Dante Di Nanni, operaio, partigiano, comunista by resistenze.org

Dante Di Nanni, operaio, partigiano, comunista

Convegno tenutosi a Torino, il 16 maggio 2015, presso il Centro Congressi della Circoscrizione 3, via Millio 30. Organizzato dal Partito Comunista di Torino, con la partecipazione del Fronte della Gioventù Comunista, dell’ANPI Provinciale, CSOA Gabrio, Scudo Legale Popolare del Fronte Unitario dei Lavoratori.
Si riproducono qui alcuni interventi del Convegno


Introduzione

Federico Milano, Partito Comunista Torino

16/05/2015

Buongiorno a tutti. Ringrazio i compagni e le compagne intervenuti a questa iniziativa, a nome della Federazione Torinese “Giorgio Bottiglieri” del partito comunista.

L’incontro odierno fa parte di una campagna denominata “a conquistare la rossa primavera” lanciata dal Partito Comunista nel settantesimo anniversario della liberazione per celebrare su tutto il territorio nazionale le varie esperienze di resistenza e liberazione dal giogo nazifascista.

Dedicare un convegno a Dante Di Nanni nell’anniversario della sua morte ha il preciso significato di riannodare un confronto fra la  realtà materiale in cui si nutre la sua figura, l’essere operaio, figlio di migranti, essere comunista e quindi antifascista e partigiano,  proiettandola  nella condizione delle classi subalterne di oggigiorno, consapevoli che oggi, come lo fu nel 1944, sia indispendabile conquistare la rossa primavera.

Fino ad alcuni decenni orsono, pur in un quadro di già costante arretramento dai valori della resistenza, si contestava al movimento comunista e operaio in generale di volere egemonizzare il fenomeno resistenziale. Ora anche quel quadro e’ mutato. Come gutta cavam lapidem, attraverso un’incessante opera di revisionismo storico  si assiste ad uno stravolgimento del significato dell’esperienza della resistenza partigiana; dal “sangue dei vinti” di Pansa, al concetto di equivalenza fra chi combattè per la libertà e chi dalla parte sbagliata, è stato intrapreso un percorso, che trova il suo sigillo normativo nell’indegna legge sulla giornata del ricordo,  finalizzato da un lato a minimizzare il ruolo dei partigiani nel movimento di liberazione nazionale, dall’altro – enfatizzando ed accentuando gli eccessi comuni a qualunque esperienza di lotta – a mettere sotto accusa il movimento comunista, giungendo ad equipararlo al nazifascismo.

Un processo ben chiaro: in un periodo di dominio del pensiero unico non si può ammettere un’idea che voglia sfrattare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo,  che voglia parlare di uguaglianza e non di merito, che  chieda diritti e non premi, che pretenda un sistema sociale ed economico diverso da quello attuale.

A parte quel poco di vuota retorica a corollario delle celebrazioni istituzionali, la resistenza – quella vera – quella che si è combattuta sui monti, che ha praticato la lotta armata nelle città, come il gappista Dante Di Nanni, che ha contribuito in modo determinante alla liberazione,  quella resistenza che da fastidio, che la classe dominate vuole nascondere, torna ad essere affare nostro, collante di quella sinistra, che  in modo autentico e militante si definisce antifascista.

Ebbene sì, la lotta partigiana non fu di esclusiva pertinenza del movimento comunista, ma questo ne fu certamente egemone, per capacità  direttiva, per numero di partigiani, per la capacità di mobilitare le masse, per il tributo di sangue versato.

La resistenza non fu, come taluni vogliono intendere, un processo spontaneo: se il partito comunista riuscì ad essere alla testa delle masse operaie negli scioperi del marzo ’43 e nei movimenti popolari del 25 luglio e dell’8 settembre e successivamente a guidare il movimento partigiano e la guerra di liberazione nazionale, lo si deve all’azione svolta durante il ventennio fascista. Seppure ridotto in clandestinità, con i suoi dirigenti in esilio, al confino, nelle carceri, i comunisti rimasero sempre in contatto con i lavoratori delle fabbriche e delle campagne per dirigere le azioni di lotta contro il fascismo, senza mai smettere di lottare contro il regime.

Le azioni del gappista Dante Di Nanni  non erano dunque gesti isolati, erano un tutt’uno con la guerra di liberazione, quelle azioni che senza tregua minavano la sicumera dei gerarchi fascisti, delle brigate nere, delle ss, erano collegate alle operazioni che le brigate partigiane muovevano in montagna e alle mobilitazioni operaie nelle fabbriche.

Dopo le sconfitte patite dal movimento operaio sul finire del XX secolo, si assiste ora al trionfo della borghesia trasnazionale, del neoliberismo, dell’imperialismo USA e UE, che si ritengono i definitivi vincitori dello scontro politico e sociale tra le classi.

La fine della storia teorizzata da Fukuyama ci ha regalato guerre, crisi economiche, azzeramento delle conquiste sociali strappate nell’arco di un secolo dalle classi popolari; con un pericoloso arretramento dei medesimi diritti economici e politici.

Campagne mediatiche ben orchestrate accompagnano le riforme del  governo Renzi, ordinate dalla troika: limitazione della sovranità nazionale (si pensi al  trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti), attacco al mondo del lavoro, innalzamento dell’età pensionabile, distruzione della scuola pubblica come luogo universale di formazione culturale, privatizzazione del patrimonio collettivo.  Sul piano politico le riforme economiche trovano riscontro nella demolizione della Costituzione, vergata con il sangue dei tanti Dante Di Nanni che combatterono per la liberazione e per l’approdo a quella democrazia progressiva che vedeva nelle masse popolari il fulcro del proprio agire: quindi enfatizzazione della governabilità, supremazia intoccabile dell’esecutivo, trasformazione del Senato elettivo in una sorta di Senato del regno, leggi elettorali che impediscono una effettiva rappresentanza della sovranità popolare: ormai un elettore su due non va neppure più a votare, ma ciò non ha alcuna importanza perchè l’unica cosa che conta è la governance e imporre le misure liberticide decise nell’interesse degli oligopoli finaziari-produttivi. Vengono azzerati gli spazi di agibilità politica, imponendo come unico momento democratico possibile quello dell’appuntamento elettorale, dove la scelta è fra un comitato d’affari e l’altro. Le giuste rivendicazioni popolari dei militanti Notav – ad esempio – vengono stigmatizzate, ridimensionate a questione di ordine pubblico, e infine accolte dall’apparato repressivo dello Stato.

