Corrado Alvaro Un grande scrittore da tutti dimenticato : poesie in grigioverde – L’uomo nel labirinto

Corrado Alvaro poeta – GREDOS USal

Se non si vogliono ancora fraintendere, i versi di Poesie grigioverdi richiedono una particolare capacita di lettura, tale da sondare, nelle singóle parole e nei singoli versi, la complessa e difficile psicologia del giovane calabrese della Magna Grecia che sfida la morte in trincea e, quasi per un esorcismo, scava «in quella parte del libro della suamemoria» che registra l’odissea della sua infanzia e della sua adolescenza. E si abbandona al racconto di eventi personali, passati e presenti, vissuti e sofferti, che, per miracolo di poesia, assumono una valenza universale. Penso alla presenza, nel suo canto, di un mondo animale e végétale metafóricamente riferito a bestie ed a piante che sono si della sua terra aspromontana, ma, contemporáneamente, di ogni altro angolo del nostro pianeta, universali ed emblemi della maestà della Natura e dell’opera dell’uomo dovunque fatichi e dolori, gioisca o imprechi: buoi, pecore, cani, asini, lupi, volpi, aquile, formiche, cicale; e viti, ulivi, grano, mandorli, garofani,oleandri, ginestre. Sono i testimoni piiù persuasivi della tensione del narratore-poeta per capire l’uomo, per esplorare i meandri più reconditi dell’animo umano, per sentirsi solidale e fraterno con le sue gioie e le sue pene. II tema della guerra è naturalmente dominante nella raccolta. Occorre allora riflettere sulla qualità del ‘grottesco’ e dell’ offeso’ con cui descrive il gioco insensato di essa:

Pasquale  TUSCANO  Universidad  de Perugia  (Italia)

Canto coscritto

Quante canzoni ho fatte per piacere
E, ahimè, non le sapevo rivestire,
come volevo, di sottane bianche!
Canzoni che levavan sino all’ànche
le vesti di merletti e di parole
perché la gente corresse a vedere!

Se non correva la gente a vedere
mi bastava se voi vi volgevate,
come all’Autunno volgesi l’Estate
e quello si fa rosso di piacere,
e come le mie venti primavere
danzanvi intorno quando mi guardate.

Vestita ogni canzone ho da soldato
e le ho sciolto le scarpe di velluto;
croce di baionetta le ho donato
per la collana d’oro iriperlato,
le son caduti gli anelli dal dito
e quello della sciabola è restato.

Danzan lo stesso venti primavere
ma i lor capelli d’oro son mietuti,
il sangue lor sarà mosto d’autunno.
Come le messi pe’ campi goduti,
come le agnelle sazie di bere
riposeranno sotto i cieli muti.

«Addio mia bella» cantano i vent’anni
sottovoce, col passo de’ soldati.
Voi sorridendo appena vi affacciate
tra il gelo delle vostre invetriate.
Tutte le donne si sono voltate.
Oh mie canzoni mai tanto ascoltate!

Pastorale

Ad inseguire il lupo per le terre,
a ricondurre i bovi alla pianura,
a snidare aquilotti per le forre,
non ce n’è, come me, senza paura;
a scuotere dagli alberi le pere
e a fare una crudele potatura,
e a veder pianger sulla terra scura
tutte le viti ci vuole il mio cuore.

Se non potrò cantare sotto i cieli
perché dovrò vegliare nell’agguato,
questa canzone prima di partire
io dico ad ogni monte addormentato,
a mamme che non possono dormire,
all’armento odoroso che ho lasciato,
e prego Dio che mi faccia tornare
con un abito verde di soldato.

Ora i lupi saranno un’altra gente
cristiana e come lor dovrò scuoiarla.
Snidare gli aquilotti non è niente.
Io conosco il mio braccio che non falla.
Se la mia vita ha qualche pretendente
venga se ha tanto sangue da comprarla.
Per ogni sciabolata ne vo’ cento
e cento tutti in fila ad ogni palla.

Chi vuole? La mia vita costa cara.
Per me vivon tre figli e la mia casa.
Quante pietre ci vollero a fabbricarla,
quante tegole stanno a ripararla,
quanti sospiri vuole il focolare
a cuocer la minestra alla mia casa,
tanti uomini non bastano a pagare
questa mia vita tanto lavorata.

Dico questa canzone alla montagna
che questa notte mi vede partire,
alla nube che passa e che la bagna,
agli alberi che vogliono fiorire,
alla mia agnella chiusa che si lagna,
che, se perduta, non potrò inseguire.
Questa canzone è detta a chi la sente.
Chi non la vuole la venga a zittire.

Il contadino soldato

Andate a gridare a un soldato
baciandolo: Tu sei un eroe!
Ei non conosce un’opera perfetta
che non sia ’l solco del bove.
Ei non conosce un valore
che non sia quello di vegliar la notte
presso un suo tino d’uva che borboglia.

