Luigi Pirandello: Fuga – Sieg der Ameisen + altro di Pirandello

Fuga

Che stizza per quella nebbia, il signor Bareggi! Gli parve sorta a tradimento proprio per lui, per pungerlo fredda, con punture lievi di sottilissimi aghi, alla faccia, alla nuca, e:

– A te, domani, le fitte a tutte le giunture, – si mise a dire, – la testa che ti pesa come il piombo, e gli occhi che non li puoi più aprire, tra il gonfiore di queste belle borse acquerose! Parola d’onore, va a finir che la faccio davvero, la pazzia!

Logorato dalla nefrite, a cinquantadue anni, con lo spasimo fisso alle reni e quei piedi gonfii che, ad affondare una ditata, prima che l’edema rivenisse sù ci metteva un minuto, eccolo là intanto a spiaccicare con le scarpe di panno sul viale già tutto bagnato, proprio come fosse piovuto.

Con quelle scarpe di panno il signor Bareggi si trascinava ogni giorno dalla casa all’ufficio, dall’ufficio alla casa. E andando così piano piano sui piedi molli dolenti, per distrarsi si perdeva a sognare che, una volta o l’altra, se ne sarebbe andato via; via di nascosto; via per sempre, senza ritornare a casa mai più.

Perché le smanie più feroci gliele dava la casa. Quel pensiero, due volte al giorno, di dover ritornare a casa,  laggiù, in una traversa remota del lunghissimo viale per cui s’era incamminato.

E non già per la distanza, della quale era pure da far caso (con quei piedi!); e neppure per la solitudine di quella traversa, che anzi gli piaceva: così appena appena tracciata, ancora senza lumi e senza guasto di civiltà, con tre sole casette a manca, quasi da contadini; e a destra una siepe campestre, da cui su un palo s’affacciava una tabella stinta dal tempo e dalle piogge: «Terreni da vendere».

Stava nella terza di quelle casette. Quattro stanze a terreno, quasi buje, con le grate arrugginite alle finestre e, oltre le grate, una rete di fil di ferro per difendere i vetri dalle sassate dei monellacci selvaggi dei dintorni; e a piano, tre camere da letto e una loggetta che era, quando non faceva umido, la sua delizia: alla vista degli orti.

Le smanie feroci erano per le premure angosciose con cui, subito appena rincasato, lo avrebbero oppresso la moglie e le due figliuole: una gallina spersa e due pollastre pigolanti dietro: corri di qua, scappa di là: per le pantofole, per la tazza di latte col torlo d’uovo; e l’una giù carponi a slacciargli le scarpe; e l’altra a domandargli con una voce a lamento (secondo le stagioni) se si  era inzuppato, se era sudato; come se non lo vedessero, rincasato senz’ombrello, intinto da strizzare o, d’agosto, di ritorno a mezzogiorno, tutto incollato e illividito dal sudore.

Gli finivano, gli finivano lo stomaco tutte quelle premure; come se gli fossero usate perché, così, non trovasse più modo di darsi uno sfogo.

Poteva più lamentarsi davanti a quei sei occhi ammammolati dalla pietà, davanti a quelle sei mani così pronte a soccorrerlo?

Eppure avrebbe avuto da lamentarsi, tanto, e di tante cose! Bastava che si voltasse a guardare qua o là per trovare una ragione di lamento, che esse non supponevano nemmeno. Quel vecchio tavolone di cucina, massiccio, dove mangiavano, e che a lui, messo a pane e latte, quasi non serviva più: come sapeva, quel tavolone, del crudo della carne e dell’odore delle belle cipolle secche dal velo dorato! E poteva rimproverare alle figliuole la carne che esse, sì, potevano mangiarsi, cucinata così saporitamente dalla madre con quelle cipolle? O rimproverarle perché, facendo il bucato in casa per risparmio, quando avevano finito di lavare, buttavano fuori l’acqua saponata e con quel puzzo ardente di lavatojo gli toglievano di godersi, la sera, il fresco respiro degli orti?

Chi sa come sarebbe parso ingiusto un tal rimprovero, a loro che sfacchinavano dalla mattina alla sera, là sempre sole, come esiliate, senza mai, forse, neppur pensare che, in altre condizioni, avrebbero potuto avere una vita diversa, ciascuna per sé.

Erano per fortuna un po’ deboli di cervello, come la madre. Le compativa; ma anche il compatimento che ne aveva, nel vederle ridotte come due strofinacci, gli si cangiava in una cattiva irritazione.

Perché egli non era buono. No, no. Non era buono come pareva a quelle sue povere donne, e, del resto, a tutti. Cattivo era. E gli si doveva veder bene negli occhi, certe volte, che l’aveva anche lui, la sua malizia, bene agguattata sotto. Gli veniva fuori, quand’era solo, nella stanza d’ufficio, che si baloccava senza saperlo con la lancetta del raschino, seduto davanti la scrivania: tentazioni che potevano esser anche da folle: come di mettersi a spaccare con la lancetta di quel raschino l’incerato della ribalta, il cuojo della poltrona; e poi, invece, posava su quella ribalta la manina che pareva grassa grassa, ed era anch’essa enfiata; se la guardava e, mentre grosse lagrime gli scolavano dagli occhi, s’accaniva con l’altra a strapparsi i peli rossicci dal dorso delle dita.

