del vento una nave carica di pazzi; ma essa andrebbe ugualmente incontro al suo destino, proprio perché i pazzi non ci crederebbero. Questo destino è la rivoluzione, quella rivoluzione che ci sovrasta“.

Karl Marx, Lettera a Ruge, marzo 1843

Lettera aperta di Dino Frisullo

Alla presidenza della commissione d’indagine per i diritti umani della Grande Assemblea Nazionale della Turchia e all’opinione pubblica.


Ringrazio lo stato turco per avermi dato per la seconda volta l’occasione per conoscere la situazione dei diritti umani nelle sue carceri. La prima volta era per il treno della pace. Quella volta io sono stato picchiato e ferito. Privato della mia liberta’ e mandato a giudizio. Rinnovo la frase che scrissi e firmai quella volta assieme a Sanare Yurdatapan: “Noi siamo venuti per la pace e assieme al popolo ci siamo trovati alle forze dello stato”.

La seconda volta invece e’ questa attuale. Noi come delegazione internazionale siamo venuti a Diyarbakir per festeggiare il Newroz. Perche’ negli anni passati erano state compiute delle repressioni durante questa festa. Tentavamo di evitare che in Via degli Insegnanti la polizia picchiasse donne e bambini.

Sulla via del carcere siamo stati fermati nella vecchia scuola di polizia appartenente alla Direzione della Sicurezza. All’interno di questo edificio siamo stati arrestati. Ai compagni della mia cella nel carcere ho chiesto se avevano subito torture. Tutti senza eccezione mi hanno confermato che prima di essere portati in quel luogo erano stati torturati in modi indescrivibili. Solo gli stranieri e noi giornalisti non abbiamo subito torture.

La mattina del 21 marzo la gente del posto vedendo fra di loro noi stranieri era molto felice e ci hanno issato sulle spalle per la gioia. Per questo motivo la polizia turca mi ha considerato un provocatore e mi ha arrestato. Nelle mie mani c’erano solo fogli di carta e non delle armi. Erano i miei fogli di lavoro che uso in Italia come giornalista, per fare le mie indagini per i diritti dell’uomo. I fogli di carta che mi sono stati sequestrati dalla polizia, nel mio paese sono perfettamente in regola con la legge. Solo uno stato che e’ capace di chiudere un partito per un calendario poteva considerare le mie carte materiale sovversivo. in Europa si fanno continuamente ricerche e conferenze per i diritti degli uomini, e nessun europeo pensa di limitare le liberta’ per queste ricerche. Noi usiamo normalmente le fonti indipendenti e le denunce delle controparti. Solo in questo paese la controparte e’ considerata a priori illegale e associazioni civilissime sono private della parola.

In passato io sono stato in Palestina, in Bosnia e in Spagna ed ho visto le popolazioni che erano state private della propria liberta’ di pensiero, e gli eserciti soffocavano i diritti umani in modo sistematico. Ogni volta aveva deciso di stare dalla parte giusta.

Io ho mandato una richiesta alla direzione del carcere e attraverso quella direzione anche al Ministero della Giustizia ad Ankara chiedendo i miei diritti. Avvisandoli anche di avere una udienza ad Istanbul il giorno 31 marzo 1998. Malgrado questo non mi e’ stato neppure risposto. Considerandomi un detenuto politico ho chiesto di stare con i detenuti politici, anche questa mia richiesta non e’ stata accettata. Solo quando ho minacciato di attuare lo sciopero della fame sono stato prelevato dalla mia cella dove ero in isolamento e sono stato messo assieme ai contrabbandieri, malgrado io non appartenessi a tale categoria dei detenuti. Senz’altro mi rivolgero’ al Tribunale dei diritti umani per le angherie che ho subito.

Durante la mia permanenza in questo carcere ho constatato che i diritti umani vengono sistematicamente calpestati anche nelle loro forme piu’ elementari. Posso affermare che quasi tutti i detenuti presenti sono stati torturati prima di essere portati qui dentro. Anche i responsabili del massacro del 24 settembre 1996 sono ancora impuniti. Questo fatto e’ noto a tutti i detenuti che stanno qui. I detenuti di questo carcere aspettano da anni di essere giudicati. I detenuti senza mezzi economici non possono permettersi in alcun modo un difensore e davanti al tribunale non sono in grado di difendersi da soli. Andare in ospedale per le cure per i contrabbandieri e’ inutile, per i detenuti politici pericoloso. Tutti i giornali di opposizione allo stato sono vietati, e io non posso avere alcun giornale straniero. Usare il telefono e’ impossibile.

Spero che in Italia il governo, il parlamento, i giornalisti e le associazioni stiano facendo qualcosa per me. Sono convinto che la stessa attenzione il nostro governo focalizzi anche nei confronti dei democratici di Diyarbakir, che sono detenuti con me. ogni qualvolta io chiedo di riacquistare la mia liberta’ la risposta e’ sempre la stessa “NO”. Io chiedo la mia liberta’ non per tornare in Italia, ma per poter difendere meglio le persone che sono in carcere con me. La mia liberta’ non deve essere oggetto di scambi internazionali fra gli stati. Se i tribunali turchi mi commuteranno la stessa pena (art.312) che hanno dato a Bisecai e a Yagmurdereli, questo sara’ un onore per me. Durante la mia detenzione continuero’ le mie ricerche.

Io presento la mia situazione all’onorevole ministro per i diritti umani Sami Turk e alla commissione d’indagine per i diritti umani della Grande Assemblea Nazionale della Turchia perche’ possano apportare delle migliorie alla vigente legislazione. Se in questo paese viene vietata l’attivita’ alle associazioni per i diritti umani, se lo stato guarda ai bambini come a dei nemici, se la stampa indipendente e’ vietata, allora in questo paese non ci sono ne’ la democrazia, ne’ la liberta’ e ne’ Diritti Umani.


Carcere di Diyarbakir (Tipo E)
Damiano Frisullo (Dino)
1 aprile 1988

Siamo in guerra. Ve ne siete accorti? : Dino Frisullo – controappunto blog

5 giugno 2003 muore il compagno DINO FRISULLO .

lettera aperta di Dino dal Carcere di Diyarbakir (Tipo E) e .

Solidarietà alle vittime della repressione in Turchia

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