Andate a gridare a un soldato:
Hai fatto il tuo dovere!
Non sa di meglio che stare a vedere
se i mignoli d’ulivo sono molti
e se c’è l’olio per tutte le sere.
La sua ragione d’essere soldato
non è nell’ambizione.
N’ha quanto basta a volere un covone
che salga fino a’ cieli.

La sua ragione è nel meraviglioso.
Tutte le donne godono il riposo
dell’uscio logorato.
Egli, in vece, sa mettersi in agguato,
sa far convito in un campo falciato
dove i nemici son come le messi.
I fanciulli sorridono sommessi
e si stringon per prendere coraggio.
E le donne ne sentono tremore
per quell’immenso cuore
che, di certo, è il più forte del villaggio.

Il soldato è soldato
perché treman le donne solamente,
perché i fanciuli vogliono esser grandi
e mangiano per crescere più in fretta,
per poter raccontare
d’aver veduto la Morte
e d’averla invitata a desinare
come se fosse una promessa sposa,
d’averle fatto la corte,
d’averne avuta una rosa
che fa il petto tremando sanguinare.

Consolazione

Non lo piangete: buono era e più bello
d’un olivo, ma voi non lo piangete.
Ci sono, come lui, tanti felici
che non sanno altro ch’esser buoni e santi.
Se invecchiano son nuvole a levante
che vaporano quando nasce il sole.

E costoro non san nulla creare
perché non sanno ch’esser belli e buoni,
e stanno ad aspettare
il giorno che dovrà, forse, venire,
per far vedere che sanno morire
come soltanto san fare i leoni.
Non lo piangete; non era egli forte
ed ha scelto per suo capolavoro
la morte.

A un compagno

Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.

Non dire alla povera mamma
che io sia morto solo.
Dille che il suo figliolo
più grande, è morto con tanta
carne cristiana intorno.

Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
non vorranno sapere
se sono morto da forte.
Vorranno saper se la morte
sia scesa improvvisamente.

Di’ loro che la mia fronte
è stata bruciata là dove
mi baciavano, e che fu lieve
il colpo, che mi parve fosse
il bacio di tutte le sere.

Di’ loro che avevo goduto
tanto prima di partire,
che non c’era segreto sconosciuto
che mi restasse a scoprire;
che avevo bevuto, bevuto
tanta acqua limpida, tanta,
e che avevo mangiato con letizia,
che andavo incontro al mio fato
quasi a cogliere una primizia
per addolcire il palato.

Di’ loro che c’era gran sole
pel campo, e tanto grano
che mi pareva il mio piano;
che c’era tante cicale
che cantavano; e a mezzo giorno
pareva che noi stessimo a falciare,
con gioia, gli uomini intorno.

Di’ loro che dopo la morte
è passato un gran carro
tutto quanto per me;
che un uomo, alzando il mio forte
petto, avea detto: Non c’è
uomo più bello preso dalla morte.
Che mi seppellirono con tanta
tanta carne di madri in compagnia
sotto un bosco d’ulivi
che non intristiscono mai;
che c’è vicina una via
ove passano i vivi
cantando con allegria.

Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.

Corrado Alvaro

Un grande scrittore da tutti dimenticato

di Rudy De Cadaval

Quando morì, Corrado Alvaro era ormai un uomo stanco di esperienze. Non lo interessava più la vita, ma, come aveva scritto in un nota del suo diario, “La favola della vita”, il che non significa affatto che fosse esaurita la sua carica di testimonianza sul nostro tempo; il suo interesse per la realtà, la sua disposizione a tradurla in racconto, a trasfigurarla poeticamente, a ricavare in essa il senso di una sua verità più misteriosa e profonda di quella apparente nei suoi dati cronachistici. Chi lo avvicinò negli ultimi tempi della sua vita sapeva bene che Alvaro non soltanto progettava con grande alacrità un suo futuro di scrittore, i libri che avrebbe scritto, ma anche si proponeva di rivedere ed anche di elaborare opere ancora inedite e persino romanzi e racconti già stampati. Lo aveva fatto per Vent’anni il romanzo di guerra, sulla guerra del 1915-’18, uno dei suoi libri più importanti e anche uno dei documenti letterari più importanti su quella guerra, apparso nel 1930 con una rielaborazione, pubblicata nel 1953, a mio avviso, non troppo felice a causa di una, forse, eccessiva carica di autocritica che portò lo scrittore ad espungere come troppo “romanzeschi”; alcuni personaggi ed episodi che sono invece narrativamente tra i più validi e vitali di quel romanzo.