Era cattivo, sì. Ma era anche la disperazione di dover finire tra poco, in una poltrona, perso da una parte e scemo, tra quelle tre donne che lo seccavano e che gli mettevano addosso la smania di scapparsene, finché era in tempo, come un pazzo.

E, sissignori, la pazzia quella sera, prima che nel capo, gli entrò all’improvviso nelle mani e in un piede, facendogli alzar questo alla staffetta e afferrar con quelle il sediolo e la stanga del carretto del lattajo trovato lì per caso all’imboccatura della traversa.

Ma come? Lui, il signor Bareggi, uomo serio, posato, rispettabile, sul carretto del lattajo?

Sì, sul carretto del lattajo, per un ticchio lì per li, appena lo intravide nella nebbia, svoltando dal viale e imboccando la traversa; appena nelle nari avvertì il fresco odore fermentoso d’un bel fascio di fieno nella rete e il puzzo caprino del cappotto del lattajo buttato sul sediolo: gli odori della campagna lontana, che immaginò subito, laggiù laggiù, oltre la barriera nomentana, oltre Casal dei Pazzi, immensa, smemorata e liberatrice.

Il cavallo, allungando il muso e strappando l’erba che cresceva liberamente sulle prode, doveva essersi allontanato da sé, un passo dopo l’altro, dalle tre casette perdute nella nebbia in fondo alla traversa; il lattajo, che a ogni posta s’indugiava al solito a chiacchierar con le donne, sicuro che la bestia abituata lo stesse ad aspettare paziente davanti la porta, ora, uscendo con le bottiglie vuote e non trovandolo più, si sarebbe dato a correre e a gridare: bisognava far presto; e il signor Bareggi, col brio di quell’improvvisa pazzia che gli schizzava dagli occhi, ansante e tutt’un tremito di contentezza e di paura, ormai senza che gli importasse più di rendersi conto di ciò che sarebbe avvenuto e di lui e del lattajo e delle sue donne, nello scompiglio di tutte le immagini che già gli turbinava nell’animo stravolto, dette una gran frustata al cavallo e via!

Non s’aspettava il salto a montone di quella bestiaccia, che pareva vecchia e non era; non s aspettava’ al rimbalzo, il fracasso di tutti i bidoni e gli orci del latte dietro il sediolo; gli scapparono di mano le redini, per sorreggersi, mentre, a quel salto del cavallo, coi piedi sobbalzati dalle stanghe e la frusta per aria, stava per arrovesciarsi all’indietro su quei bidoni e quegli orci; e non aveva ancora finito di sentirsi scampato a quel primo pericolo, che subito la minaccia di nuovi, imminenti, lo tenne senza fiato e sospeso, con quella bestia dannata sfrenata lanciata a una corsa pazza in mezzo alla nebbia che si faceva sempre più fitta col calar della sera.

Non accorreva nessuno a parare? a gridare che altri parasse? Eppure doveva sembrare nel bujo una tempesta quel carretto in fuga con tutti quegli arnesi che, traballando, s’urtavano. Ma forse non passava più nessuno per il viale, o a lui tra il frastuono non arrivavano le grida; e la nebbia gl’impediva di vedere perfino le lampade elettriche che già dovevano essere accese.

Aveva buttato anche la frusta, per agguantarsi disperatamente con tutt’e due le mani al sediolo Ah, non lui soltanto, ma anche quel cavallo doveva essersi impazzito, o per quella frustata in principio, a cui forse non era avvezzo, o per la gioja che quella sera fosse finito così presto il giro delle poste, o per le redini da cui non si sentiva più tenuto. Nitriva, nitriva. E il signor Bareggi vedeva con spavento lo slancio furibondo delle anche in quella corsa che, a ogni slancio, pareva si spiccasse adesso con nuova lena.

A un certo punto, balenandogli il pericolo che alla svoltata del viale sarebbe andato a sbattere contro qualche ostacolo, si provò ad allungare il braccio per tentare se gli veniva fatto di riacchiappar le redini; abburattato, picchiò non seppe dove, col naso, e si ritrovò tanto sangue sulla bocca, sul mento e nella mano; ma non ebbe né modo né tempo di badare alla ferita che si doveva esser fatta; bisognava che tornasse a sorreggersi forte con tutt’e due le mani. Sangue davanti, e latte dietro! Dio. il latte che, sguazzando e sciabordando nei bidoni e negli orci, gli schizzava alle spalle! E rideva il signor Bareggi, pur nel terrore che gli teneva le viscere sospese; rideva di quel terrore; e contrapponeva istintivamente all’idea, pur precisa, d’una prossima immancabile catastrofe l’idea che, dopo tutto, fosse una burla, una burla che aveva voluto fare e che domani avrebbe raccontato, ridendo. E rideva. Rideva, richiamandosi disperatamente davanti agli occhi – l’immagine quieta dell’ortolano che annaffiava l’orto, oltre la siepe là della traversa, com’egli lo vedeva ogni sera dalla sua loggetta; e a cose gaje pensava: ai contadini che, nei loro vecchi abiti, mettevan certe toppe che parevano scelte apposta perché dicessero, sl, la miseria, ma allegra là sulle chiappe, sui gomiti, sui ginocchi, come una bandiera; e intanto, sotto queste immagini quiete e gaje, non meno viva, terribile, quella di ribaltare da un momento all’altro a un urto che avrebbe forse mandato tutto a catafascio.