Ma questo non basta ancora, perché come già in passato il capitalismo si è rivolto ai fascismi in epoca di crisi – vediamo come nella competizione interimperialista gli USA e la UE non abbiano avuto alcun disagio ad allearsi con i nazisti in Ucraina – è sempre più attuale il pericolo del riaffiacciarsi sulla scena politica del fascismo vero. Sono le solite parole d’ordine che abbiamo già sentito sin dal manifesto dei sansepolcristi, quelle che fanno presa su quella parte meno matura delle classi proletarie: il fascismo non attizza soltanto i pregiudizi pofondamente radicati nelle masse, ma specula sui loro istinti, anche quelli migliori. Specula sul  profondo sentimento di delusione suscitato dalla democrazia, suggestiona le masse deluse dai partiti attraverso la violenza dei suoi attacchi contro i governi borghesi.

Quello che abbiamo sotto gli occhi di tutti è il risultato di quell’incessante lavorio di mistificazione della guerra di liberazione. “Bella ciao” è una bel canto, ma un po’ inflazionato, è ora di rammentare che la canzone dei partigiani era “Fischia il vento”.

In un contesto differente da quello del 1943-1945, sia dal profilo delle condizioni oggettive, sia da quelle soggettive, in cui variegate esperienze più o meno organizzate, più o meno spontanee, portano avanti la lotta contro politiche liberticide, non è però affatto mutata la necessità di fare forza comune per respingere l’idea che pochi eletti possano decidere delle nostre sorti. Vengono a proposito le parole di Antonio Gramsci, dai Quaderni del Carcere,  a proposito dello spontaneismo e dell’organizzazione durante il Biennio Rosso.

«Questa direzione, (dell’Ordine Nuovo) non era astratta, non consisteva nel ripetere meccanicamente delle formule scientifiche o teoriche; non confondeva la politica, l’azione reale con la disquisizione teorica. essa si applicava a uomini reali, formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vedere, frammenti di concezione del mondo, che risultavano dalle combinazioni spontanee di un dato ambiente di produzione materiale con il casuale agglomerarsi in esso di elementi sociali disparati. Questo elemento di spontaneità non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficente, con la teoria moderna (marxismo). …Questa unità della spontaneità e della direzione consapevole…, e’ appunto l’azione politica reale delle classi subalterne , in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa».

Chi ha preteso di mettere tutti sullo stesso piano ha compiuto un’eresia storica. Come diceva un grande rivoluzionario, Maximilian Robespierre: «La morte non e’ un sonno eterno. Buoni e malvagi vivono e muiono entrambi. Ma in modi diversi».


Dante Di Nanni: operaio, partigiano, comunista

Graziano Gullotta, Fronte della Gioventù Comunista

16/05/2015

Care compagne e cari compagni,
nell’iniziare il mio intervento vorrei portare, innanzitutto, il saluto del Fronte della Gioventù Comunista a questa iniziativa di riflessione sulla vita, sul ricordo e sulla lezione che ci ha lasciato Dante Di Nanni.

Non è necessario sottolineare il rispetto e il convolgimento che un’organizzazione giovanile e comunista come la nostra ha verso questa figura che spazia nell’immaginario collettivo tra l’eroe e il superuomo: ma cercando di andare oltre alle interpretazioni storiografiche borghesi, evitando di svolgere una ulteriore, anche se sicuramente meritata, ma sterile apologia dell’uomo; ragionando da comunisti, vogliamo chiederci: chi era davvero Dante Di Nanni?

In realtà non esiste molta documentazione storica sulla vita dell’operaio, del partigiano e del comunista Di Nanni. Figlio di immigrati pugliesi, sappiamo che lavorò nella fabbrica torinese Microtecnica, un’azienda specializzata in meccaniche di precisione, e che quindi, condizione mai trascurabile, la sua appartenenza di classe era quanto mai definita. Durante la seconda guerra mondiale si arruola in aeronautica, provando a stringere rapporti con l’organizzazione clandestina comunista già in questo periodo e poi nel momento fatidico dell’8 settembre 1943 quando per sfuggire ai nazisti si rifugiò, come moltissimi altri ragazzi dell’epoca, tra le montagne piemontesi.

Tuttavia, l’aspetto che maggiormente ha segnato l’immaginario sulla sua figura è inevitabilmente il racconto della sua morte all’interno dell’opera di Giovanni Pesce “Senza Tregua”: un gappista, un comunista ma in fondo un giovanissimo ragazzo che, trovatosi solo contro decine di nazisti organizzati, armati e asserragliati sotto la sua abitazione, resiste per lunghissimo tempo e contrattacca, fino al momento culminante del sacrificio finale che lo ha consegnato al mito. Ma la domanda ineludibile che sicuramente in molti prima di me si saranno posti è: cosa rappresenta Dante Di Nanni oggi? Cosa farebbe Dante Di Nanni nella realtà di Torino degli anni 2000? La risposta evidentemente non è affatto semplice e possiamo solo basarci su congetture e ragionamenti.