Alla sua morte molti erano gli inediti che lo scrittore aveva ancora nel cassetto, credo, appunto, per questa sua estrema scrupolosa autocritica, e Valentino Bompiani, amico ed editore fedelissimo, ne ha pubblicati alcuni dopo la morte di Alvaro: Belmoro del 1957, Mastrangelina (1960),Tutto èaccaduto (1961). Non so se ve ne siano altri (ma ci devono essere, così assicurò a Ferdinando Virdia, Arnaldo Fratelli cercatore per Bompiani di questi inediti, poco prima di morire.), e sarebbe triste se coloro che sono subentrati, allora, a Bompiani stesso nella gestione della sua casa editrice non ne avessero seguito l’esempio, purtroppo però da molti anni non si vedono altri libri postumi di Alvaro. Lo aveva notato in un elzeviro del ‘Corriere della Sera’ anche Carlo Bo, uno dei pochissimi che, nella ricorrenza dei vent’anni dalla scomparsa di Corrado Alvaro, si siano ricordati dello scrittore calabrese: Alvaro non è più vivo nella memoria della società letteraria italiana, questa specie di computer scordato, vorrei aggiungere, spesso snobistico o fideistico. D’altronde anche Alvaro era una sorta di stranissimo personaggio, un uomo di straordinaria cultura moderna, con una eccezionale e modernissima sensibilità europea anche politica, o meglio storica, e tale forse in senso crociano, la storia come storia della libertà e forse della sua libertà così amaramente sofferta durante gli anni della sua esistenza, con una esperienza di vita intimamente e profondamente europea, anche quest’ultima una conquista amarissima: c’era ancora sino a una trentina d’anni fa qualcuno che lo ricordava, spaurito emigrato intellettuale nell’agitata e babelica Berlino verso la fine degli anni del secolo scorso, dove si era rifugiato per sottrarsi ad assurde persecuzioni fasciste. Vi sia aggirava, mi è stato detto, come un animale braccato, sospettoso di tutto e di tutti, pur frequentando teatri e salotti intellettuali con una sua curiosità attenta e nello stesso tempo scontrosa da calabrese europeizzato. E qualche traccia di questo traspare in novelle e racconti. Ma non certo europeizzato superficialmente, anche se era restato nel profondo di se stesso l’uomo nato alle pendici dell’Aspromonte; tra l’altro era uno dei pochissimi scrittori del suo tempo che si esprimessero in più lingue, in francese, in tedesco, in russo, in inglese, e le sue traduzioni da queste lingue ancora lo attestano.

E tuttavia nel fondo gli rimanevano i complessi, i timori, le remore psicologiche che ereditava dalla società contadina, eternamente umiliata e offesa, della sua terra. Ma non vorrei insistere sulla diffusa opinione di un certa doppia cittadinanza letteraria di Alvaro, tra Calabri ed Europa: la Calabria, fonte di ispirazione dell’artista, immensa riserva di ricordi, stati d’animo, intermittences, immagini racconto, memorie ancestrali, testimonianza di una condizione umana che in lui diventava assillo morale. E l’Europa, cioè l’ambizione cosmopolitica, che, come ha scritto Carlo Salinari in una acutissima nota apparsa su ‘Rinascita’ all’indomani della morte dello scrittore, veniva ad Alvaro “dalla sua esperienza di giornalista, di cronista curioso degli usi, dei costumi, del modo di pensare di popoli a lui sconosciuti … dall’irrequietezza assai diffusa nella cultura italiana del nostro secolo, ansiosa di allargare il suo respiro provinciale… di far proprie le avventure del pensiero europeo e le esperienze decadenti dell’arte e della poesia contemporanee”.

Credo che Calabri ed Europa fossero per Alvaro le due facce della stessa medaglia, un riflesso una nell’altra anche quando Alvaro sembrava celebrare “la siepe e l’orto” (che è anche il titolo della sua prima raccolta di racconti pubblicata nel 1920 presso Vallecchi), cioè il mondo contadino della sua provincia calabrese. E’ difficile tracciare un filo di separazione tra i suoi racconti o romanzi di ispirazione calabrese, e quelli che nascevano dalla sua prativa di giornalista e di viaggiatore di un’Europa in crisi: pesino un romanzo come L’uomo è forte del 1938, suggerito in gran parte dalla situazione esistenziale di incomunicabilità e di orrore dell’uomo nella società di tipo totalitario, nell’URSS di Stalin, come nell’Italia di Mussolini, come nella Germania hitleriana, come nella Spagna di Franco o nel Portogallo di Salazar, anche se l’URSS è il vero modello che lo scrittore ebbe davanti agli occhi nel corso di un suo viaggio di inviato speciale per ‘La Stampa’, persino in un romanzo come L’uomo è forte, dicevo la Calabria traspare, a volte, tra le righe come un drammatico disperante richiamo.