Volò Ponte Nomentano, volò Casal dei Pazzi, e via, via, via, nella campagna aperta, che già s’indovinava nella nebbia.

Quando il cavallo si fermò davanti a un rustico casalino, col carretto sconquassato e senza più né un bidone né un orcio, era già sera chiusa.

Dal casalino la moglie del lattajo, sentendo arrivare il carretto a quell’ora insolita, chiamò. Nessuno le rispose. Scese con la lucerna a olio davanti la porta; vide quello sconquasso; chiamò di nuovo per nome il marito: ma dov’era? cos’era stato?

Domande, a cui certo il cavallo, ancora ansante e felice della bella galoppata, non poteva rispondere.

Con gli occhi insanguinati, scalpitava e sbruffava, squassando la testa

Vittoria delle formiche

Una cosa per sè forse ridicola ma, agli effetti, terribile: una casa invasa tutta dalle formiche. E questo pensiero folle: che il vento si fosse alleato con esse. Il vento con le formiche. Alleato, con quella sconsideratezza che gli è propria, da non potersi nell’impeto fermare neppure un minuto per riflettere a quello che fa. Detto fatto, a raffica, s’era levato giusto sul punto che lui prendeva la decisione di dar fuoco al formicajo davanti la porta. E detto fatto, la casa, tutta in fiamme. Come se per liberarla dalle formiche lui non avesse trovato altro espediente che il fuoco: incendiarla.

Ma prima di venire a questo punto decisivo sarà bene ricordarsi di molte cose precedenti che possono spiegare in qualche modo sia come le formiche avevano potuto invadere fino a tanto la casa e sia come poté nascere a lui il pensiero stravagante di quest’alleanza tra le formiche e il vento.

Ridotto alla fame, da agiato come il padre l’aveva lasciato morendo, abbandonato dalla moglie e dai figli che s’erano acconciati a vivere per conto loro alla meglio, liberati alla fine dalle sue soperchierie che si potevano qualificare in tanti modi, ma sopra tutto incongruenti; lui che al contrario si credeva loro vittima per troppa remissione e non corrisposto mai da nessuno di loro nei suoi gusti pacifici e nelle sue vedute giudiziose; viveva solo, in un palmo di terra che gli era restato di tutti i beni che prima possedeva, case e poderi; un palmo di terra bonificata, sotto il paese, sul ciglio della vallata, con una catapecchia di appena tre stanze, dove prima abitava il contadino che aveva in affitto la terra. Ora ci abitava lui, il signore ridotto peggio del più miserabile contadino; vestito ancora d’un abito da signore che addosso a lui appariva orribilmente più strappato e unto che addosso a un mendicante che l’avesse avuto in elemosina. Pur tuttavia quella sua signorile spaventosa miseria pareva a volte quasi allegra, come certe toppe di colore che i poveri portano sui loro abiti e quasi fanno loro da bandiera. Nella lunga faccia smorta, negli occhi pesti ma vivi, aveva un che di gajo che s’accordava coi ricci svolazzanti del capo, mezzi grigi e mezzi rossi; e certi ilari guizzi negli occhi, subito spenti al pensiero che, scorti per caso da qualcuno, lo facessero creder pazzo. Capiva lui stesso ch’era molto facile che gli altri si facessero di lui un tal concetto. Ma era proprio contento di farsi ormai tutto da sé come piaceva a lui; e assaporava con gusto infinito quel poco e quasi niente che poteva offrirgli la povertà. Non aveva nemmeno tanto da accendere il fuoco tutti i giorni per cucinarsi una minestra di fave o di lenticchie. Gli sarebbe piaciuto, perché nessuno sapeva cucinarla meglio di lui, dosandovi con tanta arte il sale e il pepe e mescolandovi certe verdure appropriate che, durante la cottura, solo a odorarla la minestra inebriava; e poi, a mangiarla, un miele. Ma sapeva anche farne a meno. Gli bastava, la sera, uscir fuori a due passi dalla porta, cogliere nell’orto un pomodoro, una cipolla per companatico alla solida pagnotta che con meticolosa cura affettava con un coltellino e con due dita, pezzetto per pezzetto, si portava alla bocca come un boccone prelibato.

Aveva scoperto questa nuova ricchezza, nell’esperienza che può bastar così poco per vivere; e sani e senza pensieri; con tutto il mondo per sé, da che non si ha più casa né famiglia né cure né affari; sporchi, stracciati, sia pure, ma in pace; seduti, di notte, al lume delle stelle, sulla soglia d’una catapecchia; e se s’accosta un cane, anch’esso sperduto, farselo accucciare accanto e carezzarlo sulla testa: un uomo e un cane, soli sulla terra, sotto le stelle.