Partirei dalla constatazione necessaria che la Lotta di Liberazione fu fatta in grandissima parte da giovani. Erano ragazzi tra i 16 e i 20 anni, che animati essenzialmente da un desiderio di libertà dal mostro nazifascista, si lanciarono in un’avventura di cui molto poco erano consapevoli e della quale in tanti non avrebbero visto il “vittorioso” epilogo. Nel documentario prodotto dal Fronte della Gioventù Comunista per celebrare i 70 anni dalla liberazione dal nazifascismo, “Noi sempre lotterem”, emergono in maniera abbastanza evidente alcuni caratteri essenziali che spesso e volentieri vengono oscurati, mascherati e strumentalizzati dalla storiografia e dai media borghesi.

Uno di questi è per l’appunto la scelta di massa di migliaia di giovani che si arruolano nelle file delle formazioni armate resistenziali. Un altro aspetto fondamentale, forse il più fondamentale di tutti, l’aspetto senza il quale con tutta probabilità il moto resistenziale sarebbe stato represso sul nascere o comunque non avrebbe potuto sicuramente vincere, è l’aspetto organizzativo. La semplificazione strumentale borghese secondo cui la Lotta di Liberazione fu una ribellione spontanea atomizzata nella quale gli italiani presi uno ad uno si liberarono della “parentesi” fascista è evidentemente errata e volutamente fuorviante. Senza un’organizzazione ad alto livello, senza la spinta organizzativa data prima di tutti dal Partito Comunista e dalla sua consolidata attività clandestina, senza la stesura e la gestione di reti di Brigate e formazioni partigiane, di sap e di gap in tutto il nord e il centro Italia, e senza il supporto di moltissimi Garibaldini di Spagna, tutto sarebbe stato enormemente più difficile, se non per certi versi impossibile. Un moto spontaneo avrebbe portato ad un disastro inevitabile.

Un illuminante esempio della dialettica organizzativa che intercorreva tra le varie formazioni, a più livelli, è dato dall’esperienza dei GAP, che videro a Torino una delle ambientazioni centrali, con lo stesso Giovanni Pesce che viene definito dal partigiano Mario Fiorentini nel documentario come  il più grande partigiano d’Europa. Con Giovanni Pesce a Torino anche Di Nanni come sappiamo fece parte del GAP del capoluogo piemontese. Comprendere bene cosa fossero i GAP, gruppi di azione patriottica, può darci quel tassello in più per costruire una risposta sensata alla domanda che ci siamo posti in partenza e che è al centro di questa iniziativa, ovvero l’attualità di Di Nanni.

I GAP erano una formazione in cui sicuramente si entrava per uno slancio morale, per un desiderio di rivalsa nei confronti di chi ti aveva tolto progressivamente tutto. Nei GAP si era pronti a rischiare la vita da un momento all’altro, seppur spesso servisse ragionare con estrema calma. La stessa vicenda di Dante Di Nanni soggettivizza una serie di caratteri che ricorrono non solo nella Lotta di Liberazione ma direi in tutta la storia delle lotte di classe otto-novecentesche: i GAP erano l’avanguardia nelle città, erano la punta della lancia contro il nemico di classe, per sopravvivere nei GAP serviva una miscela di coscienza e di incoscienza, non farsi spaventare dal rischio o dall’errore; ma erano anche una miscela tra organizzazione centralizzata e autonomia di azione dove ciascun gappista, nelle dovute condizioni, era di necessità autonomo in quanto doveva agire nei nuclei centrali di un sistema repressivo feroce che non permetteva comunicazioni agevoli tra le città e l’organizzazione centrale.

E quando questo sistema repressivo di classe viene smantellato? Cosa accade dopo il 25 aprile 1945? In tutta tranquillità possiamo affermare che gli ideali di liberazione dallo sfruttamento, da ogni sfruttamento, ma soprattutto da quello capitalistico che aveva generato il mostro reazionario fascista in Italia, sono stati ben presto traditi e dimenticati da quelle istituzioni che pur il Partito Comunista e gli altri movimenti della Resistenza avevano contribuito in maniera decisiva a creare.

E i giovani di oggi nell’Italia repubblicana in che condizioni si trovano?

Esistono nell’Italia repubblicana molti più elementi di continuità con il Ventennio che elementi di rottura e man mano che passano i decenni la classe operaia e in generale le classi subalterne se ne rendono conto sulla propria pelle. Nel corso di questi 70 anni di repubblica, infatti, i caratteri di continuità col ventennio fascista e di oppressione di classe, non solo non si sono allentati, ma progressivamente si sono rinnovati e oggi cominciano sul serio a fare paura: da Azzariti all’Italicum, dall’amnistia al jobs act, dalla resistenza tradita alla precarietà a vita. Quelle migliaia di giovani che impegnarono la vita per un futuro diverso e migliore, oggi sono diventati milioni di giovani disoccupati e senza speranza che si ritrovano a vivere in un nuovo sistema di sfruttamento e precarietà.

Cito un brevissimo dialogo tra Di Nanni e Pesce, tratto da “Senza Tregua”:
«Quando sarà finita con i fascisti e i tedeschi, saremo veramente liberi?»
«Saremo liberi di ricominciare a lottare per una vera libertà, che si ha quando ogni uomo ha e vale per quello che è.»
«Sarà difficile ma qualche volta penso che sarà ancora più difficile quando sarà finito. Vorrei vivere per vederlo.»
«È un grande partito il nostro» dice Ivaldi.
«Sì, ed è grande perché ci sono dei giovani come te.”
«Il partito conta molto sui giovani, non è vero?» chiede Di Nanni.
«Molto» risponde Ivaldi.
«Anche per dopo?» mormora quasi tra sé Di Nanni.
«Certamente anche per dopo, quando la guerra sarà finita e ci vorrà tanta forza per rimettere tutto in piedi.»
«Sì, per oggi e per dopo.»

