Leonardo Sciascia : Gli zii di Sicilia, L’Antimonio by Rosalia Centinaro ; Sciascia i post

Leonardo Sciascia – Gli zii di Sicilia

A cura di Renzo Montagnoli

Quattro racconti sullo sfondo della guerra
Quando Leonardo Sciascia pubblica nel 1958 Gli zii di Sicilia è già uno scrittore considerato da Italo Calvino molto promettente e che ha già dato alle stampe alcune opere interessanti come Le favole della dittatura, recensito da Pier Paolo Pasolini, La Sicilia, il suo cuore, la prima e unica raccolta di poesie, il saggio Pirandello e il pirandellismo, che gli vale il Premio Pirandello, e il romanzo Le parrocchie di Regalpetra, un’autobiografia dell’esperienza che ha vissuto come insegnante nelle scuole elementari del paese natio.
Siamo ancora lontani dai testi con cui denuncia la presenza della mafia, la sua collusione con il potere politico ed economico e infatti occorrerà arrivare al 1961 per poter leggere Il giorno della civetta, la sua opera forse più nota in assoluto.
Tuttavia, in una parentesi romana al Ministero della Pubblica Istruzione, matura in Sciascia l’idea di scrivere alcuni racconti sullo sfondo della guerra ed è così che nascono le quattro prose che costituiscono Gli zii di Sicilia, unite da questo filo conduttore, anche se molto diverse fra di loro per ambientazione, per epoca e per messaggio.
Il primo, La Zia d’America, vede protagonista lo stesso autore siciliano, in un periodo intercorrente fra lo sbarco degli americani sull’isola e il primo dopoguerra. Venato da una sottile, quanto caustica ironia, è in pratica la dissacrazione del mito americano, del paese dove nulla è precluso a tutti, generoso, prodigo di aiuti non proprio disinteressati. E’ assai probabile che la vicenda sia autobiografica e si sia svolta nei termini narrati, ma resta il fatto che già si nota quella capacità di analisi delle azioni, delle loro cause e delle loro motivazioni che poi si potrà trovare, esposta in modo più evidente e logico, nei romanzi successivi.
Il secondo, La morte di Stalin, storia di un piccolo calzolaio antifascista, in preda al culto della personalità (il suo mito è appunto Stalin), le cui certezze verranno messe a dura prova dai comportamenti del dittatore sovietico; questo fervente comunista cercherà sempre di farsi una ragione di azioni e misfatti compiuti dal suo idolo, perdendo però poco a poco fiducia in lui e anche in se stesso. Qui l’ironia si veste anche di umorismo e non è difficile ridere, anche se alla fine si passa al sorriso, un sorriso strappato e quanto mai amaro.
Il terzo racconto, Il quarantotto, si svolge in Sicilia in periodo risorgimentale, appunto fra il 1848 e il 1860.  La rivoluzione del 1848 e l’unificazione del Regno d’Italia sono visti dagli occhi di un giovane siciliano, un plebeo che sa ragionar di testa sua. In questa prosa emerge netto, incontrovertibile, il cinismo della classe dominante, di nobili e prelati decisi a contrastare con qualsiasi mezzo anche il minimo spirito liberale, ma poi pronti a cavalcare l’idea risorgimentale, affinché tutto cambi per poi tornare uguale.
E’ un racconto molto interessante, il cui significato si ritrova, come noto, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo lo stesso anno de Gli zii di Sicilia, una curiosa coincidenza, poiché è impossibile che Sciascia abbia potuto leggerlo prima di scrivere questo testo, mentre è più probabile che lui e appunto Tomasi  abbiamo recepito l’influsso  di I Viceré, di Federico De Roberto, opera ben antecedente, risalendo alla fine del XIX Secolo.
L’ultimo racconto, aggiunto nel 1960 e intitolato L’antimonio, narra la storia di un minatore, che scampato a un’esplosione di grisou (gli zolfatari siciliani lo chiamano antimonio), in preda alla miseria si arruola volontario per partecipare alla guerra civile spagnola. Lì, combattendo a fianco delle truppe franchiste, conoscerà il vero volto del fascismo, al di là della tanta retorica e delle promesse non mantenute. Crudele, solo come può essere lo scoprire una realtà che sconvolge, questo racconto fornisce l’immagine di un regime in decadenza, tuttavia inflessibile nel perseguire la sua opera di ammaliamento delle classi meno abbienti, carne da macello in miniera e da cannone in guerra.
Questo libro si legge con grande piacere, anche perché tutti e quattro i racconti riescono ad avvincere; quindi non posso che consigliarlo, anzi ne raccomando vivamente la lettura.

