VANADIO : Primo Levi il sistema periodico

Il Sistema Periodico – il.raccolto

IL SISTEMA PERIODICO Di PRIMO LEVI P. 17 – Vanadio – Player FM

VANADIO

Una vernice è una sostanza instabile per definizion e: infatti, a un certo punto della sua carriera, da liquida deve diventare solida. Ènecessario che questo avvenga al momento e nel luogo giusto. Il caso opposto può essere sgradevole o drammatico: può avvenire che una vernice solidifichi (noi diciamo brutalmente “parta”) durante il soggiorno a magazzino, e allora la merce va buttata; o che solidifichi la resina di base durante la sintesi, in un reattore da dieci o venti tonnellate, il che può volgere al tragico; o invece, che la vernice non solidifichi affatto, neppure dopo l’applicazione, e allora ci si fa ridere dietro, perché una vernice che non “asciuga” è come un fucile che non spara o un toro che non ingravida. Al processo di solidificazione prende parte in molt i casi l’ossigeno dell’aria. Fra le varie imprese, vitali o distruttive, che l’ossigeno sa compiere, a noi verniciai interessa soprattutto la sua capacità di reagire con certe molecole piccole, quali quelle di certi oli, e di creare ponti fra loro trasformandole in un reticolo compatto e quindi solido: è così che, ad esempio, “asciuga” all’aria l’olio di lino.

Avevamo importato una partita di resina per vernici , una appunto di quelle resine che solidificano a temperatura ordinaria per semplice esposizione all’atmosfera, ed eravamo preoccupati. Controllata da sola, la resina essiccava regolarmente, ma dopo di essere stata macinata con un certo (insostituibile) tipo di nero fumo, la capacità di essiccare si attenuava fino a sparire: avevamo già accantonato diverse tonnellate di smalto nero che, a dispetto di tutte le correzioni tentate, dopo applicato rimaneva appiccicoso indefinitamente,come una lugubre carta moschicida.

In casi come questi, prima di formulare accuse bisogna andare cauti. Il fornitore era la W’, grande e rispettabile industria tedesca, uno dei tronconi in cui, dopo la guerra, gli Alleati avevano smembrato la onnipotente Ig-Farben: gente come questa, prima di riconoscersi in colpa, butta sul piatto della bilancia tutto il peso del proprio prestigio e tutta la propria capacità defatigatoria. Ma non c’era modo di evitare la controversia: le altre partite di resina si comportavano bene con quella stessa partita di nerofumo, la resina era di un tipo speciale, che solo la W’ produceva, e noi eravamo vincolati da un contratto, e dovevamo assolutamente continuare a fornire quello smalto nero, senza perdere scadenze.

Scrissi una educata lettera di protesta, esponendo i termini della questione, e pochi giorni dopo giunse la risposta: era lunga e pedante, consigliava artifici ovvi che noi avevamo già adottati senza risultato, e conteneva un’esposizione superflua e deliberatamente confusa sul meccanismo d’ossidazione della resina; ignorava la nostra fretta, e sul punto essenziale diceva soltanto che erano in corso i doverosi controlli. Non rimaneva altro da fare se non ordinare subito un’altra partita, raccomandando alla W’ di verificare con particolare cura il comportamento della resina con quel tipo di nerofumo.

Insieme con la conferma di quest’ultimo ordine, giunse una seconda lettera, lunga quasi quanto la prima, e firmata dallo stesso Doktor L’ Müller. Era un po’ più pertinente della prima, riconosceva (con molte cautele e riserve) la giustezza della nostra doglianza, e conteneva un consiglio meno ovvio dei precedenti: “ganz unerwarteterweise”, e cioè in modo del tutto inaspettato, gli gnomi del loro laboratorio avevano trovato che la partita contestata guariva se addizionata dello 0,1 per cento di naftenato di vanadio: un additivo di cui, fino a quel tempo, nel mondo delle vernici non si era mai sentito parlare. L’ignoto dottor Müller ci invitava a verificare immediatamente la loro affermazione; se l’effetto veniva confermato, la loro osservazione avrebbe potuto evitare ad entrambe le parti i fastidi e le incognite di una controversia internazionale e di una riesportazione.