Io penso, cari compagni lasciatemelo dire, che l’eroismo di Dante Di Nanni stia non tanto nella modalità della morte, ma nella coerenza, portata fino alle estreme conseguenze, di una scelta di vita, una strada intrapresa senza alcuna certezza di riuscita, uno slancio morale che lascia perdere ogni tipo di indifferenza a ciò che ci circonda e che ha prodotto tramite egli e tutti gli altri partigiani una via razionale di lotta per la liberazione del Paese.

Oggi ci troviamo nella condizione in cui l’indifferenza e la cultura del disimpegno fanno sì che sia molto difficile per un giovane proletario la scelta di una vita di lotta per la giustizia sociale. Siamo in fondo in una situazione spaventosamente simile a quella in cui si trovarono quei ragazzi. Per questo sono convinto che Dante oggi sarebbe un po’ Marco, un po’ Ivan, un po’ Simon, un po’ Agnese, un po’ Luca, giovanissimi compagni di oggi, così come loro cercano giorno dopo giorno di essere un po’ come Dante.

Perchè questa in sintesi è la lezione della vicenda dei GAP a Torino e in tutta Italia: la capacità di lottare in pochi, separati, braccati dal nemico di classe, ma uniti da un’unica ambizione, uno stesso obiettivo, una sola ragione di vita: CONQUISTARE INSIEME UN MONDO MIGLIORE, UN MONDO DI UOMINI LIBERI, UN MONDO SOCIALISTA.


Dante Di Nanni e la resistenza operaia

Enzo Pellegrin, Scudo Legale Popolare, Fronte Unitario dei Lavoratori

16/05/2015

Il 17 maggio 1944, insieme ai compagni Pesce, Bravin e Valentino, Dante di Nanni portò l’attacco ad una stazione radio sul fiume Stura che disturbava le comunicazioni di Radio Londra, importante presidio logistico della Resistenza perchè garantiva messaggi, comunicazioni e notizie alle forze partigiane insurrezionali. Nell’attacco risparmiarono la vita dei nove militi comandati a presidiarla in cambio della loro promessa di non dare l’allarme. I componenti di quel Gruppo di Azione Patriottica furono tuttavia traditi e giunsero allo scontro con una pattuglia nemica: riportarono tutti ferite, Bravin  e Valentino verranno arrestati ed in seguito impiccati, il 22 luglio a Torino insieme al compagno di lotta Vian. Pesce riuscì a condurre in salvo Di Nanni, colpito in modo grave da sette proiettili al ventre, alla testa e alle gambe. Lo trasportò prima in una cascina e poi nella base di Via San Bernardino 14, nel quartiere san paolo di Torino. Un sanitario antifascista constato le gravi condizioni e consigliò l’immediato ricovero in ospedale e la necessità di intervenire. Pesce si allontana per organizzare il trasporto, ma, al suo ritorno trova la casa di via San Bernardino circondata dai fascisti e dai tedeschi, avvertiti da una spia. Qui, nonostante le ferite subite, Dante Di Nanni asserragliato nella base ingaggiò un lungo scontro a fuoco con i nazifascisti che erano supportati anche da un’autoblindo e da un carro armato. Elimina con la precisione dei suoi tiri ed il suo coraggio numerosi nemici, dal balcone lancia cariche di tritolo e mette fuori uso l’autoblindo ed il carro armato. Dopo quasi quattro ore, terminate le munizioni, pur di non cadere vivo tra le mani dei vili oppressori, Dante “il Piccolo”, stremato dalle ferite si trascina verso la ringhiera del balcone e si lancia a braccia aperte nel vuoto, al grido “viva il Partito Comunista”.

Dante di Nanni fu prima di tutto operaio: la sua appartenenza di classe fu matrice fondamentale della sintesi della sua vita e delle sue gesta, tanto che può azzardarsi che “Il Piccolo” non sarebbe mai giunto ad essere partigiano e comunista se non fosse vissuto prima come operaio.

Dice bene Gianni Alasia quando ricorda che “Di Nanni fu figlio di quella generazione formata negli scioperi antifascisti. Quegli scioperi furono il frutto di una grande intelligenza che seppe collegare la rivendicazione immediata alla rivendicazione generale: far cadere il governo fascista.”(1)

Come fu possibile?
Essi furono certo prima di tutto scioperi con delle rivendicazioni.
Prima per il salario, poi per il cibo, poi l’indennità di sfollamento.

Ma la maturazione collettiva nella lotta seppe capire che lo sciopero non poteva, non voleva, non doveva colla forza della sua pressione pretendere ed ottenere un “miglioramento” del sistema esistente.
Si divenne consci del fatto che lo sciopero doveva contribuire a togliere di mezzo il sistema esistente. Fu chiaro l’aut aut: o il fascismo cade o la barbarie non avrà fine.
Fu compreso che il fascismo era lo strumento politico perchè la classe padronale potesse continuare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, garantita dalla violenza e dall’autorità delle leggi fasciste.

Tutto sommato il fascismo nacque proprio per reprimere le rivendicazioni operaie.

Tra il 1919 e il 1920, la classe operaia esplose con scioperi, dimostrazioni ed agitazioni a livelli impressionanti nelle fabbriche italiane, contro il taglio degli stipendi e le serrate. Tra le cause di questa ondata di scioperi ci furono la crisi economica conseguente alla guerra appena terminata, ma ebbe un ruolo importante anche il sogno di fare come in Russia. Agli scioperi causati dalle difficoltà economiche e volti a ottenere migliori condizioni di lavoro e salari più alti, si aggiunsero manifestazioni di contenuto dichiaratamente politico.

La storia del Biennio Rosso iniziò a Torino il 13 settembre 1919 con la pubblicazione sulla rivista Ordine Nuovo del manifesto “Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti”, nel quale si ufficializzava l’esistenza e il ruolo dei “Consigli di fabbrica” quali nuclei di gestione autonoma delle industrie da parte degli operai.