Corrado Alvaro che è testimone, a volte, di una certa babelica crisi europea, è sempre l’uomo di San Luca, forse lui stesso un quasi-personaggio di un suo racconto come Gente in Aspromonte, uno dei risultati più alti della sua narrativa. No, non c’è questo taglio, questa dicotomia tra l’Alvaro “europeo” e l’Alvaro “calabrese” anche se molto probabilmente i risultati poeticamente più validi sono proprio nei suoi racconti di ispirazione che non dirò “regionale” ma che in qualche modo riflettono vita ed esperienze del mondo delle sue origini. Ma si prenda un romanzo come Vent’anni, ami avviso di fondamentale importanza non soltanto nel corpus delle opere alvariane, ma anche e soprattutto nel senso di “letteratura come storiografica”: la guerra del 1915-18 come esperienza cruciale di una generazione di giovani intellettuali del sud in un grande dramma italiano ed europeo, che prendono coscienza di una società italiana che per la prima volta è tutta in crisi e rivela nella guerra le su profonde discrasie, la povertà e l’improvvisazione di tutta la vita nazionale, lo spreco di beni e di energie, di vite umane e di intelligenze.

Una volta tanto un romanzo di guerra senza eroi ed eroismi, nel quale la guerra è solo fatica, dolore morte e che oggi dovrebbe essere ristampato nella sua attualità, riportato naturalmente alla stesura della sua prima edizione del 1930, e non al rifacimento del 1935 che lo trasformò in romanzo, come scrisse lo stesso Alvaro, in “costume”. Un romanzo, vorrei aggiungere, che fa parte di quel blocco di opere, tutte più o meno scritte o pubblicate attorno al 1930 da Gli indifferenti di Moravia, A treoperai di Bernari, da Adamo di De Michelis a Piccola Borghesia di Vittorini, che in un certo senso aprono il discorso su un nuovo realismo della narrativa italiana (da non confondere con neorealismo che è una sorta di sua escrescenza post-bellica) con una sua particolare accentuazione meridionalista.

Nel fondo della narrativa di Alvaro, è quasi con un suo riverbero storiografico e polemico, è appunto una passione civile che è meridionale e meridionalista e come tale con una sua componente e una sua prospettiva culturale, democratica, laica, profondamente “liberale”, di tipo essenzialmente europeo. Gran parte della narrativa di Alvaro nasce da questo impulso storico e culturale, il clima della pubblicistica di un Salvemini, di un Dorso, di un Fortunato, di un Amendola, di un Rossi, anche se la tensione poetica del racconto è nella radice di una ricerca dello scrittore nel fondo della vita e dello spirito popolare della sua terra, povera e amara. Narratore essenzialmente lirico, Alvaro attua in modo particolare nei suoi racconti una scomposizione della realtà, nella quale, al di là di ogni autobiografismo, quasi sempre il narratore si sovrappone al personaggio con la creazione di una realtà diversa, a volte, di una estrema complessità, al limite non direi del surreale, ma di una realtà magica e favolosa. E’ appunto questo il suo tributo all’Europa della grande stagione del Decadentismo, una cultura che lo affascinava, ma di fronte alla quale, pur avendone assimilato, senza residui, i meccanismi e lo spirito, egli rimaneva come uno spettatore attonito e dubbioso e nello stesso tempo pronto ad interpretarla attraverso il filtro dei suoi miti personali di calabrese, di meridionale “antico” e modernissimo.

Si può dire che fosse (e questo senza diminuirlo minimamente sul piano dei risultati poetici complessivi e sul piano del significato complessivi della sua opera nel quadro della nuova letteratura) un grande narratore potenziale: i suoi racconti sono dei veri e propri tracciati di romanzo che testimoniano di una straordinaria forza immaginativa, ed anche i suoi romanzi dai quali, pagina dopo pagina, ci si attendeva sempre un’esplosione della fantasia che conducesse la tensione lirica sempre intensissima a trasferirsi sul piano di un’epica narrativa: forse un romanzo come Vent’anni avrebbe potuto essere un sorta di “Guerra e pace” dell’Italia nel primo conflitto mondiale, vi pullulano infatti tutti gli elementi di un grande disegno storico e umano, e L’uomo è forte poteva essere la tragica e complessa testimonianza di un’impossibilità di sistemare i rapporti umani nel quadro di una società ideologizzata sino al delirio, e ancora Belmoro la metafora di una scienza moderna che diventa utopia.

Eppure così come sono questi romanzi (e così gli altri da L’età breve aMastrangelina, da Tuttoè accaduto aDomani) non perdono assolutamente nulla della loro modernità e della loro ricchezza di significati. Il suo lavoro, è stato quello di un narratore saggista tra i più intensi e profondi del nostro tempo, e questo intimo ricambio tra saggio e narrazione è sempre presente negli altri suoi libri, in quelli di viaggio, nei diari, di un interesse straordinario, questi ultimi, anche come testimonianza di un’epoca, della lotta quotidiana sotto la dittatura di un intellettuale antifascista del Sud italiano contro il potere per vivere e sopravvivere, dopo gli anni esaltanti della battaglia accanto a Giovanni Amendola. Diari che non nascondono le cadute e i cedimenti psicologici dell’uomo, sempre riscattati da una vigile coscienza di se stesso, una coscienza laica e liberale come poche altre.

