The Marble Faun, by Nathaniel Hawthorne – Project Gutenberg

The Marble Faun, by Nathaniel Hawthorne – Project Gutenberg

“THE MARBLE FAUN”

Che soddisfazione! Tale opinione è stata iniziata nel lontano agosto 2010. Oggi, in seguito a continue revisioni o solo inconcludenti letture prive d’ispirazione, essa trova la propria conclusione. E’ una sensazione magnifica!

Il fauno di marmo
Nathaniel Hawthorne

Quella di Nathaniel Hawthorne (1804 – 1864), autore americano la cui fama è dovuta soprattutto al più celebre La lettera scarlatta (1850), è una narrazione che, nella sua contraddittoria fissità dinamica, più che un susseguirsi d’eventi presenta un peculiare dipanarsi psicologico. Nel qui recensito Il fauno di marmo (1858 – 60), infatti, i personaggi e gli stessi passaggi inerenti alla trama hanno un’affascinante funzione ancillare in quanto componenti o solo annessi d’un perfetto piano o programma il cui scopo è sondare e ancora osservare il comportamento dell’uomo in seguito o innanzi al peccato. Non è un caso, dunque, se molto inchiostro viene impiegato nello statico dialogo e nella digressione riflessiva andante discapito d’un furioso colpo di scena o d’un episodio rocambolesco.
L’opera appare dunque come un’introspezione umana sotto mentite spoglie o, per meglio dire, sotto le spoglie d’un gradevole romanzo.
I protagonisti – i tre artisti Miriam, Hilda e Kenyon e Donatello, giovane toscano incredibilmente somigliante al Fauno di Prassitele – sono involontariamente attirati dalla magnetica ruota del Male alla quale reagiscono in modo differente esemplificando la purezza infangata, il candore perduto e la rovinosa caduta.
Fulcro del tormento, la morte d’un oscuro figuro per opera di Donatello, il quale compie il delitto per salvaguardare l’amata ed enigmatica Miriam, esasperata dalla tetra e soffocante sorveglianza dell’assassinato. Spettatrice casuale e inerte, la tenera Hilda, “Colomba” d’immacolata spiritualità.
Marginale il ruolo di Kenyon il quale, tuttavia, diviene la figura attraverso i cui occhi – da individuo estraneo ai fatti qual è – si assiste allo sviluppo della metamorfosi, simultanea o graduale, dei suddetti la cui esistenza, in seguito all’episodio, muta immergendosi in un’insana e corrosiva voragine che li estrania, benché non irreparabilmente né definitivamente, dal resto dell’umanità.
A causa dell’accaduto essi perdono un frammento sempre più consistente della propria persona, ora straniera in quella stessa landa impalpabile che è l’anfratto dell’anima.
Se, infatti, Miriam e Kenyon reagiscono con un misto d’orrore e razionalità – che permette loro di mantenersi tonici e saldi –, Donatello e Hilda franano e cedono. Il giovane – precedentemente primitivo e silvestre quanto un fauno, appunto – perde quella semplicissima ingenuità per adottare dei connotati che lo avvicinano sempre più all’infelice mondo umano, che, prima dell’omicidio commesso, condivideva il ragazzo con uno arcadico e spensierato mentre la fanciulla – il cui animo un tempo rabbrividiva anche solo in presenza delle più tenue penombra – viene letteralmente sconvolta dalla nuova consapevolezza della reale possibilità del peccare.
Ma il nucleo vero e proprio del romanzo non è tanto l’espiazione quanto la perdita stessa dell’ innocenza dinanzi al peccato, sia stato esso commesso o solo osservato.
Esemplare a tal proposito la leggenda narrata da Donatello a Kenyon, secondo la quale quando un cavaliere tentò “di lavar via una macchia di sangue”, la fonte d’acqua alla quale s’era accostato e nella quale albergava la ninfa sua innamorata, si ritrasse automaticamente perché corrotta e “insozzata” nella sua più cristallina purezza. La fanciulla, infatti, “avrebbe potuto confortare il suo dolore, ma non poteva purificare la sua coscienza da un delitto”.
Tuttavia Hawthorne non lascia che il peccato intorpidisca e intorbidisca le sue creature. Esse, infatti, subiscono una forte maturazione atta ad accrescere e arricchire la loro provata sensibilità. Ed è questo un percorso che l’innalza alla contemplazione d’una rinnovata purezza.
Certo, non è detto che il cammino non risulti periglioso, ma al termine dello stesso, vale a dire all’apice della redenzione, sarà possibile godere d’una nuova “veste bianca” tessuta nella fiducia del perdono e benedetta presso una nuova – e forse ancor più significativa – fonte battesimale.
A tal punto, tuttavia, l’ambigua direzione del succo tematico induce il lettore a un dubbio riflessivo per il quale il peccato parrebbe necessario alla crescita tanto intellettuale quanto umana dell’individuo. Ad avvalorare questa tesi l’amara maturazione dello stesso Donatello la quale distrugge letteralmente un personaggio il cui candore lo ritrae come l’ipotetico ultimo discendente della summenzionata razza faunesca. Nel momento in cui egli diviene uomo, infatti, tale stirpe s’estingue definitivamente lasciando un’umanità orfana di gioia.