Torino si prefigurava così come il centro propulsore del bolscevismo, in quanto la struttura dei Consigli proposta dagli ordinovisti ricalcava, seppur con peculiarità proprie, quella dei Soviet.

Le proteste iniziarono nelle fabbriche di meccanica, per poi continuare nelle ferrovie, trasporti e in altre industrie, mentre i contadini occupavano le terre.

Gli scioperanti, però, fecero molto più che un’occupazione, sperimentarono per la prima volta forme di autogestione operaia: 500.000 scioperanti lavoravano, producendo per se stessi.

Agli scioperi agrari nella Pianura Padana, allo sciopero generale dei metallurgici in Piemonte e all’occupazione delle fabbriche in molte città italiane il fascismo rispose con la violenza.

Squadre fasciste  intervennero per spezzare gli scioperi aggredendo i partecipanti, pestando deputati e simpatizzanti socialisti.

In fabbrica si conobbe quindi lo sfruttamento, avendo di fronte, sempre usando le parole di Gianni Alasia, “i padroni fascisti e i fascisti padroni” (2).

Nato da genitori operai, il Di Nanni operaio non può non aver nuotato in questo fiume ed in queste acque, che videro  – a conclusione di quel biennio rosso in cui la borghesia industriale temette la rivoluzione d’ottobre –  la successiva scelta della violenza e dell’autoritarismo che mise in piedi il regime mussoliniano.

Per la borghesia Mussolini fu prima di tutto il salvatore dei rapporti di sfruttamento che essa imponeva alla classe operaia. Per salvare questo, furono ben disposti a rinunciare ad alcune loro libertà, perchè quelle libertà, parzialmente godute od aspirate dai loro avversari sociali, impedivano la continuazione del loro dominio economico.

Il primo Governo Mussolini fu sostenuto anche da liberali e popolari. Poi vennero le leggi fascistissime che esclusero dal gioco quei liberali e quei popolari. Ma questo non avrebbe potuto continuare se i principali detentori del potere economico non avessero benedetto quel fascismo come il “normalizzatore” dei rapporti colla classe degli sfruttati.

Quei pochi uomini che non si fecero abbindolare dal falso populismo normalizzatore del fascismo formarono nelle generazioni successive la salda consapevolezza che il fascismo continuava la sua opera di normalizzazione autoritaria facendosi da un lato garante violento dello sfruttamento, e dall’altro raccontando bugie agli strati popolari, dicendo loro di aver falsamente imposto condizioni più favorevoli e di aver portato l’Italia a traguardi di progresso, sempre solo immaginari e costruiti con la propaganda.

In più tratti di questo periodo sembra di vedere fotografie dell’odierno: fondamentale è per la borghesia trovare sempre un mezzo atto ad  impedire che le rivendicazioni operaie giungano a costruire il potere diretto degli operai sui mezzi di produzione.

A questo scopo, allora, come ora, servono garanti del potere borghese nell’autorità, ma anche in finte od adeguate opposizioni. Serve un’opposizione che nasconda dietro miglioramenti i rapporti di sfruttamento  insieme al segreto che con l’assalto al loro cielo lo sfruttamento non ci sarà più.

Gli stessi fascisti si presentarono originariamente con un programma quasi socialista o di democrazia diretta, basti ricordare il testo del manifesto di San Sepolcro.

Dov’era l’inghippo? Stava nel fatto che già nel 1920 essi girarono per le campagne e le città a reprimere gli scioperi che volevano analoghe rivendicazioni.
Specchio per allodole.
Strumento dei padroni per allontanare il vero sviluppo del potere operaio

Sembra di vedere, nelle dovute proporzioni, i programmi di certe odierne opposizioni del re. Tutto fuorchè il vero socialismo. Tutto per conservare i rapporti capitalistici nascondendoli dietro un volto asseritamente umano ma sostanzialmente oppressivo.

La tragedia della guerra contribuì a sfaldare le ultime illusioni delle teste deboli.

Di Nanni operaio non solo invece ha incarnato la profondità e l’efficacia di quella che noi chiamiamo coscienza di classe, la quale  aiuta a individuare il vero nemico, ma ha rappresentato  anche l’operaio che sceglie conseguentemente i suoi strumenti di lotta, consoni ed adeguati all’obiettivo che si intende raggiungere.

Usiamo le parole di un suo compagno di lotta : “smantellare e distruggere tutto il sistema sociale che aveva generato e perpetrato questa oppressione” (4)

Nel marzo 1943 le agitazioni fanno comprendere quanta forza possano avere in quel momento le mobilitazioni di massa che incidano sui fattori essenziali della produzione. In quel momento è la produzione di guerra.

Noi sappiamo, dalle parole di Pietro Secchia, come la Resistenza abbia avuto un carattere marcato di classe (lotta nazionale e sociale al tempo stesso) perché la classe operaia ne fu la forza dirigente principale.

I lavoratori pagarono duramente la loro partecipazione attiva alla guerra di liberazione, con agitazioni, scioperi, sabotaggi.

Il Prezzo pagato da Torino fu questo: 11 patrioti impiccati, 271 fucilati, 12.000 arrestati, 6.000 deportati politici e razziali (con solo 400 superstiti), 20.000 deportati civili e militari nei campi di lavoro, 132 morti in combattimento e 611 feriti. (5)

Altre classi e partiti agivano contro la Resistenza (da dentro) con obiettivi diversi e contrastanti, mirandio a una restaurazione del capitalismo e di una democrazia conservatrice.

I gruppi dirigenti dei monopoli, i grandi industriali si dimostrarono per lo più vili profittatori, interessati a che gli operai non scioperassero e lavorassero do più per aumentare la produzione. Emblematico il caso Fiat che aveva appoggiato per tutto il ventennio il fascismo, ad esso intimamente legato, oltre che animatrice e profittatrice della sua politica.