http://www.lideale.info/doAnteprimaConfTot.php?ArticleAn=466#.WQMlTTclGUk

“L’uomo nel labirinto” di Corrado Alvaro

L’uomo nel labirinto, primo romanzo di Corrado Alvaro, è un testo di vertiginosa sperimentazione, assolutamente sorprendente nel suo essere stato scritto nel 1921 (a Parigi, pubblicato a puntate l’anno seguente sullo «Spettatore» di Corrado Pavolini e quindi, in volume, nel 1926), quando nulla di simile era ancora apparso nel panorama letterario italiano, che faticava a tenersi al passo con le istanze più avanzate della narrativa europea:

«L’uomo nel labirinto reca dunque la data del 1921, l’anno di pubblicazione di Rubé di Giuseppe Antonio Borgese, e vuol rappresentare anch’esso la crisi post bellica della borghesia che andava divenendo il punto d’incontro e di maggior ispirazione di tanta narrativa europea. […] A questo clima europeo, l’Italia poteva contrapporre il Rubé appunto del 1921 e La coscienza di Zeno nel 1923; e si dovrà attendere il 1929 per veder comparire un libro determinante come Gli indifferenti, che tuttavia la critica del tempo avrebbe ignorato. Né sorte migliore ottennero i romanzi di Borgese e Svevo».

Walter Mauro, Invito alla lettura di Alvaro

Alvaro, che combatté nella Grande Guerra, rimanendo seriamente ferito in combattimento l’11 novembre 1915, avrebbe atteso ancora quasi un decennio prima di dare alle stampe una sua compiuta riflessione sull’esperienza del fronte (Vent’anni, uscito nel 1930), affidando invece le prime impressioni su quei fatti, quasi in tempo reale, alla forma poetica (a partire dal 1914 pubblicò infatti su varie riviste un cospicuo numero di versi – talvolta un poco ingenui – dedicati alla guerra, una selezione dei quali è confluita in Poesie grigioverdi del 1917). In quel 1921, a soli 25 anni, il ragazzo venuto dall’Italia del profondo sud, emigrato giovanissimo al nord per ragioni di studio, giornalista, frequentatore dei circoli delle più vivaci città italiane ed estere, portatore dunque, oltre che di una matrice popolare arcaica, di una cultura cittadina moderna di livello europeo, si apprestava all’impresa ambiziosissima di narrare gli esiti della Grande Guerra, di raccontare l’Italia dell’immediato dopoguerra. Aveva in mano le carte (artistiche e culturali) per farlo? A tale proposito, le voci critiche più rilevanti del tempo sembrerebbero avanzare qualche riserva, rilevando l’esistenza nella sua personalità di una sorta di infausta dicotomia. Scrisse ad esempio in quegli anni Pietro Pancrazi:

«L’ansia di vivere nella babele cittadina e, a riscontro, l’idillio paesano. Questo, fin dal principio, fu il capitale di cui Alvaro disponeva. […] E il secondo motivo dà frutti migliori, mentre l’altro finisce per rimanere un lievito che non fa pane».

Non troppo diversamente, Geno Pampaloni disse che Alvaro, a differenza di Verga, non riuscì a

«colmare e a concludere quel periodo settentrionale che per Verga era stato milanese e mondano e per lui giornalistico ed europeo. [Restando dunque bloccato] fra due correnti opposte di nostalgia, per la sua terra e per la città, per l’Europa, per il mondo complicato e sfuggente che si dice moderno».

Parrebbe dunque che il nostro avrebbe dovuto limitarsi ai temi “paesani”, lasciando le questioni “cittadine” a qualche penna meno tormentata. Come sappiamo, lo scrittore decise, fin da subito, diversamente, cosicché in quel 1921 L’uomo nel labirinto, scritto quanto mai “cittadino”, vide inopinatamente la luce. Con quali esiti, cercheremo di capire.

Apriamo ora direttamente le pagine del romanzo (in questo intervento ne verrà presa in considerazione la versione del 1926 e non quella più nota – snellita, corretta ma, a parer nostro, abbastanza algida – proposta da Alvaro, instancabile ri-scrittore della propria opera, nel 1934, all’interno del volume Il mare). L’uomo nel labirinto si apre nell’immediato dopoguerra (nota 1), con alcuni fantastici scorci di una città italiana non meglio identificata:

La primavera arrivò improvvisamente. […] Quando il cielo si oscurava, tutto, le fontane, le case, gli alberi parevano partecipare alla preparazione di un avvenimento. Era l’ora delle scoperte. Piante mai vedute, muriccioli che sembravano sorti improvvisamente attorno a giardini impensati, donne che guardavano la gente come i ragazzi che saltano fuori dal nascondiglio a gabbare chi non è riuscito a scoprirli. A qualcuno pareva di voler ripigliare il filo d’un discorso interrotto, ma così vago e lontano che l’unica cosa era di mettersi a cantare. Nasceva la luna sul cielo fresco che, ora che nessuno la guardava,se non i vagabondi e i disperati, era bianco, con poche stelle scialbe e ferme.