Müller. C’era un Müller in una mia incarnazione precedente, ma Müller è un nome comunissimo in Germania, come Molinari in Italia, di cui è l’esatto equivalente. Perché continuare a pensarci? Eppure, rileggendo le due lettere dal periodare pesantissimo, infarcite di tecnicismi, non riuscivo a far tacere un dubbio, di quelli che non si lasciano accantonare e ti scricchiolano dentro come tarli. Ma via, i Müller in Germania saranno duecentomila, lascia andare e pensa alla vernice da correggere.

…e poi, ad un tratto, mi ritornò sott’occhio una particolarità dell’ultima lettera che mi era sfuggita: non era un errore di battuta, era ripetuto due volte, stava proprio scritto “naptenat”, non “naphthenat” come avrebbe dovuto. Ora, degli incontri fatti in quel mondo ormai remoto io conservo memorie di una precisione patologica: ebbene, anche quell’altro Müller, in un non dimenticato laboratorio pieno di gelo, di speranza e di spavento, diceva “beta-Naptylamin” anziché “beta-Naphthylamin”.

I russi erano alle porte, due o tre volte al giorno venivano gli aerei alleati a sconquassare la fabbrica di Buna: non c’era un vetro intero, mancavano l’acqua, il vapore, l’energia elettrica; ma l’ordine era di incominciare a produrre gomma Buna, e i tedeschi non discutono gli ordini. Io stavo in un laboratorio con altri due prigionieri specialisti, simili agli schiavi indottrinati che i ricchi romani importavano dalla Grecia. Lavorare era tanto impossibile quanto inutile: il nostro tempo se ne andava quasi per intero nello smontare gli apparecchi ad ogni allarme aereo e nel rimontarli ad allarme cessato.

Ma appunto, gli ordini non si discutono, ed ogni tanto qualche ispettore si faceva largo fino a noi attraverso le macerie e la neve per accertarsi che il lavoro del laboratorio procedes se secondo le prescrizioni. A volte veniva un Ss dalla faccia di pietra, altre volte un vecchio soldatino della Territoriale spaurito come un sorcio, altre ancora un borghese. Il borghese che compariva più sovente veniva chiamato Doktor Müller. Doveva essere piuttosto autorevole, perché tutti lo salutavano per primi. Era un uomo alto e corpulento, sui quarant’anni, dall’aspetto piuttosto rozzo che raffinato; con me aveva parlato soltanto tre volte, e tutte e tre con una timidezza rara in quel luogo, come se si vergognasse di qualche cosa. La prima volta, solo di questioni di lavoro (del dosamento della “naptilamina”, appunto); la seconda volta mi aveva chiesto perché avevo la barba così lunga, al che io avevo risposto che nessuno di noi aveva un rasoio, anzi neppure un fazzoletto, e che la barba ci veniva rasa d’ufficio tutti i lunedì; la terza volta mi aveva dato un biglietto, scritto nitidamente a macchina, che mi autorizzava ad essere raso anche il giovedì ed a prelevare dall’Effektenmagazin un paio di scarpe di cuoio, e mi aveva chiesto, dandomi del “lei”: “Perché ha l’aria così inquieta?” Io, che a quel tempo pensavo in tedesco, avevo concluso fra me: “Der Mann hat keine Ahnung”, costui non si rende conto.

