A. Ariosti: «La Fede ne’ Tradimenti» [Europa Galante – F. Biondi]

L’aleatorio concetto di fedeltà

di Paolo Patrizi

La fede ne’ tradimenti non va intesa, ovviamente, come “fiducia” nei tradimenti, ma sarebbe altrettanto impreciso interpretarla – in una sorta di terapia coniugale ante litteram – come “fedeltà” all’interno dei tradimenti medesimi. L’ambiguità semantica (e, di riflesso, drammaturgica) di questo libretto scritto nel 1689 dal senese Girolamo Gigli, storico e commediografo di rimarchevole prolificità, ipotizza semmai una doppia etica, privata e pubblica: fedeltà negli affetti, tradimenti nelle lotte per il potere e nelle alleanze dinastiche. Il tutto in una cornice che occhieggia, non solo per l’ambientazione tra Navarra e Castiglia, al teatro barocco del Siglo de Oro, sottratto però alla sua componente allegorica e privato d’intrecci collaterali. Il risultato? Un’esercitazione di stile parodistica e, in fondo, satirica: la magniloquenza del plot s’innerva su una storia a soli quattro personaggi – due fratelli e due sorelle – programmaticamente antipsicologici nella loro stilizzazione caratteriale, mentre la ridondanza antiaristotelica che nel gran teatro spagnolo si traduceva in abbagliante fantasia diventa uno spiritoso teatrino sopra le righe.

Il libretto d’opera, tuttavia, è un prodotto che assume differenti connotazioni a seconda della musica che lo riveste: e nel caso della Fede ne’ tradimenti va sottolineato come l’intonazione di Attilio Ariosti (1701) glissi sugli aspetti ironici, puntando piuttosto sulla sobrietà del linguaggio, la fluidità dell’articolazione strumentale (che contribuisce a rendere più scorrevole una drammaturgia in sé prolissa) e una moralità tutt’altro che satirica, anzi a suo modo beethoveniana: col senno di poi è facile scorgere un’anticipazione del Fidelio nell’eroina che, travestita da uomo, s’insinua nel carcere dove langue in ceppi l’amato bene. Sarebbe interessante verificare se i numerosi altri musicisti che attinsero al libretto di Gigli – spiccano i nomi di Sarro e Caldara, ma l’elenco è lungo – siano stati più sensibili al versante ironico: in attesa che si recuperino nuove “fedi” e nuovi “tradimenti”, la Settimana Musicale Senese di quest’anno ha permesso almeno di aprire una finestra su un “minore” non trascurabile come Ariosti, finora più ricordato per le sue composizioni per viola d’amore. E pazienza se la causticità di Gigli ne esce diluita: Siena ha comunque omaggiato, con questo titolo, il proprio mordace concittadino.

Denis Krief prende atto che non sul versante parodistico l’opera gioca le carte migliori, e dunque – servendo la temperanza del compositore più degli estri del librettista – firma uno spettacolo misurato nell’impaginazione e lineare nella narrazione. Moderno nei costumi ma piacevolmente antico nell’uso del fondale dipinto (lode all’artigianale sapienza del pittore Gino Bruni), geometrico ma non meccanico nel delineare i transiti degli affetti dall’uno all’altro elemento delle coppie in gioco, l’allestimento sfrutta bene l’angusto spazio a disposizione: gli strumentisti convivono con naturalezza insieme ai cantanti (il Teatro dei Rozzi è sprovvisto di fossa orchestrale) e a delineare il territorio di castigliani e navarresi basta un tavolo tondo per i primi, una pedana per i secondi. Krief, insomma, si conferma regista capace d’individuare una terza via tra spettacoli estetizzanti all’italiana e spettacoli concettuali alla tedesca: una strada che non l’ha messo al riparo da qualche scivolone nel grande repertorio ottocentesco, ma nel barocco e nel moderno gli ha consentito esiti interessanti.

Fabio Biondi, come sempre nella doppia veste di violinista e direttore, ha condotto il suo ensemble Europa Galante con la sicurezza di chi, con quell’orchestra, ha un rapporto ultraventennale. Non ha però fatto molto per arricchire di contrasti una partitura che, spesso legata alla dialettica recitativo secco / aria con accompagnamento del basso continuo, era difficile vivificare sul versante timbrico, ma poteva apparire più variegata sotto il profilo agogico. La scrittura delle voci, poi, appare forse prevedibile – a orecchie di oggi – negli affondi belcantistici già pienamente settecenteschi, e più interessante nei rimandi ai modi canori di quel diciassettesimo secolo appena concluso quando l’opera di Ariosti approdava in scena: il recitar cantando che traduce l’unico momento arrovellato di una figura tutta d’un pezzo come Garzia, antitetico a quella coloratura aggressiva con cui poco prima il personaggio dava voce alla propria ferocia, è uno sprazzo di ottima drammaturgia vocale; e anche la condotta contrappuntistica di certi duetti non è solo un rinvio a stilemi seicenteschi, ma contribuisce a esprimere l’idea di un’incompatibilità – anziché di una fusione – tra i due affetti presenti in scena. Tuttavia resta l’impressione che, sotto questo fronte, Biondi abbia assecondato le capacità dei singoli cantanti, più che stimolarle.

Capacità che, peraltro, erano assai variabili. Delle due coppie, infatti, quella di Navarra si pone svariati punti indietro rispetto a quella di Castiglia: l’emissione ingolata e l’intonazione ondivaga del basso Johannes Weisser, unica voce maschile del quartetto, attribuisce a Garzia effetti talvolta parodistici, e purtroppo si tratta d’un parodistico ben diverso da quello – di raffinata consapevolezza stilistica – serpeggiante nel libretto di Gigli; mentre Roberta Invernizzi ha assai miglior dominio del proprio strumento, abbinato tuttavia a un fraseggio che riduce ad affondi isterici gli slanci dell’eroina Anagilda, amante gelosa e guerriera in incognito. Lucia Cirillo, invece, flette la sua minuscola voce ad esiti di cangiante espressività. A dominare il palcoscenico (anche perché è sua la pagina più bella dell’opera: un’“aria di prigione” dolente e quasi trasfigurata) è però Marianne Beate Kielland, alle prese con un impavido quanto donchisciottesco personaggio en travesti. Voce ambrata, morbida, flessibile, ecco un mezzosoprano da tenere a mente. Peccato che in acuto appaia tanto voluminosa quanto fissa: ma forse è l’acustica del Teatro dei Rozzi, che tende all’enfasi e al riverbero dei suoni più alti, a sottolineare questo limite.

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