Nel corso di tutte le guerre di aggressione i suoi profitti fecero balzi in avanti. Per questo promosse, sotto la direzione di Valletta, la partecipazione dell’Italia alla 2GM a fianco della Germania.

Tra il 1940 e il 1943 la Fiat produsse l’80 % dei mezzi militari costruiti in Italia. Raddoppia la capacità produttiva di aerei e motori per aerei rispetto al 1939.

Dal 1924 al 1944, la Fiat aumenta il suo capitale nominale da 400 milioni a 4 miliardi e il numero dei dipendenti da 57 mila (1939) a 76 mila (1942).  Il primo sciopero dopo lunghi anni di dittatura fascista fu l’11 gennaio 1943 alla Ferriere Fiat, causa mancata consegna tessere supplemento razione di pane (fino alla conclusione con lo sciopero pre-insurrezionale e l’occupazione delle fabbriche tra 24 e 26 aprile 1945 e la vittoria della Resistenza). (6)

La cronologia degli scioperi fa comprendere come sia stata  necessaria, accanto alle mobilitazioni operaie, il loro sostegno anche attraverso azioni militari. Sono le azioni dei Gappisti e delle S.A.P. che individuano obiettivi in grado di neutralizzare le persone della catena di comando, neutralizzare obiettivi logistici. (7).

Dante di Nanni, prima operaio alle officine Savigliano che produceva carpenteria metallica per us navale bellico, poi alla Microtecnica, impegnata anch’essa in produzioni belliche, capisce benissimo quale valore può avere la mobilitazione operaia per il contrasto dell’economia di guerra; capisce che una mobilitazione di tal genere non può sopravvivere da sola ma necessità di azioni militari che affianchino e potenzino gli scioperi, attaccando appunto i nodi logistici e le persone che organizzano la repressione violenta degli scioperi.

Il Piccolo vuole andare ed agire lì.

I GAP o “Gruppi di azione Patriottica” erano formati con il metodo dell’impermeabilizzazione e della dissimulazone. Solo i componenti di una stessa squadra dovevano essere a contatto fra loro, se possibile avevano vita normale dietro alla quale conducevano nascostamente la guerriglia, perchè li metteva in grado di acquisire maggiori informazini ed essere più efficaci. Incalzavano il nemico “senza tregua” con azioni di sabotaggio ed eliminazioni di nazifascisti e fascisti delatori, torturatori della catena di comando nella macchina bellica nemica. (8)

Le azioni di sabotaggio si coordinavano spesso con la forza degli scioperi, amplificandone il ruolo di incisione sulla macchina sociale e produttiva che realizzava l’economia di guerra e di oppressione.

In città vi erano poche decine di gappisti, ma le azioni venivano coordinate in modo tale da far intendere al nemico che era attaccato da diversi e numerosi gruppi partigiani di guerriglia. Proprio per questo il federale fascista Solaro telegrafò nel 1944 l’assoluta necessità di rinforzi, perchè riteneva la città assediata da oltre 5000 gappisti!.

Questo rapporto tra obiettivi da raggiungere e mezzi da impiegare ci conduce a riflessioni importanti nel mondo di oggi. Spesso l’azione degli scioperi è spezzettata ed indebolita dalla divisione interna e soprattutto dall’azione politica volta a circoscrivere la mobilitazione alle sole rivendicazioni, facendo quasi un vanto della “distanza” dai problemi politici o – come vengono sminuiti da molti –  “ideologici”. Il recupero di questa dimensione degli scioperi fu invece la carta vincente delle mobilitazioni del 1943 e 1944.

Nella situazione di oppressione attuale, certo non paragonabile al baratro bellico in cui il fascismo aveva fatto precipitare la società tutta, fatti i dovuti rapporti, il blocco politico di potere sta affannandosi  (o meglio si è affannato) a stracciare ogni scampolo di democrazia sociale per realizzare il diktat dei monopoli finanziari ed industriali di UE e NATO, per eliminare o normalizzare qualsiasi argine all’opposizione sociale ai loro interessi.

Con l’intelligenza e il rigore d’analisi e di strategia che ispirò i padri della resistenza, occorrerebbe ricondurre e “ispirare” le mobilitazioni al doppio registro che spesso fu vincente: da un lato incidere sulla sfera di produzione e sui rapporti di produzione, le quali sono le vere leve di oppressione.  Come ben notano i Clashcityworkers nell’opera “Dove sono i nostri”, non è tanto importante la grandezza della piazza che si mobilità, nè la violenza dello scontro, ma l’incidenza sulla sfera di prduzione della ricchezza. Dall’altro ricondurre la lotta all’interno di un più ambizioso obiettivo di libertà, che metta in luce quanto oppressivi siano oggi i diktat del potere e quanto compromettano il futuro di un’enorme massa di persone:  anche coloro che si ritengono oggi assolti sono e saranno coinvolti.

Questi fattori hanno sempre dato a chi si mobilita un contropotere veramente efficace, in grado di far arretrare il padrone, anche quando la mobilitazione è partita e si attua anche da parte di soggetti con obiettivi diversi, piattaforme diverse.

In questi giorni, la riuscita dello sciopero della scuola ha da un lato inciso sulla “sfera di funzionamento” di essa, bloccando gli scrutini e la somministrazione delle prove INVALSI. Dall’altro lato è riuscito a comunicare quanto la riforma aziendale renziana, ispirata ai presidi di Mussolini, comprometteva il futuro dei giovani rendendoli uomini da sfruttare e mettendo la loro istruzione nelle mani del mercato.

Proprio per tale motivo, il potere si è tosto preoccupato di attaccare un contenuto così ideologico. E se ne è preoccupato a dovere, tanto da far scendere in campo l’imbonitore a reti unificate e munito di lavagnetta e gessetti colorati.

Porta invece acqua al potere chi cerca  di sottrarre il contenuto ideologico delle mobilitazioni per tornare alle banali rivendicazioni concrete, di fatto dividendo il contropotere di azione.