Parrebbe dunque che Hawthorne sottoscrivesse la perdita dell’innocenza a favore della maturazione, la quale non equivarrebbe a contaminazione.
Tra i tre personaggi, due in particolare portano a tale riflessione: Hilda e Donatello, infatti, per quanto emergano maturati, cambiano profondamente la propria natura.
È, dunque, il peccato indispensabile? In parte.
Il Bene è silente, il Male è roboante; il primo è diafano, il secondo oscuro. Alla luce di questo, è possibile evincere un ulteriore concetto che trascende il quesito appena formulato: per quanto un individuo sia stato plasmato nella purezza, egli, che necessariamente si trova a stretto contatto con l’umanità varia e multiforme, verrà lambito, primo o dopo, indirettamente o direttamente, dalla colpa. Egli, tuttavia, detiene un vantaggio: la possibilità di redimersi accompagnata da un’incalzante crescita spirituale. “Quella sconcertante certezza dell’esistenza del male nel mondo”, come afferma la stessa Hilda, non sarà più motivo di decadenza e devastazione, ma presa di coscienza e sviluppo.
Perdono di significato, e anzi ne acquistano uno superbo e per taluni aspetti invasato, allora, le parole della nivea ed eterea pittrice, la quale afferma con religiosa risolutezza di non poter continuare ad alimentare l’amicizia di Miriam per via del raggelante segreto che entrambe condividono. L’aver visionato con sguardo atterrito l’omicidio commesso dal giovane toscano smaschera, infatti, quel puritanesimo e quel bigottismo che da sempre avevano nutrito la sua fede per costringerla, tuttavia, ad accogliere con sentita apertura l’altro immancabile volto del peccato, ovvero il perdono.
Donatello avrà anche perduto i connotati fauneschi, ma ha ritrovato in Miriam l’amore. Miriam l’avrebbe mai amato s’egli avesse continuato a saltellare graziosamente lungo le ripide coste dell’oceano dell’esistenza? Certamente no. E Hilda avrebbe mai spalancato le porte della propria vita alla possibilità di godere d’una nuova e del tutto inesplorata concretezza abbandonando il peplo della vestale per assumere l’abito d’una sposa? Certamente no.
Interessante e affatto casuale, inoltre, anche l’apparato scenografico. In un clima intriso d’una soffusa tensione archeologica, infatti, avviene il placido e rassegnato raffronto tra la Roma antica e la Roma moderna. Tale nostalgico periodare evidenzia quindi la consapevolezza d’un’epoca andata perduta ma ancora recuperabile in un passato presente nella sua artistica risonanza. Le strade della capitale italiana, infatti, ospitano la doppia vita d’una città che si divide, appunto, tra gli attuali abitanti e gli antichi spiriti che, col loro persistere, infondono una nobile rarefazione in cui il tempo, pur portatore di nuove mode e novità, sembra non aver mai avuto un ruolo particolarmente consistente.
Quell’insieme d’opere classiche – si ricordi lo stesso Prassitele, scultore greco il cui Fauno è conservato proprio a Roma – rimembra, infatti, l’antica e felice Età dell’Oro, periodo in cui il genere umano – inconsapevole del “profitto” – conduceva un’esistenza all’insegna della gioia semplice perché primitiva e selvaggia.
Forte è allora il rimpianto per quell’antica società – non a caso popolata da ninfe, fauni, satiri e pastori – al cui confronto l’attuale appare come un affresco cupo in cui regna un’insoddisfazione inquieta e incolmabile nata da quel desiderio d’evadere provocato da una serie di formalismi, dogmi e restrizioni.
Poiché la sregolatezza, la dissennatezza e l’incontinenza – aspetti non esistenti nella stessa libera Età dell’Oro – sono le manifestazioni d’un disagio pressante; è come se nell’eccesso si cercasse quella felicità che potrebbe donare solo una lieta condotta dalle tinte semplici e genuine.
Tuttavia, così come i protagonisti della vicenda saranno in grado di ricominciare nonostante quanto ha profondamente scosso la loro esistenza, allo stesso modo la civiltà moderna – perlomeno quella spettata da Hawthorne –, memore d’un ridente passato, potrà riscoprire il proprio potenziale disinfettandosi dall’apparato artificioso e insalubre che aveva rimpiazzato l’Età dell’Oro tutelando, valorizzando e mantenendo quale monito l’eredità della stessa, specchio e prova delle immense capacità umane.
Donatello, Miriam, Kenyon e Hilda, inoltre, rintracciano all’interno della propria esistenza un aspetto, benché maggiormente razionale, riscoprente una nuova autentica felicità dirottata verso altre gioie che la vita stessa può e potrà donare. Non è un caso, dunque, se i quattro soggetti assaporeranno l’ amore quale ricostituente balsamico e terapeutico.
A rendere lo scritto ancor più piacevole, infine, è l’eleganza del suo autore, così delicato e lieve; di dolce lettura e di parola sì eufonica. Il piglio fine e garbato delinea un periodare pastellato e leggiadro che, a sua volta, dispiega una narrazione affatto complicata poiché distensiva e a tratti persino rilassante.