Prima il dovere. Mi affrettai a ricercare fra i nostri comuni fornitori un campione di naftenato di vanadio, e mi accorsi che non era facile: il prodotto non era di fabbricazione normale, veniva preparato in piccoli quantitativi e solo su ordinazione; trasmisi l’ordinazione. Il ritorno di quel “pt” mi aveva precipitato in una eccitazione violenta. Ritrovarmi, da uomo a uomo, a fare i conti con uno degli “altri” era stato il mio desiderio più vivo e permanente del dopo-Lager. Era stato soddisfatto solo in parte dalle lettere dei miei lettori tedeschi: non mi accontentavano, quelle oneste e generiche di chiarazioni di pentimento e di solidarietà da parte di gente mai vista, di cui non conoscevo l’altra facciata, e che probabilmente non era implicata se non sentimentalmente. L’incontro che io aspettavo, con tanta intensità da sognarlo (in tedesco) di notte, era un incontro con uno di quelli di laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi.  Non per fare vendetta: non sono un Conte di Montecristo. Solo per ristabilire le misure, e per dire “dunque?”. Se questo Müller era il mio Müller, non era l’antagonista perfetto, perché in qualche modo, forse solo per un momento, aveva avuto pietà, o anche solo un rudimento di solidarietà professionale. Forse ancora meno: forse si era soltanto risentito per il fatto che quello strano ibrido di collega e di strumento, che pure in somma era un chimico, frequentasse un laboratorio senza l’Anstand, il decoro, che il laboratorio richiede; ma gli altri intorno a lui non avevano sentito neppure questo. Non era l’antagonista perfetto: ma, come è noto, la perfezione è delle vicende che si raccontano, non di quelle che si vivono. Mi misi in contatto col rappresentante della W’, con cui ero abbastanza in confidenza, e lo pregai di investigare con discrezione sul dottor Müller: quanti anni aveva? quale aspetto? dove era stato durante la guerra? La risposta non tardò molto: gli anni e l’aspetto coincidevano, l’uomo aveva lavorato prima a Schkopau, per impratichirsi nella tecnologia della gomma, poi alla fabbrica di Buna, presso Auschwitz. Ottenni il suo indirizzo, e gli mandai, da privato a privato, una copia della edizio ne tedesca di Se questo è un uomo, con una lettera di accompagnamento in cui gli chiedevo se era veramente lui il Müller di Auschwitz, ese ricordava “i tre uomini dellaboratorio”; bene, che scusasse la brutale intromissione e ritorno dal nulla, io ero uno dei tre, oltre ad essere il cliente preoccupato per la resina che non essiccava. Mi disposi all’attesa della risposta, mentre a livello aziendale continuava, come l’oscillazione di un enorme lentissimo pendolo, lo scambio di lettere chimico-burocratiche a proposito del vanadio italiano che non andava così bene come quello tedesco. Vogliate pertanto spedirci con cortese urgenza le specificazioni del prodotto, ed inviarcene per via aerea kg 50, il cui importo vorrete defalcareeccetera. Sul piano tecnico la questione sembrava bene avviata, ma non era chiaro il destino del lotto difettoso di resina: trattenerlo con uno sconto sul prezzo, o riesportarlo a spese della W’, o chiedere un arbitrato; intanto, come è usanza, ci minacciavamo a vicenda di adire le vie legali, “gerichtlich vorzugehen”. La risposta “privata” continuava a farsi attendere, il che era irritante e snervante quasi quanto la contesa aziendale. Che cosa sapevo del mio uomo? Niente: con ogni probabilità aveva cancellato tutto, deliberatamente o no; la mia lettera e il mio libro erano per lui un’intrusione ineducata e fastidiosa, un invito maldestro a rimestare un sedimento ormai bene assestato, un attentato all’Anstand. Non avrebbe risposto mai. Peccato: non era un tedesco perfetto, ma esistono tedeschi perfetti? o ebrei perfetti? Sono un’astrazione: il passaggio dal generale al particolare riserva sempre delle sorprese stimolanti, quando il partner privo di contorni, larvale, ti si definisce davanti, a poco a poco o ad un solo tratto, e diventa il Mitmensch, il co-uomo, con tutto il suo spessore, ticchi, anomalie ed anacoluti.

Ormai erano passati quasi due mesi: la risposta nonsarebbe più arrivata. Peccato.

Arrivò datata 2 marzo 1967, su elegante carta intestata in caratteri vagamente gotici. Era una lettera di apertura, breve e riservata. Sì, ilMüller di Buna era proprio lui. Aveva letto il mio libro, riconosciuto con emozione persone e luoghi; era lieto di sapermi sopravvissuto; mi chiedeva notizie degli altri due “uomini del laboratorio”, e fin qui non c’era nulla di strano, poiché erano nominati nel libro: ma chiedeva anche di Goldbaum, che io non avevo nomina to. Aggiungeva di aver riletto, con l’occasione, le sue annotazioni su quel periodo: me le avrebbe commentate volentieri in un auspicabile incontro personale, “utile sia a me, sia a Lei, e necessario ai fini del superamento di quel terribile passato” (“im Sinne der Bewältigung der so furchtbaren Vergangenheit”). Dichiarava infine che, fra tutti i prigionieri che aveva incontrato ad Auschwitz, ero io quello che gli aveva fatto l’impressione più forte e duratura, ma questa poteva bene essere una lusinga: dal tono della lettera, e in specie da quella frase sul “superamento”, sembrava che l’uomo aspettasse qualcosa da me. Adesso toccava a me rispondere, e mi sentivo imbarazzato. Ecco: l’impresa era riuscita, l’avversario accalappiato; era davanti a me, quasi un collega verniciaio, scriveva come me su carta intestata, e si ricordava perfino di Goldbaum. Era ancora assai sfuocato, ma era chiaro che voleva da me qualcosa come un’assoluzione, perché lui aveva un passato da superare e io no: io volevo da lui soltanto uno sconto sulla fattura di una resina difettosa. La si tuazione era interessante, ma del tutto atipica: co incideva solo in parte con quella del reprobo davanti al giudice. In primo luogo: in qual e lingua gli avrei risposto? Non in tedesco certo; avrei commesso errori ridicoli, che il mio ruolo non ammetteva. Meglio sempre combattere sul proprio campo: gli scrissi in italiano. I due del laboratorio erano morti, non sapevo dove né come; così pure Goldbaum, di freddo e fame, durante la marcia di evacuazione. Di me, l’essenziale lo conosceva dal libro, e dalla corrispondenza aziendale sul vanadio . Avevo io molte domande da porgli: troppe, e troppo pesanti per lui e per me.