Tornando alle azioni gappiste, pare adeguato concludere ricordando il ruolo importantissimo che ebbero nella strategia resistenziale. Lo documenta il testo di un volantino garibaldino diffuso pochi giorni dopo la vittoriosa liberazione del 25 aprile:

“I vostri Compagni che, da ben 19 mesi combattono nelle formazioni Partigiane, formazioni che hanno organizzate e create, infondendo in esse il loro spirito di disciplina e di sacrificio, questi Compagni salutano in voi i combattenti della città, i combattenti che con l’azione delle G.A.P. e delle S.A.P. ,coi continui scioperi hanno fatto sì che la nostra azione bellica fosse sempre più decisiva e più potente. / COMPAGNI!! / I barbari teuti sono cacciati dalle nostre terre; la schifosa tirannide fascista è schiacciata per sempre, i nostri sforzi hanno avuto la loro meritata ricompensa. Purtroppo la nostra gioia immensa per la raggiunta vittoria è velata dal ricordo dei nostri eroici caduti : / LANFRANCO , GIAMBONE , GARDONCINI,CASANA , CAPRIOLO , SFORZINI , DI NANNI , CARANDO ,e tanti altri caduti per la Santa Causa della Libertà, il nostro pensiero è a Voi rivolto ,a Voi che ci siete stati di sprono [sic] e di esempio / a Voi che foste gli artefici primi della nostra Vittoria. / COMPAGNI CADUTI ! / Il vostro sacrificio non è stato vano, e noi eredi del Vostro pensiero, giuriamo davanti ai vostri figli di essere i fedeli continuatori della Vostra opera, per far sì che essi non abbiano mai più a riprendere le armi per difendere la suprema Causa della Libertà . / VIVA L’ITALIA [sic] LIBERA E DEMOCRATICA!!!!!! / Un gruppo di Comunisti volontari / nella Divisione “LEO LANFRANCO” ()

Ripensando al monumento di intelligenza ed efficacia che fu la loro lotta e  pensando a quegli insulti che si sentono oggigiorno vociare sulla resistenza, per cui i morti “sarebbero tutti uguali”, vien da rispondere con le parole di Vittorio Foa: “certo che i morti sono tutti uguali, da morti,

E’ DA VIVI CHE SON STATI DIVERSI!”

Note:

G. ALASIA, Dante Di Nanni, 1944-2004, Note alla II edizione, opuscolo del gruppo consiliare regionale del PRC, 2004)

G. ALASIA, Op. cit.
“Il manifesto dei fasci di combattimento (1919) – Programma di San Sepolcro. La giovane vita di Dante di Nanni, narrata da un suo compagno di lotta, dall’opuscolo clandestino edito a Torino il 4 giugno 1944.

P. SECCHIA, Fiat nella resistenza.
P. SECCHIA, op. cit.
Scioperi del marzo 1943- L’8 marzo del 1943 scioperarono a Torino sette stabilimenti. Si trattava del reparto tubi delle Ferriere Piemontesi, della Fiat Ricambi, della Tubi Metallici, dei reparti meccanico, serbatoi, verniciatura e montaggio della Fiat Aeronautica ,della Zenith, della Guinzio e Rossi e della Fispa. Tra il 9 e il 10 marzo entrarono in sciopero i seguenti stabilimenti: Società Nazionale delle Officine Savigliano, Pimet, Ambra, Conceria Fiorio, Fast Rivoli e reparto laminatoi delle Ferriere Piemontesi, Frig, Cir (Concerie Italiane Riunite), Borgognan e Capamianto. L’11 marzo in tutta la città si fermarono complessivamente dieci stabilimenti, nove di questi per la prima volta: la Michelin, la Lancia, gli stabilimenti Fiat del Lingotto e di Mirafiori, l’Elettronica Mellini, lo stabilimento Riv di Torino, la Fantero, la Savigliano e i due stabilimenti Schiapparelli e Setti. Il 12 marzo si fermarono la Fiat Mirafiori, la Riv, la Fornare, la Sigla, il lanificio Bona e la Fiat Lingotto. Il 13 continuavano ad astenersi dal lavoro le maestranze della Fiat Mirafiori della Fiat Lingotto, della Riv, insieme ai lavoratori della Fiat Materfer, della Aeronautica d’Italia e dello stabilimento Magnoni e Tedeschi.Tra il 15 e il 16 oltre si fermarono la Fiat Lingotto e la Fiat Mirafiori , il Cotonificio Valle Susa, il Gruppo Finanziario Tessile, lo stabilimento Ambra, la fonderia Borselli-Piacentini, lo stabilimento lavorazioni industriali statali Sables, la Fergat, la Manifattura Paracchi ed il biscottificio Wamar, seguiti, il giorno dopo dallo stabilimento torinese della Snia Viscosa. Sciopero del 1° dicembre 1943. Il 1° dicembre 1943 si fermarono le maestranze la Fiat Aeronautica, la Grandi Motori, le Ferriere, le Acciaierie e le Fonderie ghisa, la Spa e la Fiat Materiale Ferroviario. Sciopero generale del 1° marzo 1944. Il 1° marzo del 1944,data dello sciopero generale, gli stabilimenti torinesi chiusi dalla “messa in ferie” erano i seguenti: Michelin, Tedeschi, Westinghouse, Savigliano, Snia Viscosa di Venaria, Cir, Bertone, Schiapparelli, Martiny.
La manovra della “messa in ferie” non coinvolgeva però tutti gli impianti cittadini: Mirafiori, Lingotto, Fiat Materiale Ferroviario, Grandi Motori, Viberti, Lancia, Elli Zerboni, Aeritalia, Riv, Emanuel, Zenith, Ceat, Cimat, Rasetti , Venchi Unica, Borgognan, restarono aperti, ma le maestranze interruppero il lavoro.
Anche la Fiat Acciaierie, la Dubosch, la Microtecnica, la Fiat Ricambi, la Fiat Spa e la Capamianto erano in funzione il 1° marzo, ma qui la pressione delle autorità rese difficoltoso lo svolgimento dello sciopero. Il 2 marzo 1944, nonostante l’ordine di Zerbino di riprendere il lavoro, scioperarono gli operai dei seguenti stabilimenti: Zenith, Viberti, Ceat, Rasetti, Mirafiori, Lingotto, Riv, Fiat Ricambi, Microtecnica, Grandi Motori, Fiat Materiale Ferroviario, Emanuel, Viberti, Fiat ferriere, Fiat Acciaierie, Snia Viscosa, Cotonificio Val Susa, Venchi Unica. Tra il 3 e il 6 di marzo il lavoro fu sospeso a Mirafiori, a Lingotto, alla Fiat Spa, alla Fiat Materiale Ferroviario, alla Fiat Fonderie, alla Fiat Grandi Motori, all’Aeritalia, alla Venchi Unica, alla Borgognan, alla Snia Viscosa, alla Elli Zerboni, al Cotonificio Val Susa, alla Zenith, alla Dubosch, alla Viberti, alla Riv, e alla Fiat Ferriere. Sciopero del 15 giugno 1944. Dopo Mirafiori le prime fabbriche a fermare i macchinari furono quelle dell’intero gruppo Fiat (Lingotto, 4.000 operai, Ferriere, 6.000, Fonderie ghisa, 1.800, Acciaierie, Fiat Materiale Ferroviario, Grandi Motori, 3.100), seguite nei giorni successivi dagli operai della Riv, della Rasetti, della Cimat, della Elli Zerboni, della Lancia, dell’Aeritalia, della Incet, della Ceat, dell’Arsenale Militare di borgo Dora, della Dubosch, della Viberti, della Zenith, alla Bertone, alla Manifattura Tabacchi. I dati relativi alle aziende entrate in sciopero sono reperibili in R. Luraghi, Il movimento operaio torinese durante la Resistenza, Einaudi, Torino, 1958, p.226/229. Sciopero del 21 novembre 1944- Il 21 novembre 1944 entravano in sciopero le maestranze della Fiat Lingotto e Mirafiori, seguitenei giorni successivi (28 e 29 novembre) da quelle degli altri stabilimenti cittadini: Fiat materiale Ferroviario, Fiat Spa, Fiat Ferriere, Fiat Grandi Motori, Aeritalia, Riv, Dubosch, Venchi Unica, Snia Viscosa, Capamianto, Tubi Metallici, Ambra, Fiat Accieierie, Cimat, Rasetti, Viberti, Lancia, Ceat, Nebiolo, Westinghouse. Dati reperibili in R. Luraghi, Il movimento operaio torinese durante la Resistenza, Einaudi, Torino, 1958, p.254.