Ma senza pensieri, non era vero. Buttato poco dopo su un pagliericcio per terra come una bestia, invece di dormire si metteva a mangiare le unghie e, senza badarci, a strapparsi coi denti fino al sangue le pipite delle dita, che poi gli bruciavano gonfie e suppurate per parecchi giorni. Ruminava tutto ciò che avrebbe dovuto fare e che non aveva fatto per salvare i suoi beni; e si torceva dalla rabbia o mugolava per il rimorso, come se la sua rovina fosse accaduta jeri, come se jeri avesse finto di non accorgersi che sarebbe accaduta tra poco e che ormai non era più rimediabile. Non ci poteva credere! Uno dopo l’altro s’era lasciati portar via dagli usuraj i poderi, e una dopo l’altra le case, per poter disporre d’un po’ di danaro di nascosto dalla moglie, per pagarsi qualche piccola passeggera distrazione (veramente, non piccola né passeggera; era inutile che cercasse adesso attenuazioni; doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per anni come un vero porco, ecco, così doveva dire: come un vero porco; donne, vino, giuoco) e gli era bastato che la moglie non si fosse ancora accorta di nulla, per seguitare a vivere come se neppur lui sapesse nulla della rovina imminente; e sfogava intanto le bili e le smanie segrete sul figlio innocente che studiava il latino. Sissignori. Incredibile: s’era messo a ristudiare il latino anche lui, per sorvegliare e ajutare il figlio; come se non avesse altro da fare e fosse davvero un’attenzione e una cura, questa sua, che potesse compensare il disastro che intanto preparava a tutta la famiglia. Questo disastro, per la sua segreta esasperazione, era lo stesso di quello a cui andava incontro il figlio se non riusciva a comprendere il valore dell’ablativo assoluto o della forma avversativa; e s’accaniva a spiegarglielo, e tutta la casa tremava dalle sue grida e dalle sue furie per l’imbalordimento di quel povero ragazzo, che piano piano forse lo avrebbe alla fine compreso da sé. Con che occhi lo aveva guardato una volta, dopo uno schiaffo! Nell’impeto del rimorso, ripensando a quello sguardo del suo ragazzo, si sgraffiava ora la faccia con le dita artigliate e s’ingiuriava: porco, porco, bruto: prendersela così con un innocente!

Lasciava il pagliericcio; rinunziava a dormire; tornava a sedere sulla soglia della catapecchia; e lì il silenzio smemorato della campagna immersa nella notte, a poco a poco, lo placava. Il silenzio, non che turbato, pareva accresciuto dal remoto scampanellìo dei grilli che veniva dal fondo della grande vallata. Era già nella campagna la malinconia della stagione declinante; e lui amava le prime giornate umide velate, quando cominciano a cadere quelle pioggerelle leggere, che gli davano, chi sa perché, una vaga nostalgia dell’infanzia lontana, quelle prime sensazioni meste e pur dolci che fanno affezionare alla terra, al suo odore. La commozione gli gonfiava il petto; l’angoscia gli serrava la gola, e si metteva a piangere. Era destino che lui dovesse finire in campagna. Ma non s’aspettava così veramente.

Non avendo né la forza né i mezzi di coltivare da sé quel po’ di terra, che fruttava appena tanto da pagar la tassa fondiaria di cui era gravata, l’aveva ceduta al contadino che aveva in affitto il podere accanto, a condizione che pagasse lui quella tassa e che gli desse soltanto da mangiare: poco, quasi per elemosina, di quel che produceva la terra stessa: pane e verdura, e da farsi, se gli andava, una minestra ogni tanto.

Stabilito quest’accordo, aveva preso a considerare tutto quello che si vedeva attorno, mandorli, olivi, grano, ortaglie, come cose che non appartenessero più a lui. Sua era soltanto la catapecchia; ma se si metteva a guardarla come la sua unica proprietà, non poteva fare a meno di sorriderne col più amaro dileggio. Già l’avevano invasa le formiche. Finora s’era divertito a vederle scorrere in processioni infinite su per le pareti delle stanze. Erano tante e tante, che a volte pareva che le pareti tremolassero tutte. Ma più gli piaceva vederle andare in tutti i sensi da padrone sui buffi mobili signorili di quella ch’era stata un tempo la sua casa in città, relitti del naufragio della sua famiglia, ammassati lì alla rinfusa e tutti con un dito di polvere sopra. Nell’ozio, per distrarsi, s’era messo anche a studiarle, quelle formiche, per ore e ore.

Erano formiche piccolissime e della più lieve esilità, fievoli e rosee, che un soffio ne poteva portar via più di cento; ma subito cento altre ne sopravvenivano da tutte le parti; e il da fare che si davano; l’ordine nella fretta; queste squadre qua, quest’altre là; viavai senza requie; s’intoppavano, deviavano per un tratto, ma poi ritrovavano la strada, e certo s’intendevano e consultavano tra loro.