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto

Si ha qui la sensazione di essere approdati in un universo del tutto nuovo per la nostra letteratura, dove incanto e disarmonia abitano fianco a fianco e il senso segreto delle cose pare essere divenuto ad un tempo manifesto e inafferrabile, vibrare d’inedite dimensioni inconsce. E il lirismo della prosa sembra scaturire dalla forza primigenia della realtà nella sua piena, misteriosa concretezza, come in alcuni coevi paesaggi urbani di Mario Sironi.
Poco dopo viene presentato il protagonista del romanzo. Alvaro lo introduce tramite una scena tanto semplice quanto evocativa: Sebastiano Babel, affacciato alla finestra, osserva la città e riflette. Noi, all’interno della sua scatola cranica, ne ascoltiamo i pensieri o almeno ciò che di essi ci riferisce l’autore. Ecco che si delinea un personaggio assolutamente novecentesco, impensabile prima della Grande Guerra, potentemente europeo, chiuso nel labirinto inestricabile che dà titolo alla sua storia.

Sebastiano Babel, in una di queste sere, era alla finestra. […] Aveva gli occhi color nocciola, limpidi e interrogativi come quelli dei cani. Pareva che tutte le impressioni gli si fermassero nella pupilla senza andar oltre. Neanche il suo viso voleva dir niente, lustro, roseo, senza una ruga e senza un pelo. Benché lo si riconoscesse anche dopo averlo visto una volta, era difficile dire come era fatto: ogni volta che lo si rivedeva pareva cambiato, o che avesse quel che di nuovo delle persone uscite dalle mani del barbiere.

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto

Poche righe dopo, senza soluzione di continuità, il testo s’addentra nelle regioni interiori del personaggio. Tra il dentro e il fuori non esistono più confini certi:

In certi momenti gli pareva che il mondo gli dicesse i suoi segreti, e a guardarla come sapeva lui, ogni cosa indifferente stesse sul punto di fargli una rivelazione. Le forme delle cose contenevano segreti di sviluppo all’infinito, avevano una continuazione ideale, e addirittura pareva mantenessero un aspetto illusorio che nascondesse quello reale; la verità che doveva essere meravigliosa. Certe linee gli parevano mal riuscite e tracciate dall’operaio o dall’artista per colmare un vuoto, ma non erano precisamente quelle che dovevano essere, come parole dette in luogo di altre. A badar bene, in tutte le cose c’era una falsificazione, una declamazione , una stanchezza.

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto
Ancora più oltre, mentre rimane immobile, come cristallizzato, alla finestra,  Babel ragiona intorno all’impossibilità per lui di metabolizzare il passato (trascorso, viene detto, in un altro paese, dunque, come ogni lettore non può evitare di pensare conoscendo la biografia dell’autore, in Calabria) e, dunque, di riconoscersi nel presente, in modo da potersi rapportare agli altri su un piano di realtà:

Badando a queste cose gli tornavano in mente vecchi pensieri che non era mai riuscito a fermare, e che erano i pensieri della sua giovinezza trascorsa, rimasti intatti e nani. […] Della sua giovinezza non gli rimaneva altra impressione che di aver perduto infinite occasioni e di essersi chiuso in una specie di guscio invulnerabile in attesa di qualche avvenimento che ne lo dovesse tirar fuori […]. Siccome aveva cambiato paese quando era finita la gioventù, attribuiva a questo fatto la sua scontentezza e l’impossibilità dei rinnovi e dei ritorni. […] E oggi, persino la città straripante sotto il sole gli appariva sotto una primavera illusoria, quella che scende alle pendici delle montagne spazzata di vento fresco. Perciò non gli interessava partecipare alla vita di tutti. […] Se ne stava alla finestra sentendo queste cose, e a mano a mano si sentiva come divenire scuro e con pensieri sordi.

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto
La riflessione termina, fissando il nodo centrale del romanzo, poiché l’impossibilità di comprendere la realtà e di rapportarsi agli altri, nella città in cui è emigrato, si concretizza in un pensiero specifico che tutto riassume:

Tutte queste cose egli non le pensava che oscuramente e confusamente, non come pensieri, ma come richiami e istinti; anzi era questo il fondo su cui si agitava un altro pensiero preciso che tutti gli altri riassumeva: il pensiero di sua moglie.

