Cesare Pavese :Poesie del disamore ed altro di Pavese

Poesie del disamore

Di Cesare Pavese

Questa raccolta solleva ancora una volta la domanda se sia lecito o meno pubblicare ciò che un autore in vita aveva deciso di espungere o non pubblicare affatto. Si sente la mancanza di un progetto unitario come poteva essere lo sfondo di “Lavorare stanca”, ma l’eterogeneità delle poesie viene attutita dalla scelta dei curatori di dare al libro un’aria di compiutezza (per es. non presentando le varianti d’autore se non in nota, e – con un poco di arbitrarietà – in numero limitato).
Confesso però che mi affascina pensare a un’edizione di “Poesie del disamore” che contenga anche solo frammenti di scritti (considerata la bellezza di quelli riportati nell’apparato critico), con un trattamento simile a quello dei poeti classici.

La prima delle quattro sezioni, “Poesie del disamore” (un altro titolo di grande impatto!), è stata giudicata dall’autore “il più organico degli scarti precedenti” (cfr. note). Gli scritti di questa sezione e della successiva indugiano su toni patetici, talvolta appena oltre la misura: mi riferisco per esempio a gesti rarefatti che arrivano a occupare un’intera poesia (“é riapparsa la donna dagli occhi socchiusi / e dal corpo raccolto, camminando per strada. / Ha guardato diritto tendendo la mano, / nell’immobile strada. Ogni cosa è riemersa” Estate), a costo di optare per un lessico ad effetto ma un po’ trito (per es. il “diafano cerchio” dove “qualcuno passa in silenzio” Poetica), o anche immagini che potevano maturare ancora, o essere scorciate (“Si sarebbe premuta al tuo corpo nell’aria / quella fresca carezza, nell’intimo sangue, / e tu avresti saputo che il tiepido istante / rispondeva nell’alba a un tremore diverso, / un tremore dal nulla” Sogno; un tremore dal nulla?) e che effettivamente in alcuni casi sono state sviluppate in altre poesie.
In Amico che dorme si legge: “La notte avrà il volto / dell’antico dolore che riemerge ogni sera / impassibile e vivo”.
Ricorda qualcosa?
Io direi “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne”. Poesia mirabile, in cui il patetico è sostenuto da grande concisione e ricerca fonica (come nel verso di chiusura, “Scenderemo nel gorgo muti”, estremamente ritmico, in cui la forma e la musica del verso si alleano con il senso: i suoni ricordano un gorgogliare subacqueo, e il finale “muti.” è realmente definitivo).

Preferisco quando Pavese presta la voce ad altri personaggi, come il vecchio de Il vino triste (“Ho sposato la più muscolosa e la più impertinente / per sapere di nuovo la vita, per non più morire / dietro un tavolo, dentro un ufficio, dinanzi ad estranei”), la donna di Estate di San Martino (“Torno a casa dei miei dove almeno potrò stare sola / senza piangere e senza pensare alla gente che vive”), il carcerato di Alter ego (“La piccola cella / non bastava all’ampiezza d’una sola sua occhiata”) o ancora l’eroe di Altri tempi (“Le ragazze con lui / eran più che contente: le lasciava per morte. / Nelle risse lasciava per morto il rivale: / le ragazze tornavano, ché godevano troppo / a morire in quel modo”). Perchè in effetti qui si misura lo scarto principale rispetto alla poetica di “Lavorare stanca”: la narrazione delle vicende dell’io poetico.

Notevoli (ma anche qui, talvolta un po’ ridondanti) le poesie della sezione “La terra e la morte”, dedicate a una donna, dai versi brevissimi e ossessionati dalla coincidenza nella donna di valori inconciliabili o addirittura opposti: terra e mare, vita e morte, luce e buio (“Sei la camera buia / cui si ripensa sempre, / come al cortile antico / dove s’apriva l’alba” Hai il viso di pietra scolpita).
Per me, qui si trovano due delle poesie più belle di Pavese, in cui c’è una voluta ambiguità tra il ricordo della guerra e l’esperienza dell’amore: Tu non sai le colline, con l’evidente richiamo ai poemi amoroso guerreschi (“Tutti quanti fuggimmo / tutti quanti gettammo / l’arma e il nome. Una donna / ci guardava fuggire”) e Sempre vieni dal mare, dove la guerra e l’amore si rivelano per dimensioni da cui non si fa più ritorno (“Noi sempre combattemmo. / Chi si risolve all’urto / ha gustato la morte / e la porta nel sangue. / Come buoni nemici / che non s’odiano più / noi abbiamo una stessa / voce, una stessa pena / e viviamo affrontati / sotto povero cielo. / Tra noi non insidie, / non inutili cose – / combatteremo sempre”).

Infine, vale la pena ricordare la presenza di due poesie in Inglese, in cui Pavese ha messo tutte le rime che ha tolto alla produzione in Italiano.

http://www.anobii.com/books/Poesie_del_disamore/01549a49b239781bc7

Pavese – Digilander – Libero

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
e il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline

Che diremo stanotte all’amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce. Guarderemo l’amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell’antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo. Il remoto silenzio
soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
che verrà d’improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio. L’inutile luce
svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti
taceranno. E le cose parleranno sommesso.

Cesare Pavese

Da “La terra e la morte”


da “La terra e la morte”

di Cesare Pavese

Pubblichiamo “Anche tu sei collina…” e “Sei la terra e la morte…”, due delle nove poesie che compongono “La terra e la morte” di Cesare Pavese, apparsa per la prima volta nella rivista «Le tre Venezie», n. 4-5-6, Padova 1947. Seguì una nuova edizione postuma in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi, Torino 1951, e successivamente in “Poesie edite e inedite”, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1962.

Anche tu sei collina
e sentiero di sassi
e gioco nei canneti,
e conosci la vigna
che di notte tace.
Tu non dici parole.
C’è una terra
che tace e non è terra tua.
C’è un silenzio che dura
sulle piante e sui colli.
Ci son acque e campagne.
Sei un chiuso silenzio
che non cede, sei labbra
e occhi bui. Sei la vigna.
E’ una terra che attende
e non dice parola.
Sono passati giorni
sotto cieli ardenti.
Tu hai giocato alle nubi.
E una terra cattiva –
la tua fronte lo sa.
Anche questo è la vigna.
Ritroverai le nubi
e il canneto, e le voci
come un’ombra di luna.
Ritroverai parole
oltre la vita breve
e notturna dei giochi,
oltre l’infanzia accesa.
Sarà dolce tacere.
Sei la terra e la vigna.
Un acceso silenzio
brucerà la campagna
come i falò la sera.

30-31 ottobre 1945

Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.

3 dicembre 1945

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