Gesualdo Bufalino : Argo il cieco – Appuntamento presso un bunker abbandonato

Argo il cieco (Gesualdo Bufalino)

Per presentare “Argo il cieco” di Gesualdo Bufalino non posso fare di meglio che riportare le parole con cui l’autore stesso, nella quarta di copertina del libro (edizione Bompiani che possiedo), descrive brevemente il suo romanzo.

Scrive Leopardi in un luogo della sua Storia del genere umano: “E Giove seguitò dicendo: avranno tutti qualche mediocre conforto da quel fantasma che chiamano Amore”.

Non diversamente il protagonista di queste pagine (lo stesso autore, forse; ma forse no, a dispetto della coincidenza onomastica), assediato dall’inverno in un albergo romano, rievoca, per medicina dei suoi eccessi d’angoscia, antiche venture di cuore nel Sud, al tempo della gioventù. Ne risulta uno sdoppiarsi dell’io parlante in due città e in due età diverse sotto due maschere alterne, in altalena perpetua tra abbandono e impostura, sfogo ingenuo e farnetico astuto. Un diario-romanzo, insomma, che via via può leggersi come ballata del tempo che fu, o come Mea culpa di un vecchio che vanamente si ostina a promuovere in leggenda, attraverso ilarotragici ingranaggi di parole, la sua povera “vita nova”.

(Gesualdo Bufalino)

Per conto mio aggiungo molto sinteticamente che “Argo il cieco” mi è piaciuto molto, così come avevo apprezzato precedentemente “Diceria dell’untore”. Non mi esprimo circa la capacità (o meno) dell’autore di rievocare la “sua” Sicilia, non ho vissuto in quei luoghi, non ho vissuto nell’immediato dopoguerra e quindi non ho strumenti per dire alcunché. Dico però che mi piace molto la scrittura di Bufalino, colta, elegante e colma di riferimenti letterari più o meno espliciti. C’è modo e modo di scrivere di “Amore”, la banalità è sempre in agguato, ma Bufalino riesce a intrecciare ricordi, speranze, illusioni con un linguaggio accattivante, divertito e divertente, ma al tempo stesso tutt’altro che superficiale. Ho detto “scrivere d’Amore” perché è innegabile che l’argomento principale del diario-romanzo, come ha scritto egli stesso, sono proprio i ricordi di avventure più o meno realizzatisi, ma c’è di più. Il tempo, la memoria, il ricordo, evidenti riferimenti a Proust, peraltro citato qua e là, e altro.

Nel consigliarvi il libro, vi riporto un breve passaggio, nel quale l’autore descrive determinate dinamiche da piccolo bar di provincia nelle quali qualcuno di voi, per propria fortuna o sfortuna, senz’altro potrà ritrovarsi.

Albert Camus scrisse: “Ammirava quello strano accecamento per cui gli uomini, che sanno così bene che cosa cambia in loro stessi, impongono ai loro amici l’immagine che si sono fatti di loro una volta per tutte. Lui, lo giudicavano per quello che era stato. Siccome un cane non cambia carattere, gli uomini sono cani per l’uomo”. Il passaggio del libro di Bufalino che trascrivo qui sotto ha evocato nella mia mente la frase di Camus.

“Una cosa, infatti, saltava all’occhio di chi venisse da fuori: la facilità con cui lì dentro ogni rispettabile Tizio e Caio per quanto stabilmente allogato nel guscio della sua identità municipale e sociale, ne veniva subito espulso per consegnarsi a una parte di pinocchio parlante e aereo pulcinella di se stesso. Bastava una singolarità appena accennata nel gestire o nel dire, uno specifico anche irrisorio del’indole, del costume, dell’abito; ed ecco quel vezzo, esaltato dalla loquace chiaroveggenza degli altri, mutarsi immediatamente in stemma, in fulminante connotato d’una mania. Non solo: ma era come se le persone, a furia di specchiarsi nelle presunzioni del prossimo, si sentissero in dovere di adeguarsi alla sembianza imposta, ilare o funebre, o di cucirsela sulla pelle al modo d’una anagrafe seconda e più veritiera. Con gli effetti di comica angoscia ch’è possibile immaginare.

In una tale luogo di maschere, entrandoci per la prima volta, a me ne era sortita una che m’aveva un poco mortificato le ali: di professorino studioso, solito ambulare a piedi con le braccia ingombre di scartafacci; forse socialista, anarchico addirittura!…ma in fin dei conti, uno spaventapasseri timido.

https://antoniodileta.wordpress.com/2012/05/09/argo-il-cieco-gesualdo-bufalino/

Argo il cieco – Gesualdo Bufalino

“Perduta per timidezza l’occasione di morire, uno scrittore infelice decide di curarsi scrivendo un libro felice.”

“Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate.”

“Che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e lenzuola di tela di lino per tutti i vicoli delle due Modiche, la Bassa e la Alta; e che angele ragazze si spenzolavano dai davanzali, tutte brune.”