Perché Auschwitz? Perché Pannwitz? Perché i bambini in gas? Ma sentivo che non era ancora il momento di superare certi limiti, e gli chiesi soltanto se accettava i giudizi, impliciti ed espliciti, del mio libro. Se riteneva che la Ig-Farben avesse assunto spontaneamente la mano d’opera schiava. Se conosceva allora gli “impianti” di Auschwitz, che ingoiavano diecimila vite al giorno a sette chilometri dagli impianti per la gomma Buna. Infine, poiché lui citava le sue “annotazioni su quel periodo”, me ne avrebbe mandata una copia? Dell’«auspicabile incontro” non parlai, perché ne avevo paura. Inutile cercare eufemismi, parlare di pudore, ribrezzo, ritegno. Paura era la parola: come non mi sentivo un Montecristo, così non mi sentivo un Orazio-Curiazio; non mi sentivo capace di rappresentare i morti di Auschwitz, e neppure mi pareva sensato ravvisare in Müller il rappresentante dei carnefici. Mi conosco: non posseggo prontezza polemica, l’avversario mi distrae, mi interessa più come uomo che come avversario, lo sto a sentire e rischio di credergli; lo sdegno e il giusto giudizio mi tornano dopo, sulle scale, quando non servono più. Mi stava bene continuare per lettera. Müller mi scrisse aziendalmente che i cinquanta chili erano stati spediti, e che la W’ confidava in una composizione amichevole eccetera. Quasi simultaneamente, mi giunse a casa la lettera che attendevo: ma non era come la attendevo. Non era una lettera modello, da paradigma: a questo punto, se questa storia fosse inventata, avrei potuto introdurre solo due tipi di lettera; una lettera umile, calda, cristiana, di tedesco redento; una ribalda, superba, glaciale, di nazista pervicace. Ora questa storia non è inventata, e la realtà è sempre più complessa dell’invenzione: meno pettinata, più ruvida, meno rotonda. È raro che giaccia in un piano. La lettera era lunga otto pagine, e conteneva una fotografia che mi fece trasalire. Il viso era quel viso: invecchiato, ed insieme nobilitato da un fotografo sapiente, lo risentivo alto sopra di me a pronunciare quelle parole di compassione distratta e momentanea, “perché ha l’aria così inquieta?” Era visibilmente opera di uno scrivente inesperto: retorica, sincera a mezzo, piena di digressioni e di elogi sperticati, commovente, pedantica ed impacciata: sfidava qualsiasi giudizio sommario e globale. Attribuiva i fatti di Auschwitz all’Uomo, senza differenziare; li deplorava, e trovava consolazione al pensiero di altri uomini citati nel mio libro, Alberto, Lorenzo,“contro cui si spuntano le armi della notte”: la frase era mia, ma ripetuta da lui mi suonava ipocrita e stonata. Raccontava la sua storia: “trascinato inizialmente dal generale entusiasmo per il regime di Hitler”, si era iscritto in una lega studentesca nazionalistica, che poco dopo era stata incorporata d’ufficio nelle Sa; aveva ottenuto di esserne congedato, e commentava che “anche questo era dunque possibile”. Alla guerra, era stato mobilitato nell’antiaerea, e soltanto allora, davanti alle rovine delle città, aveva provato “vergogna e sdegno” per la guerra. Nel maggio del ’44 aveva potuto (come me!) far valere la sua qualità di chimico, ed era stato assegnato alla fabbrica di Schkopau della Ig-Farben, di cui la fabbrica di Auschwitz era una copia ingrandita: a Schkopau aveva provveduto ad addestrare nei lavori di laboratorio un gruppo di ragazze ucraine, che infatti io avevo ritrovate ad Auschwitz, e di cui non mi spiegavo la strana famigliarità col dottor Müller. Era stato trasferito ad Auschwitz con le ragazze solo nel novembre 1944: il nome di Auschwitz, a quel tempo, non aveva alcun significato, né per lui, né per i suoi conoscenti; tuttavia, al suo arrivo, aveva avuto un breve incontro di presentazione col direttore tecnico (presumibilmentel’ingegner Faust), e questi lo aveva ammonito che “agli ebrei di Buna dovevano essere assegnati solo i lavori più umili, e la compassione non era tollerata”. Era stato assegnato alle dirette dipendenze del Doktor Pannwitz, quello che mi aveva sottoposto ad un curioso “esame di Stato” per accertarsi delle mie capacità professionali: Müller mostrava di avere una pessima opinione del suo superiore, e mi precisava che era morto nel 1946 di un tumore al cervello. Era lui Müller il responsabile dell’organizzazione del labora torio di Buna: affermava di non aver saputo nulla di quell’esame, e di essere stato lui stesso a scegliere noi tre specialisti, e me in specie; secondo questa notizia, improbabile ma non impossibile, sarei dunque stato debitore a lui della mia sopravvivenza. Con me, affermava di aver avuto un rapporto quasi di amicizia fra pari; di aver conversato con me di problemi scientifici, e di aver meditato, in questa circostanza, su quali “preziosi valori umani venissero distrutti da altri uomini per pura brutalità”. Non solo io non ricordavo alcuna conversazione del genere (e la mia memoria di quel periodo, come ho detto, è ottima), ma il solo supporle, su quello sfondo di disfacimento, di diffidenza reciproca e di stanchezza mortale, era del tutto fuori della realtà, e solo spiegabile con un molto ingenuo wishful thinking postumo; forse era una circostanza che lui raccontava a molti, e non si rendeva conto che l’unica persona al mondo che non la poteva credere eroproprio io.