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto 

Abbiamo riportato gran parte di questo brano perché lo riteniamo esemplificativo delle notevoli novità stilistiche e contenutistiche di cui lo scritto è portatore. Lo scrittore, senza evitare di introdurre autobiografismi (che, qui e altrove, non gli saranno sovente perdonati dalla critica), intendeva fare tutt’altro che dell’autobiografia; trattando personaggi specifici e ben calati nella realtà contemporanea egli indagava (come avrebbe fatto sempre nelle sue opere successive) non delle singole esistenze ma “le grandi idee universali il cui tema unico è la vita”. Qui la difficoltà dell’essere umano di convivere con l’invadenza dell’industria, delle macchine, della vita di città, della politica, ecc., nel corso di un processo di modernizzazione (all’interno di una società italiana che era ancora in gran parte contadino – pastorale e dunque dei cui valori Babel è in qualche modo portatore) che la guerra aveva immensamente accelerato, si configura come crisi insanabile, evidenziandosi attraverso l’impraticabilità di un reale sentimento d’amore tra uomo e donna. Crisi affettiva e sessuale che non è tanto, e non è solo, malessere individuale ma conflitto psicologico, sociale e culturale indotto eminentemente dal progresso e dal nuovo rapporto che la vita moderna disegna tra gli esseri e le cose.Le molte pagine successive della narrazione, che contengono non piccole ingenuità “giovanili”, raccontano la confusa ricerca da parte del protagonista di una qualche soluzione alla crisi delineata nella prima sezione che si chiude non a caso con la morte di Anna, moglie del protagonista. A tale proposito, l’ultimo incontro tra Babel e la moglie morente è di brutale violenza, andando a delineare lo sfacelo finale che attiene alla loro unione:

Allora Babel entrò nella stanza. Ella si levò dal letto rigida e con gli occhi sbarrati:- Va fuori! Va fuori! Tu sei la mia rovina. Tu mi hai rubata la gioventù. Tu mi hai assassinata. Assassino! Assassino!

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto

Dopo varie esperienze fallimentari, nel tentativo di sfuggire un destino che sembra ripercorrere incessantemente strade già battute, l’approdo cui Babel faticosamente accede è quello di un ritorno alle origini: decide infatti, dopo rocamboleschi spostamenti e vicende non sempre chiarissime, di trasferirsi al paese natio. Apparente scioglimento narrativo che, venato com’è di molte ambiguità, è più la constatazione di una crisi che non la proposta di una reale soluzione (nota 2), come il lettore avvertito intuisce già nel momento in cui Babel giunge a destinazione. Ecco infatti come viene descritto il suo arrivo al paese natio:

Il treno lo raccattò con la sua valigia come un carico inerte. La monotonia del viaggio lo addormentò tra rumori e suoni indistinti. La tromba e la campanella delle stazioni gli suonavano nel cervello con canti sovrumani. Si svegliò verso mezzogiorno. I suoi orecchi, abituati alle grida e ai rumori delle stazioni avvertirono un suono nuovo e voci conosciute. […] Aprendo gli occhi vide fuori i paesi che conosceva. […] Affacciandosi vide una forma umana presso il ponte [sul fiume del suo paese ], gittata come uno straccio in terra, sorvegliata da una guardia. Per il pendio riconobbe forme umane che non potevano essere altre che quelle del suo paese. Il treno rallentò la corsa. I viaggiatori si affacciarono al finestrino. Quegli uomini portavano sulle spalle una barella costruita con due rami d’albero e intrecciata di ramoscelli coperti di fronde. Uno di essi, presso il treno, lo guardò fisso. Una donna scalza e vestita di nero s’era inginocchiata presso la forma umana che, ora si vedeva, era un contadino che giaceva inanimato, col cranio sanguinante.- È uno d’un paese vicino – disse uno dei viaggiatori – che ieri arrivò dal reggimento in congedo. Appena vide le montagne del suo paese, credendo di far presto a raggiungerle, si precipitò dal treno in corsa. Ha battuto la testa contro le sbarre del ponte ed è rimasto là secco. È un brutto ritornare.

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto

E questo “brutto ritornare” viene riverberato nel finale del romanzo, quando Babel si scontra con una realtà sminuita rispetto ai suoi ricordi. Rattrappiti sembrano i luoghi dell’infanzia:

Guardò il paese già destato, che gli parve più piccolo che mai. […] Tutto era adesso infinitamente piccolo e rattrappito, e persino le montagne imminenti erano schiacciate, nient’affatto misteriose.

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto

Tristi gli sembrano le persone, nonostante la fratellanza che sente per loro:

Nella faccia di tutti quegli uomini ritrovava i caratteri della sua razza con una insofferenza fraterna. Si aprivano davanti a lui le bocche che egli conosceva, gli sguardi che egli sapeva leggere. […] Ridevano da tutti quei ceffi, coi denti grossi e bianchi fra le labbra spalancate. E guardandoli ridere Babel si ricordava del soprannome di ognuno: «Ecco Labbrodasino, ecco il Pecora, ecco Mezzatesta». Quella gente, nel sole, sembrava un ammasso di panni sudici. Toccandolo con le grosse mani sembrava che gli macchiassero il vestito e si sentì anche lui coperto di stracci. Le donne si affacciavano alle finestre come tartarughe fuori dal guscio.