A Torino a costituire i GAP fu Giovanni Pesce, detto “Ivaldi” nella clandestintà torinese, con la supervisione di Ilio Barontini, ambedue già miliziani antifascisti nella guerra di Spagna, 12ª Brigata Internazionale ‘Garibaldi’. I GAP effettuarono attentati e sabotaggi a linee ferroviarie e tranviarie, colpirono delatori, torturatori ed esponenti della RSI, di cui il più illustre fu Ather Capelli direttore della Gazzetta del Popolo, nonché militari tedeschi ed ufficiali nazisti. L’azione più importante fu la distruzione di una stazione radio che disturbava le trasmissioni di Radio Londra che trasmetteva messaggi alle forze partigiane. Ma l’operazione ebbe pesanti conseguente sul gruppo dei quattro gappisti, due feriti furono catturati, torturati ed impiccati. Dante Di Nanni[19], Medaglia d’Oro al V.M. della Resistenza, gravemente ferito, fu individuato dai nazifascisti e si difese fino all’ultima cartuccia, poi per non cadere vivo nelle mani del nemico si uccise gettandosi dal balcone di casa. Solo Giovanni Pesce, anche se ferito, riuscì a salvarsi. Il sacrificio di Di Nanni, la lunga battaglia che da solo e ferito ingaggiò contro i nazi-fascisti, ai quali inflisse gravi perdite, tra cui la distruzione di un blindato lanciando pacchi esplosivi dal suo rifugio, è una delle pagine più intense della Resistenza italiana. Altri importanti membri dei GAP di Torino furono Giuseppe Bravin, Francesco Valentino e Piero “Gagnu” Cordone, di zona San Donato. Nei primi mesi del 1944 le azioni gappiste furono talmente numerose ed efficaci che il federale fascista Solaro telegrafò allarmato a Mussolini affinché gli mandasse ingenti rinforzi dato che in città si trovavano concentrati almeno 5.000 gappisti. In realtà in città vi erano poche decine di gappisti, tra i quali i sopra citati, ma le azioni furono organizzate in modo tale da far credere al nemico di essere costantemente sotto attacco di diversi gruppi partigiani.
Centro di documentazione di storia contemporanea e della Resistenza – Luserna San Giovanni
Polliotti Carlo
Documenti originali
Documenti originali
“1ª / Divisione / Lanfranco”
“1ª / Divisione / Lanfranco”
“Comunisti torinesi” Codice documento:C09/00001/01/00/00004/000/0001
Titolo:”COMUNISTI TORINESI.”
Descrizione:Il volantino, verosimilmente di poco successivo alla liberazione di Torino, reca il saluto dei militanti del Pci attivi nella 1ª divisione Garibaldi ai compagni dei Gap e delle Sap che hanno operato in città durante la Resistenza e si conclude con l’impegno – giurato ai caduti garibaldini evocati nel testo – a difendere per sempre la libertà riconquistata.

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/an/cuanfe20-016384.htm

18 maggio 1944: “gira per la città Dante di Nanni” – controappunto blog

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