Forse, in buona fede, si era costruito un passato di comodo. Non ricordava i due dettagli della barba e delle scarpe, ma ne ricordava altri equivalenti, e a mio parere plausibili. Aveva saputo della mia scarlattina, e si era preoccupato della mia sopravvivenza, specialmente quando aveva saputo che i prigionieri venivano evacuati a piedi. Il 26 gennaio 1945 era stato assegnato dalle Ss al Volkssturm, l’armata raccogliticcia di riformati, di vecchi e di bambini che avrebbe dovuto contrastare il passo ai sovietici: lo aveva fortunosamente salvato il direttore tecnico nominato sopra, autorizzandolo a fuggire nelle retrovie. Alla mia domanda sulla Ig-Farben rispondeva recisamente che sì, aveva assunto prigionieri, ma solo per proteggerli: addirittura, formulava la (pazzesca!) opinione che l’intera fabbrica di Buna-Monowitz, otto chilometri quadrati di impianti ciclopici, fosse stata costruita con l’intento di “proteggere gli ebrei e contribuire a farli sopravvivere”, e che l’ ordine di non aver compassione per loro fosse “eine Tarnung”, un mascheramento. “Nihil de Principe”, nessuna accusa alla Ig-Farben: il mio uomo era tuttora dipendente della W’, che ne era l’erede, e non si sputa nel piatto in cui si mangia. Durante il suo breve soggiorno ad Auschwitz, lui “non era mai venuto a conoscenza di alcun elemento che sembrasse inteso all’uccisione degli ebrei”. Paradossale, offensivo, ma non da escludersi: a quel tempo, presso la maggioranza silenziosa tedesca, era tecnica comune cercare di sapere quante meno cose fosse possibile, e perciò non porre domande. Anche lui, evidentemente, non aveva domandato spiegazioni a nessuno, neppure a se stesso, benché le fiamme del crematorio, nei giorni chiari,fossero visibili dalla fabbrica di Buna. Poco prima del collasso finale, era stato catturato dagli americani, e rinchiuso per qualche giorno in un campo per prigionieri di guerra che lui, con sarcasmo involontario, definiva “di attrezzatura primitiva”: come al tempo dell’incontro in laboratorio, Müller continuava dunque, nel momento in cui scriveva, a non avere “kein e Ahnung”, a non rendersi conto. Era ritornato presso la sua famiglia a fine giugno 1945. Il contenuto delle sue annotazioni, che io avevo chiesto di conoscere, era sostanzialmente questo. Percepiva nel mio libro un superamento del Giudaismo, un compimento del precetto cristiano di amare i propri nemici ed una testimonianza di fede nell’Uomo, e concludeva insistendo sulla necessità di un incontro, in Germania o in Italia, dove era pronto a raggiungermi quando e dove io lo gradissi: preferibilmente in Riviera.