Non gli era parso ancora, però, forse per quella loro esilità e piccolezza, che potessero essere temibili, che volessero proprio impadronirsi della casa e di lui stesso e non lasciarlo più vivere. Pur le aveva trovate da per tutto, in tutti i cassetti; le aveva vedute venir fuori donde meno se le sarebbe aspettate; se l’era trovate anche in bocca talvolta, mangiando qualche pezzo di pane lasciato per un momento sulla tavola o altrove. L’idea che se ne dovesse seriamente difendere, che le dovesse seriamente combattere, non gli era ancora venuta. Gli venne tutt’a un tratto una mattina, forse per l’animo in cui era, dopo una nottataccia più nera delle altre.

S’era levata la giacca per portar dentro la catapecchia alcuni covoni, una ventina, che dopo la mietitura il contadino non aveva ancora trasportato nel suo podere di là e aveva lasciato qua all’aperto. Il cielo, durante la notte, s’era incavernato, e la pioggia pareva imminente. Abituato a non far mai nulla, per quella fatica insolita e per quella sciocca previdenza, che poi del resto non spettava neanche a lui perché quei covoni di grano appartenevano come tutto il resto al contadino, s’era tanto stancato, che quando fu per trovar posto dentro la catapecchia, già tutta stipata, all’ultimo covone, non ne poté più, lasciò quel covone davanti la porta, e sedette per riposarsi un po’.

A capo chino, con le braccia appoggiate alle gambe discoste, lasciò penzolare tra esse le mani. E ad un certo punto ecco che si vide uscire dalle maniche della camicia su quelle mani penzoloni le formiche, le formiche che dunque sotto la camicia gli passeggiavano sul corpo come a casa loro. Ah, perciò forse la notte lui non poteva più dormire e tutti i pensieri e i rimorsi lo riassalivano. S’infuriò e decise lì per lì di sterminarle. Il formicajo era a due passi dalla porta. Dargli fuoco.

Come non pensò al vento? Oh bella. Non ci pensò perché il vento non c’era, non c’era. L’aria era immota; in attesa della pioggia che pendeva sulla campagna, in quel silenzio sospeso che precede la caduta delle prime grosse gocce. Non crollava foglia. La raffica si levò d’improvviso a tradimento, appena lui accese il fascetto di paglia raccolta per terra; lo teneva in mano come una torcia; nell’abbassarlo per dar fuoco al formicajo, la raffica, investendolo, portò le faville a quel covone rimasto davanti la porta, e subito il covone avvampando appiccò il fuoco agli altri covoni riparati dentro la casa, dove l’incendio d’un tratto divampò crepitando e riempiendo tutto di fumo. Come un pazzo, urlando con le braccia levate, lui si cacciò dentro alla fornace, forse sperando di spegnerla.

Quando dalla gente accorsa fu tratto fuori, fu uno spavento vederlo tutto orribilmente arso e non ancor morto, anzi furiosamente esaltato, annaspante con le braccia, le fiamme addosso, sugli abiti e nei ricci svolazzanti sul capo. Morì poche ore dopo all’ospedale, dove fu trasportato. Nel delirio, sparlava del vento, del vento e delle formiche.

– Alleanza… alleanza…

Ma già lo sapevano pazzo. E quella sua fine, sì, fu commiserata, ma pur con un certo sorriso sulle labbra.

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Sieg der Ameisen

aus dem Italienischen von Michael Rössner

Eine Sache, die an und für sich lächerlich sein mag, in den Auswirkungen aber schrecklich: Ein Haus, das ganz von den Ameisen in Besitz genommen wird. Und dieser verrückte Gedanke: Daß der Wind sich mit ihnen verbündet haben könnte. Der Wind mit den Ameisen. Verbündet, mit dieser Sorglosigkeit die ihm zu eigen ist, da er in seinem Schwung nicht für einen Augenblick anhalten kann, um darüber nachzudenken, was er gerade tut. Gesagt, getan, mit einer kräftigen Bö hatte der Wind gerade in dem Augenblick eingesetzt, in dem er beschlossen hatte, den Ameisenhaufen vor der Tür anzuzünden. Und gesagt, getan, stand nun das ganze Haus in Flammen. Als hätte er, um es von den Ameisen zu befreien, keinen anderen Weg gefunden als das Feuer: es anzuzünden..

Aber ehe wir zu diesem entscheidenden Punkt gelangen, wäre es gut, die vielen vorausgehenden Dinge zu bedenken, die doch irgendwie zu erklären vermögen, wie die Ameisen das Haus so sehr in Besitz hatten nehmen können, und wie sich in ihm der seltsame Gedanke eines Bündnisses zwischen den Ameisen und dem Wind hatte einnisten können.