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto

Tutto ciò conduce alla scena finale del libro, che si svolge all’interno della carcassa di un antico palazzo, una volta ricca dimora piena di servi ora sterile ammasso di rovine denominate non a caso “la Stalla”. Babel siede del tutto solo in questo luogo desolato, leggendo ad alta voce una lettera indirizzata a Mary (una sorta di fidanzata che egli aveva malamente sedotto e abbandonato qualche tempo prima): scritto futile e sterile come i vecchi giardini disseccati che lo circondano.

Sedeva là, nel più profondo segreto, tirava dalla tasca un foglio e leggeva ad alta voce. Erano le sue lettere a Mary. Dopo due giorni dal suo ritorno aveva cominciato a scrivere lettere a quella donna, nella città dove supponeva fosse tornata.[…] Leggeva declamando pateticamente. Gli pareva di non intendere il significato di quello che aveva scritto e rileggeva da capo scandendo le sillabe. Le parole gli si ripresentavano alla mente scomposte, con la successione inerte delle lettere come se fossero tracciate su una lavagna di scuole elementari. Perdevano quasi ogni significato e ne avevano uno che risultava dai suoni delle sillabe assolutamente lontano da quello reale. Era come vedere i cenni di un muto che si sforzi di parlare. Altre volte lo commuovevano solo a pronunziarle, destate dal profondo dei suoi ricordi, cariche di tutte le passioni del mondo che vi si erano affidate da centinaia d’anni.

Corraro Alvaro, L’uomo nel labirinto

In questo brano magistrale che chiude il romanzo, l’autoinganno, la frantumazione dell’io e l’alienazione si mostrano scopertamente (presenti anche nel luogo del ritorno), andando inevitabilmente ad investire anche la caratteristica più saliente dello spirito umano: il linguaggio. Non possiamo esimerci dal mettere in relazione l’annullamento del senso delle parole, come viene qui delineato, con il curioso cognome del protagonista di questa vicenda, cosa che ci induce a ritenere che Alvaro attribuisca la “malattia” di Babel (quell’impossibilità di vivere che attanaglia l’uomo moderno) a un nuovo peccato d’orgoglio della razza umana, che le immani facoltà fornitegli dalla scienza e dalla tecnica hanno reso possibile: l’edificazione di una sorta di torre-obice puntata verso il cielo. Da ciò la confusione del linguaggio, l’impossibilità di una vita degna d’essere vissuta e di un reale contatto tra le persone, condizione che per l’Alvaro venticinquenne parrebbe insanabile, appartenendo antropologicamente all’uomo moderno.
Comincia il Novecento: un labirinto che non prevede vie di fuga.

Terminiamo rilevando come, in un libro che racconta, e voleva certamente raccontare, il dopoguerra, di guerra non si parli affatto: nell’intero romanzo si contano appena due apparizioni di reduci (tra cui però quella importantissima del finale). D’altronde, lo scrisse lo stesso Alvaro:

Quello che forma l’aspetto particolare di un’epoca è la creazione di nuovi stati d’animo, di modi speciali di vedere, di sentire, di vivere, inconfondibili. Ed ecco, dopo la guerra, spuntare il secolo nuovo.

C. Alvaro, “La Stampa” (3/3/1920)

Dario Malini

Note
1 La determinazione temporale è sottaciuta nella versione del 1926 de L’uomo nel labirinto, restando affidata a qualche rara apparizione di reduci qua e là nel romanzo; resa esplicita invece nell’incipit della versione del 1934: «La primavera arrivò improvvisamente; era l’anno dopo la guerra, e pareva non dovesse più tornare».
2 Siamo ben consapevoli che una lunga tradizione critica assegna un valore di redenzione al “ritorno” di Babel. Ad esempio, Maria Letizia Cassata scrive, a proposito de L’uomo nel labirinto, nel testo del 1974 Corrado Alvaro: «Solo quando entra nella regione della sua infanzia Babe assume una diversa personalità : è in piedi, nuovo, giovane, ridente, tra le cose familiari, tra profili noti. […] Nella sua terra il dolore e la solitudine, lungamente rappresi e divenuti grumi nel suo cuore, si sciolgono nella gioia e nel pianto. Ogni uomo ha un senso, un valore, un ruolo se ritorna alle sue origini, se ritrova le sue radici che lo giustificano. Il paese è per Babe l’approdo, per questo i suoi compaesani lo riconoscono».
Ma una lettura attenta del testo mostra come il “labirinto” di Alvaro non permetta una così facile via d’uscita.

http://www.artegrandeguerra.it/2013/09/luomo-nel-labirinto-di-corrado-alvaro.html



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Corrado Alvaro, “L’età breve”

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