http://www.ciao.it/Il_fauno_di_marmo_Nathaniel_Hawthorne__Opinione_1372949

“Il fauno di marmo”, Nathaniel Hawthorne

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“La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne è un classico che ho molto apprezzato (ho apprezzato meno il film con Demi Moore, per il quale sono certa che Hawthorne si sia rigirato nella tomba).

Quindi, quando in libreria ho acquistato “Il fauno di marmo” (The Marble Faun: Or, The Romance of Monte Beni, 1860), ero bendisposta nei suoi confronti, sia per l’autore che per la trama.

Il titolo nasce dalla somiglianza di Donatello, il protagonista, con il “Fauno a riposo”, celebre statua dello scultore Prassitele, conservata ai Musei Vaticani.

Donatello. Un nome che risuona antico e aristocratico. Donatello è il protagonista della vicenda, un ragazzo originario della provincia toscana, naif e spensierato, che vive a Roma. Parliamo della Roma ottocentesca, quella ben conosciuta da Hawthorne, il quale ci visse per alcuni anni (mica male per uno che ha iniziato come funzionario di dogana, no?). A Roma Donatello ha un circolo di amici, uno scultore e due pittrici, tra cui la ricca Miriam, bella e dal passato oscuro. Donatello è follemente innamorato di Miriam, la quale però resta indifferente all’amore del giovane. Fino a quando un omicidio non li unirà indissolubilmente per la vita.

La trama indubbiamente attira. C’è la Roma dell’Ottocento che fa da cornice a una storia noir, in bilico tra l’amore e il mistero. E’ lo stile di narrazione a rendere ostica la lettura di questo libero, di certo un’opera non ai livelli de “La lettera scarlatta”.

Tuttavia, nel complesso il libro si rivela un affresco interessante del rapporto tra uomo e male, della nascita del senso di colpa nella coscienza e, soprattutto, della capacità dell’uomo di far fronte comune nello straordinario caso di omicidio: per la serie, “mal comune, mezzo gaudio”.

Il loro gesto […] come un serpente, così la donna aveva detto, si era avvilluppato in anelli inestricabili alle loro anime, e le aveva fatte diventare una sola col suo terribile potere contrattile. Era più stretto di un legame matrimoniale.p. 180

Altro punto interessante del libro: Hawthorne conosceva Roma e, già all’epoca, era riuscito a cogliere il paradosso, ancora esistente, di questa grande, problematica città: essere stata caput Mundi, ancora oggi maestosa e in grado di togliere il fiato a chi passeggia per le sue antiche strade, ma anche rovinata, abbandonata a sé stessa, trascurata:

Trenta piedi di terreno hanno coperto la Roma dell’antichità, cosicché essa giace come il corpo morto di un gigante, in decomposizione da secoli, che nessun sopravvissuto sufficientemente forte ha mai cercato di seppellire, così che la polvere di tutti quegli anni si è lentamente accumulata sulla salma distesa, facendole accidentalmente da seplocro. […] Eppure, com’è possibile pronunciare una parola poco gentile o irriverente nei confronti di Roma, la Città di tutti i tempi e di tutto il mondo?pp. 119-120

Il lato “divertente” del libro è proprio il giudizio di Hawthorne sulla città, che spesso si contraddice, da cui si evince il suo amore per un città così importante e così abbandonata. Degna di nota la sua conoscenza dettagliata dei vicoli più nascosti e delle vie più segrete della città: sarebbero da estrapolare dal romanzo e da utilizzare per redigere una “Guida alla Roma di Nathaniel Hawthorne”, perché sono certa andrebbe a ruba

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