 Heruntergekommen zu einem Hungerleider, aus der wohlhabenden Situation, in der ihn sein Vater bei dessen Tod hinterlassen hatte, verlassen von Frau und Kindern, die sich am Ende dazu durchgerungen hatten, allein zu leben, so gut es ging, endlich frei von seinen tyrannischen Übergriffen, die man beurteilen mochte, wie man wollte, vor allem aber waren sie unangemessen; er dagegen hielt sich für das Opfer, weil er zu nachgiebig gewesen war und bei ihnen nie Unterstützung gefunden hatte in seinen bescheidenen Vorlieben und seinen wohlüberlegten Ansichten; so lebte er allein, auf einem Fleckchen Erde, dem einzigen, was ihm noch von all den früheren Besitztümern, Häusern und Landgütern, geblieben war; ein Fleckchen künstlich urbar gemachter Erde unterhalb des Dorfes, am Rande des Tals, mit einer Hütte, die gerade drei Zimmer hatte, und in der früher der Bauer gewohnt hatte, der das Land in Pacht hatte. Nun wohnte er hier, der Signore, ärger herabgekommen als der elendste Bauer; er kleidete sich freilich immer noch in den Anzug eines Signore, der an seinem Körper in entsetzlicher Weise viel abgerissener und fleckiger aussah, als es an einem Bettler der Fall gewesen wäre, der ihn als Almosen bekommen hätte. Und dennoch erschien manchmal dieses schreckliche herrenhafte Elend geradezu fröhlich, wie gewisse Farbflicken, die die Armen auf ihre Kleider genäht tragen, und die beinahe so etwas wie ihr Banner darstellen. In dem langen, bleichen Gesicht mit den geschwollenen, aber lebendigen Augen lag etwas Ausgelassenes, das zu den fliegenden, halb grauen, halb rötlichen Locken des Kopfes paßte; und in den Augen war immer wieder so ein gewisses heiteres Aufblitzen, das jedoch gleich wieder erlosch bei dem Gedanken, wenn jemand es zufällig beobachtete, würde man ihn deshalb für verrückt halten. Er verstand es ja selbst, daß die anderen sich nur zu leicht von ihm eine solche Vorstellung machen konnten. Aber dabei war er doch wirklich zufrieden, endlich einmal alles so einrichten zu können, wie er es wollte; und er genoß mit einem unendlichen Behagen dieses Bißchen, ja Fast-Nichts, das ihm die Armut zu bieten vermochte. Es reichte nicht einmal dafür, jeden Tag das Herdfeuer anzuzünden, um sich wenigstens eine Bohnen- oder Linseneinsuppe zu kochen. Gefallen hätte ihm das schon, denn niemand verstand diese Speisen besser zuzubereiten als er, der mit so viel Kunstfertigkeit Salz und Pfeffer dosierte und in so kundiger Weise gerade das richtige Grünzeug hineinmischte, daß die Suppe schon während des Kochens allein durch ihren Geruch trunken machte; und sie aß sich wie Götterspeise. Aber er konnte auch darauf verzichten. Es reichte ihm, am Abend ein paar Schritte vor die Haustür zu machen und im Garten eine Tomate und eine Zwiebel zu pflücken, die das gewohnte Stück Brot begleiteten, das er mit größter Sorgfalt mit einem Taschenmesser in Scheiben schnitt und dann mit zwei Fingern Stück für Stück wie einen Leckerbissen in den Mund schob.

Er hatte diesen neuen Reichtum entdeckt, der einfach in der Erfahrung lag, daß so wenig schon für das Leben genug sein kann; und daß man dabei gesund sein kann und sich keine Gedanken machen muß; und daß man die ganze Welt für sich hat, wenn man kein Haus mehr hat und keine Familie und keine Sorgen und keine Geschäfte; ja, man ist dreckig und abgerissen, sei’s drum, aber in Frieden; und so sitzt man des Nachts unter dem Sternenhimmel auf der Schwelle einer Hütte; und wenn ein Hund, auch er ein streunender, davongejagter, sich an einen schmiegt, dann kann man ihn streicheln und ihm den Kopf tätscheln; ein Mensch und ein Hund, allein auf dieser Erde, unter dem Sternenhimmel.

Aber sich so ganz und gar keine Gedanken machen, das war auch wieder nicht wahr. Als er sich wenig später auf einem Haufen Stroh auf der Erde ausgestreckt hatte wie ein Stück Vieh, da begann er anstatt zu schlafen, an den Nägeln zu kauen und, ohne darauf zu achten, sich mit den Zähnen die Fingerkuppen bis aufs Blut wundzuscheuern, die ihn hernach, angeschwollen und eitrig geworden, einige Tage lang brennen würden. Er wälzte immer wieder die Gedanken an das, was er hätte tun sollen und nicht getan hatte, um sein Vermögen zu retten; und er krümmte sich vor Wut oder stöhnte auf vor Reue, als wäre sein Ruin erst gestern erfolgt, als hätte er erst gestern vorgetäuscht, er würde nicht bemerken, daß dieser Ruin binnen kurzem eintreten müßte und längst unvermeidbar geworden sei. Es war doch nicht zu glauben! Eines nach dem anderen hatte er sich seine Landgüter von den Wucherern entreißen lassen, eines nach dem anderen die Häuser, nur um über ein bißchen Geld verfügen zu können, von dem seine Frau nichts wußte, um sich eine kleine, vorübergehende Zerstreuung gestatten zu können (also, um der Wahrheit die Ehre zu geben, weder klein noch vorübergehend; es war unnötig, daß er jetzt noch nach Milderungsgründen suchte; jetzt galt es, sich ganz offen einzugestehen, daß er Jahre hindurch gelebt hatte wie ein Schwein, jawohl, so mußte man es wohl nennen: wie ein richtiges Schwein; Weiber, Wein und Würfelspiel) und es hatte ihm gereicht, daß seine Frau noch immer nichts gemerkt hatte, um weiterhin so zu leben, als ob auch er nichts von dem unmittelbar bevorstehenden Ruin gewußt hätte; und unterdessen hatte er seine Bitterkeit und seine heimlichen Rasereien an seinem unschuldigen Sohn abreagiert, der Latein studierte. Jawohl! So unglaublich das war: Auch er hatte sich wieder daran gemacht, Latein zu lernen, um den Sohn zu beaufsichtigen und ihm zu helfen; als hätte er sonst nichts zu tun und als wäre das tatsächlich Fürsorge und Zuwendung gewesen, die einen Ausgleich für die Katastrophe darstellen könnten, die er unterdessen für die gesamte Familie vorbereitete.