“Gli amori non corrisposti, credetemi, sono i più comodi. Senza nessuno dei sapori di cenere e aceto che accompagnano gli effimeri unisoni.”

“Si sa, non c’è piacere più raro di barare in un solitario.”

“Piano piano un crocchio si formava, Alvise sapeva parlare e i giorni erano tanto pigri, a quel tempo, c’era tanta luce nell’aria, era bello stare in piedi nella luce ad ascoltare un vegliardo dalla canizie solenne che parlava di Lina Cavalieri  e della Bella Otero.”

“Parlava, Alvise, e la sua voce insaporava la luce fra le grandi pietre bionde e bianche dei palazzi e delle chiese, diventava un persuasivo responso che il secolo andato aveva lealmente tenuto in serbo per noi.”

“Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa, una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino sul far della sera. Non finirei mai di parlarne, di ritornare a specchiarmi in un così tenero miraggio di lontananze; di rivedermici quando la mattina uscivo incontro alle peripezie della vita, offerto alla vita intera, ai suoi colpi di dadi e profusioni di risa e pianti, e concerti di campane. Quante campane c’erano a Modica allora, per nozze, battesimi, compiete, angelus, ma soprattutto per funerali, quanto si moriva a Modica, si sentiva ogni mezz’ora senza che nessuno riuscisse a turbarsene, scoppiare come un tuono nell’aria l’argentino incoraggiante din don della morte.”

“Felicità, mio cielo antico; notti, mio paradiso…”

“…le terribili madri che aspettano alla finestra sentono una blanda spuma di sonno illanguidirle al perdono…”

“Estati di una volta, pergole in collina, sentieri fra i peri nani, arenili di Pietranera…”

“L’ultimo fico di ottobre si raggrinzì di dolcezza, non colto, su uno stecco di ramo irrigidito dal freddo, rimasero nei campi i fiori di cardo soltanto, in pieni, come un gramo plotone di scheletri cappuccini.”

“Così fatti erano gli amici, erano freschi di guerra e per scordarsene bambineggiavano con crudeltà. Saro Licausi, Pietro Iaccarino… Ombre, ora.”

“Erano più o meno cento le chiede di Modica e altrettanti i campanili, da San Pietro a San Giuseppe, al Gesù, cento chiese, ognuna col suo alito di devote impastato nella calce come s’attacca a una tuta l’odore d’un sudore operaio.”

“Primavera per modo di dire, qui la primavera diventa subito estate, qui non è terra di tepori. Non si fa in tempo a svezzare il sole che già ruggisce cresciuto.”

“D’altra parte, che può fare un topo in trappola? Mangiare l’esca, m’ha consigliato un signore in treno, fra Sapri e Salento, nel settembre dell’ottantuno.”

“Com’è caldo e buono, pensai, questo minuto di gioventù. Come voglio sorseggiarlo adagio. Com’è calda e buona, la vita.”

“Se pensavo poi che in Sicilia il primo indimenticabile amore d’ogni cugina è il cugino…”

“La prendeva da così lontano per scroccarmi una sigaretta, ma io rimasi turbato lo stesso, imparai la prima volta a distinguere le memorie plurali da quelle d’un solo, e come moriamo ogni giorno nella morte di chi ci ricorda, e come uccidiamo ogni giorno gli altri dimenticandoli.”

“I Circoli del Far Sud godono cattiva fama. Luoghi d’accidia e d’uggia, si dice, dove, fra rimpalli di carambole, fruscii di giornali inchiavardati nelle bacchette di legno, ragionamenti di lagnosa meteorologia proprietaria, si consumano pantaloni, si consumano anni, ammuffiscono vite in interminabili repliche…”

“Così sono i giovani, immediati e cangianti nel loro sentire.”

“Che triste, balenante destino, in Sicilia, avere tanto sangue da spendere per vene così povere e pigre, e una forza di nani per una superbia di numi…”

“Ora la scelta di don Nitto cadeva di regola su un avvocato scrignuto, grande inventore di sistemi vincenti, il quale, per essere andato a sperimentarli di persona al Casinò di Sanremo, non aveva più un soldo suo da rischiare e si contentava di partecipare platonicamente alla passione di tutti, felice del semplice maneggio di banconote e gettoni, e del lezzo di sudori mortali alitante e quasi palpabile, ssotto il gran lampadario a gocce, tutt’intorno al tavolo verde.”

“Diceva buonanima mia che chi fa l’amore s’ingrassa, chi lo vede fare si scassa.”

“Me ne liberai con una punta di strazio, m’incamminai malvolentieri verso la porta: ecco l’anno è finito, un altro pezzo di gioventù se ne va.”

“Era una villa dell’altro secolo, con le comodità d’una volta, compresa la camera dello scirocco, un padiglione dalle mura ciclopiche armato a fronteggiare le forze della canicola.”

“Sospirò. Poi aggiunse, fissando un punto dove non c’era nessuno: Bei tempi, quando per andare al casino venivo dalla campagna in bicicletta, pedalando sotto la luna. Dopo mangiavo i meloni sul ciglione della strada, facevo acqua contro il muro della casa cantoniera. Era bella, la gioventù.”