Due giorni dopo, per i canali aziendali, arrivò una lettera della W’ che, certo non per caso, portava la stessa data della lunga lettera privata, oltre alla stessa firma; era una lettera conciliante, riconoscevano il loro torto, e si dichiaravano disponibili a qualsiasi proposta. Facevano capire che non tutto il male era venuto per nuocere: l’incidente aveva messo in luce la virtù del naftenato di vanadio, che d’ora in avanti sarebbe stato incorporato direttamente nella resina, a qualunque cliente fosse destinata.

Che fare? Il personaggio Müller si era “entpuppt”, era uscito dalla crisalide, era nitido, a fuoco. Né infame né eroe: filtrata via la retorica e le bugie in buona o in mala fede, rimaneva un esemplare umano tipicamente grigio, uno dei non pochi monocoli nel regno dei ciechi. Mi faceva un onore non meritato attribuendomi la virtù di amare i nemici: no, nonostante i lontani pri vilegi che mi aveva riserbati, e benché non fosse stato un nemico a rigore di termini, non mi sentivo di amarlo. Non lo amavo, e non desideravo vederlo, eppure provavo una certa misura di rispetto per lui: non è comodo essere monocoli. Non era un ignavo né un sordo né un cinico, non si era adattato, faceva i conti col passato e i conti non gli tornavano bene: cercava di farli tornare, magari barando un poco. Si poteva chiedere molto di più a un ex-Sa? Il confronto, che tante volte avevo avuto occasione di fare, con altri onesti tedeschi incontrati in spiaggia o in fabbrica, era tutto a suo favore: la sua condanna del nazismo era timida e perifrastica, ma non aveva cercato giustificazioni. Cercava un colloquio: aveva una coscienza, e si arrabattava per mantenerla quieta. Nella sua prima lettera aveva parlato di “superamento del passato”, “Bewältigung der Vergangenheit”: ho poi saputo che questo è uno stereotipo, un eufemismo della Germania d’oggi, dove è universalmente inteso come “redenzione dal nazismo” ; ma la radice “walt” che vi è contenuta compare anche in parole che dicono “dominio”, “violenza” e “stupro”, e credo che traducendo l’espressione con “distorsione del passato”, o “violenza fatta al passato”, non si andrebbe molto lontano dal suo senso profondo. Eppure era meglio questo rifugiarsi nei luoghi comuni che non la florida ottusità degli altri tedeschi: i suoi sforzi di superamento erano maldestri, un po’ ridicoli, irritanti e tristi, tuttavia decorosi. E non mi aveva fatto avere un paio di scarpe?

Alla prima domenica libera mi accinsi, pieno di perplessità, a preparare una risposta per quanto possibile sincera, equilibrata e dignitosa. Stesi la minuta: lo ringraziavo per aver mi fatto entrare nel laboratorio; mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli, ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici. Nel caso contrario, del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo. Quanto al giudizio specifico sul suo comportamento, che Müller implicitamente domandava, citavo discretamente due casi a me noti di suoi colleghi tedeschi che nei nostri confronti avevano fatto qualcosa di ben più coraggioso di quanto lui rivendicava. Ammettevo che non tu tti nascono eroi, e che un mondo in cui tutti fossero come lui, cioè onesti ed inermi, sarebbe tollerabile, ma questo è un mondo irreale. Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi. Dell’incontro in Riviera non feci parola.

Quella sera stessa Müller mi chiamò al telefono dalla Germania. La comunicazione era disturbata, e del resto ormai non mi è più facile comprendere il tedesco al telefono: la sua voce era faticosa e come rotta, il tono concitato. Mi annunciava che per Pentecoste, entro sei settimane, sarebbe venuto a Finale Ligure: potevamo incontrarci? Preso alla sprovvista, risposi di sì; lo pregai di precisare a suo tempo i particolari del suo arrivo, e misi da parte la minuta ormai superflua. Otto giorni dopo ricevetti dalla Signora Müller l’annuncio della morte inaspettata del Dottor Lothar Müller, nel suo sessantesimo anno di età..

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