Diese Katastrophe war für seine geheime Verzweiflung dieselbe, der sein Sohn entgegenging, wenn er nicht zu verstehen vermochte, welche Bedeutung der Ablativus absolutus oder die adversative Form im Lateinischen hatten; und er versteifte sich darauf, ihm die zu erklären, das ganze Haus erzitterte von seinen Schreien und seinem Wüten angesichts der Verwirrung dieses armen Burschen, der allmählich das ganze wohl auch selbst verstanden hätte. Mit was für Augen er ihn einmal angesehen hatte, nach einer Ohrfeige! In der Heftigkeit seiner Gewissensbisse zerkratzte er sich nun bei dem Gedanken an diesen Blick seines Jungen das Gesicht mit verkrümmten Fingern und beschimpfte sich dabei: Schwein, Schwein, Vieh! Wie kann man so auf einen Unschuldigen losgehen!

Er erhob sich von dem Strohlager; er gab es auf zu schlafen; er setzte sich wieder auf die Schwelle der Hütte; und dort gelang es dem gedächtnislosen Schweigen der in der Nacht aufgehenden Campagna allmählich ihn zu beruhigen; diesem Schweigen, das nicht nur nicht gestört, sondern geradezu gesteigert zu werden schien von dem fernen Zirpen der Grillen, das aus dem Grund des großen Tals heraufdrang. In der Landschaft lag bereits die Melancholie der sterbenden Jahreszeit; und er liebte die ersten feuchten, verschleierten Tage, wenn diese ganz feinen Sprühregen begannen, die ihm, wer weiß warum, eine vage Sehnsucht nach der fernen Kindheit einflößten, diese ersten schmerzlichen und doch süßen Empfindungen, durch die man Zuneigung zu der Erde faßt, zu ihrem Geruch. Die Rührung weitete ihm die Brust; die Bangigkeit schnürte ihm die Kehle zu, und er begann zu weinen. Es war wohl Schicksal, daß es mit ihm auf dem Lande zu Ende gehen sollte. Aber daß es in dieser Weise geschehen sollte, das hatte er sich doch nicht erwartet.

Da er weder die Kräfte noch die Mittel hatte, selbst dieses bißchen Erde zu bestellen, das gerade so viel trug, daß man davon den Grundzins bezahlen konnte, der darauf lastete, hatte er es dem Bauern abgetreten, der das Gut nebenan gepachtet hatte, lediglich unter der Bedingung, daß der für ihn diesen Grundzins zahlte und ihm zu essen gab; wenig, fast als Almosen, und von dem, was die Erde selbst hervorbrachte: Brot und Gemüse, damit er sich, wenn ihm danach zumute war, jeden Tag eine Suppe kochen konnte.

Seit er diesen Vertrag abgeschlossen hatte, war er dazu übergegangen, all das, was er da ringsumher erblickte, Mandelbäume, Olivenbäume, Korn, Gartenfrüchte, als Dinge anzusehen, die nicht mehr ihm gehörten. Ihm gehörte nur noch die Hütte; aber wenn er sie als sein einziges Besitztum ansah, dann konnte er nicht umhin, mit dem bittersten Vergnügen der Welt darüber zu lächeln. Die Ameisen hatten sie bereits in Besitz genommen. Bislang hatte er sich dabei unterhalten, sie in unendlichen Prozessionen die Wände der Zimmer hinauflaufen zu sehen. Sie waren so viele, daß er manchmal meinte, die Wände würden förmlich unter ihnen erzittern. Aber noch mehr Spaß hatte er daran, sie in allen Richtungen kreuz und quer, als gehörten sie ihnen, über die merkwürdigen herrschaftlichen Möbel laufen zu sehen, die aus seinem ehemaligen Stadthaus stammten, von dem Zusammenbruch der Familie übrig geblieben und dort in der Hütte in buntem Durcheinander aufgestellt worden waren, alle mit einer dicken Staubschicht darauf. In seinen Stunden der Muße hatte er, um sich zu zerstreuen, sich sogar darangemacht, sie zu studieren, diese Ameisen, Stunden um Stunden hatte er sie so beobachtet.