“Ora l’acqua prese a respirare adagio, come respirava adagio l’immane mare! Con quel suo sangue pastoso e scuro, attorno al nostro fuscello di legno, alla nostra setta di omuncoli indaffarati, all’arroganza del nostro pensare. Mentre lui non pensava, non pensa, solo fiotta e su e giù senza confini, secondo l’altalena delle sue voglie, scuro scosceso mare sotto il felze curvo del cielo.”

“Così passò luglio. Ogni giorno una favilla di fuoco, tutti e trentuno un roveto ardente. Lingue liquide mi guizzavano, mi salivano lungo le vene. Uscendo di casa barcollavo come un ubriaco; bruciavo, attizzato dal sole, e mi pensavo immortale.”

“Ridono i futuri defunti, le future buonanime del millenovecentonovantanove… Ignari che un’orda invisibile di neonati e neonate, chiusa per ora nei loro lombi, nelle loro pance fasciate di seta, li avrà presto respinti nel fosso; ignari che l’orda stupida del futuro galoppa invisibile dietro di loro, incalza alle reni con una lancia questo minuto di volatile, inutile felicità…”

“Chissà se possono amarsi, due parallele.”

“Avessi magari la vocazione, è un dono, dell’avvelenatore di fontane! Come mi piacerebbe convincerla a questo vizio di desiderarsi, con quanto agio la sbuccerei dalla veste, che sillabe inventerei per appassionarle la mente!”

“E tu anche, Sicilia, isola mia, ti davi il rosso alle labbra, tornavi a civettare con la vita di nuovo. Sotto il sole che non s’è mai accorto di niente, non sa d’invasioni, grandini, mafie, alleva solo imparzialmente vespe su questa cesta di fichi e mosche su quell’ucciso, sotto un ulivo sciancato.”

“Né c’è speranza che quanto accade in questo stesso istantaneo presente abbia ad avere domani più forza che qualunque accaduto di ieri: le stragi sacre della Valtellina, le spallate sull’Isonzo, il diciottesimo parallelo… Sangue, febbre e stridore di denti, ieri; oggi, titoletti in un libro…”

“Salute a Modica, dunque! E al lembo d’isola ionica che la contiene, signorile e rusticano. Ai portoni delle sue chiese, dove maree di scale s’avventano. Al tepore dei suoi cortili, ai suoi carrubi affettuosi. Ai suoi muri di sasso, lampanti come verbi di Dio. Al suo dialetto pacifico. Alle sue feste, ai suoi lutti, al suo frumento, al suo miele…”

“Mio nonno andava sull’Etna a cogliere l’erba mandragora.”

“Quando tornò il silenzio vidi Iaccarino in ginocchio, finiva sempre in ginocchi, quando aveva bevuto troppo. Né avrebbe avuto tanta umiltà, diceva, senza l’aiuto del vino.”

“Scrivere è stato per me solamente un simulacro del vivere, una pròtesi del vivere.”

https://frasiarzianti.wordpress.com/2016/08/19/argo-il-cieco-gesualdo-bufalino/

Gesualdo Bufalino – Appuntamento presso un bunker abbandonato

Io ti dico parole imparate a memoria:
le ascolti appena, frastornata dalla pioggia
che cade sul bunker di Punta Scalambra
e annunzia lungamente un altro addio.

Com’è lontano il mare, a guardarlo da qui,
da questi strombi sbreccati e inermi,
come lontana anche tu, e cangiata da ieri…
Per rivederti devo chiudere gli occhi.

Devo chiudere gli occhi per rivedere i tuoi,
invaghiti e ridenti, per risentire il fatuo
minuetto dell’aria fra i tuoi capelli,
i chiusi trambusti del cuore.

Cosí dunque ci gioca il tempo e ci convince:
basta una raffica sbieca, un giornale che voli,
stremata procellaria, sul dirotto frangente;
quel cencio d’alga che ripugna fra le dita…

poco basta per dirci che l’estate è già morta,
gioventú menzognera dell’anno,
e che di noi, di lei non rimane che un solo
cieco pugno di polvere e di pioggia.

Anch’io, come un maltempo, sopra i tuoi giorni d’oro
recato non ho che deformi
relitti e presagi di fine
e qualche lamentosa fuggitiva pietà.

Un regalo di morte che butterai domani,
questo di me ti lascio, e null’altro, perdonami:
non potevo di piú, io non so camminare
che a braccio d’un fantasma, oppure solo.

Ora lo sai, lo vedi: che servirebbe torcersi
le mani, piangere, stampare in un libro
che siamo stati felici, che un altr’anno
incontrandoci qui sorrideremo?

Lasciami allora andare solo incontro alla notte.
Tu resta a guardare la striscia di sole che torna,
l’airone sul grigio cemento lavato
che s’asciuga le vecchie penne.Gesualdo Bufalino

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