Es waren winzig kleine Ameisen, unglaublich leicht, dünn, zart und rosig, so daß ein einziger Atemhauch mehr als hundert von ihnen verblasen konnte; aber auf der Stelle kamen andere hundert von allen Seiten herbei; und was für eine Geschäftigkeit sie entwickelten; welche Ordnung in der Eile; diese Trupps hier, jene dort; ein Hin und Her ohne Rast; sie gerieten an ein Hindernis, machten ein Stück lang einen Umweg, aber dann fanden sie ihre Straße wieder und sicherlich verständigten und berieten sie sich untereinander.

Noch nie jedoch war es ihm so erschienen ‑ vielleicht gerade wegen ihrer Zartheit und Kleinheit ‑, als könnten sie zu fürchten sein, als wollten sie sich tatsächlich des Hauses und seiner selbst bemächtigen und ihn nicht mehr weiterleben lassen. Und dennoch hatte er sie schon überall gefunden, sogar in den Schubladen; er hatte sie an den Stellen herauskommen sehen, an denen er sie am wenigsten erwartet hätte, manchmal fand er sie sogar in seinem Mund, wenn er ein Stück Brot aß, das er für einen Augenblick auf dem Tisch oder sonstwo liegen gelassen hatte. Die Idee, er müsse sich im Ernst gegen sie verteidigen, im Ernst den Kampf gegen sie aufnehmen, die war ihm noch nicht gekommen. Sie kam ihm ganz plötzlich eines Morgens, vielleicht wegen der Stimmung, in der er sich befand, nach einer Schreckensnacht, die noch schwärzer gewesen war als alle anderen.

Er hatte sich die Jacke ausgezogen, um ein paar Ährenbündel in die Hütte zu tragen, zwanzig vielleicht, die der Bauer noch nicht in seinen Hof gebracht und hier im Freien liegen gelassen hatte. Der Himmel hatte sich über Nacht verdüstert, und der Regen schien unmittelbar bevorzustehen. Da er nun einmal ans Nichtstun gewohnt war, hatte ihn diese ungewohnte Mühe und diese blöde Vorsorge, die ihn im übrigen gar nichts anging, denn diese Ährenbündel gehörten ja wie alles andere dem Bauern, so sehr ermüdet, daß er, als er für das letzte Bündel in der schon ganz vollgestopften Hütte Platz suchte, einfach nicht mehr konnte, das Bündel vor der Tür absetzte und sich dazuhockte, um ein wenig auszuruhen.

Mit hängendem Kopf, die Arme auf die gespreizten Beine gestützt, ließ er zwischen den Beinen die Hände ein  wenig baumeln. Und auf einmal, da, sah er doch tatsächlich aus den Ärmeln seines Hemds über diese baumelnden Hände die Ameisen kriechen, die Ameisen, die also offenbar unter seinem Hemd über seinen Körper spazierten, als wären sie da zu Hause. Er geriet in Wut und beschloß, auf der Stelle diese Plage auszurotten. Der Ameisenhaufen war ja nur zwei Schritte von der Tür entfernt. Ihn anzünden!

Wie kam es nur, daß er nicht an den Wind dachte? Na, das ist eine gute Frage. Er dachte nicht an ihn, weil gar kein Wind ging, es ging ja gar kein Wind. Die Luft schien stillzustehen, in Erwartung des Regens, der über dem Land hing, in dieser schwer lastenden Stille, die dem Fallen der ersten Tropfen voranzugehen pflegt. Kein Blatt fiel vom Baum. Die Windbö kam ganz plötzlich und heimtückisch auf, kaum daß er das Strohbündel, das er vom Boden aufgelesen hatte, in Brand gesteckt hatte; er hielt es in der Hand wie eine Fackel; als er es senkte, um den Ameisenhaufen in Brand zu stecken, da packte die Bö das Feuer und trug die Funken bis zu dem Ährenbündel, das vor der Tür liegen geblieben war, und sofort flammte es auf und gab das Feuer an die anderen Ährenbündel weiter, die in der Hütte gestapelt waren, in der sich nun das Feuer prasselnd und alles mit Rauch erfüllend ausbreitete. Wie ein Verrückter warf er sich in die Glut, schreiend und mit erhobenen Armen, vielleicht in der Hoffnung, sie noch zu ersticken.

Als er von den herbeigeeilten Leuten herausgetragen wurde, bot er einen grauenhaften Anblick, so entsetzlich verbrannt und doch noch nicht tot, im Gegenteil, in höchster, wütender Erregung, mit den Armen fuchtelnd, die Flammen am Leib, auf den Kleidern und in den fliegenden Locken auf dem Kopf. Er starb wenige Stunden später in dem Spital, in das man ihn gebracht hatte. In seinem Delirium schimpfte er auf den Wind, den Wind und die Ameisen.

„Verbündet haben sie sich… verbündet…“

Aber man wußte ja längst, daß er verrückt war. Und dieses schreckliche Ende, das er nahm, das bedauerten die Leute, gewiß, aber doch mit einem gewissen Schmunzeln auf den Lippen.

© Michael Rössner.

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