http://www.liberolibro.it/leonardo-sciascia-gli-zii-di-sicilia/

Risvolto

Pubblicato nel 1958 nei «Gettoni» di Vittorini, poi di nuovo nel 1961 con l’aggiunta di un importante racconto, L’antimonio, che è un po’ un romanzo interrotto, Gli zii di Sicilia è la prima apparizione di Sciascia come narratore puro, fabulatore di storie che qui sono della Sicilia e della Spagna (la guerra civile nell’Antimonio). Con voce sommessa e ferma, con una sorta di energia compressa, raccolta in sé, lo Sciascia narratore disegna il suo primo territorio. E subito si riconoscono certi suoi tratti essenziali: l’attenzione alle cose e al dettaglio, il confronto perenne fra la Sicilia e il mondo (il libro si avvia con quell’evento subito favoleggiato che fu lo sbarco degli Alleati), la lucidità nel cogliere i paradossi, gli inganni e le beffe della storia (nella Morte di Stalin come anche nell’Antimonio). Mentre, dalla bocca di uno dei suoi personaggi, ascoltiamo una confessione che, letta oggi, potrebbe valere da epigrafe per tutta l’opera di Sciascia: «E mi sentivo come un acrobata che si libra sul filo, guarda il mondo in una gioia di volo e poi lo rovescia, si rovescia, e vede sotto di sé la morte, un filo lo sospende su un vortice di teste umane e luci, il tamburo che rulla morte. Insomma, mi era venuto il furore di vedere ogni cosa dal di dentro, come se ogni persona ogni cosa ogni fatto fosse come un libro che uno apre e legge: anche il libro è una cosa, lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, magari per tener su un tavolino zoppo lo si può usare o per sbatterlo in testa a qualcuno: ma se lo apri e leggi diventa un mondo; e perché ogni cosa non si dovrebbe aprire e leggere ed essere un mondo?».

https://www.adelphi.it/libro/9788845909023

L’Antimonio di Leonardo Sciascia. Recensione di Rosalia Centinaro

Riceviamo e pubblichiamo la recensione della prof. Rosalia Savatteri Centinaro

“ L’antimonio” di Leonardo Sciascia

Il racconto inizialmente era stato concepito come un romanzo, e il primo capitolo era stato pubblicato nella rivista “Tempo presente”(sett.-ott.1958), mentre una seconda parte l’anno seguente nella rivista  “La fiera letteraria”. Nel post-scriptum di quest’ultima parte lo scrittore manifestava, già , l’intenzione di rinunziare alla stesura completa del romanzo perché ammetteva che non avrebbe dovuto  scriverlo in prima persona. Una decisione forse maturata alla luce di quanto Calvino gli aveva fatto notare in una sua lettera,e cioè che era impossibile narrare realisticamente fatti storici a cui lo scrittore non aveva partecipato personalmente. Sciascia, quindi, rinuncia all’idea di farne un romanzo, ma non a quella di farne un racconto, perché troppo forti erano state le emozioni e la passione che lo avevano spinto a scriverlo, quelle provate per la guerra civile di Spagna e quelle suscitate dall’esperienza del mondo della zolfara. Il racconto viene pubblicato nella seconda edizione de” Gli zii di Sicilia” nel 1960.

Già ne”Le parrocchie di Regalpetra” leggiamo come lo scrittore avesse la Spagna nel cuore, per un amore sorto  nell’immediatezza della guerra civile, quando aveva sedici anni, e coltivato nel tempo. In un articolo del 1981 aggiunge che ” Su questa resistenza, tre anni di sangue e lacrime per il popolo spagnolo,abbiamo incontrato idee e poesia, ci siamo fatti un’idea della poesia e abbiamo dato poesia alle idee.” Vi voglio sottolineare sin d’ora questo “ aver dato poesia alle idee”,perché il racconto, dal punto di vista poetico ed estetico, è una delle opere più importanti dello scrittore. (Gli articoli a cui faccio riferimento sono quelli che vanno dal 1981 al 1984, apparsi su giornali e periodici, come “Il Corriere della sera”, “Il  giornale di Sicilia”,”Epoca”, raccolti in un testo: “Ore di Spagna,” con il consenso dell’autore, dal prof. Natale Tedesco per l’edizione  Bompiani,). In un altro articolo del 1983 Sciascia scrive che, per rendersi conto da quale parte stesse la ragione, “una ragione che partecipasse dell’assoluta ragione”, lesse tutto quello che gli riuscì di trovare sulla storia, sulla letteratura spagnola e sulla guerra civile e aggiunge : “ogni sera  incontravo uno che era stato volontario fascista in Spagna, dove aveva combattuto per più di un anno ed era ritornato antifascista e dai suoi racconti di ogni sera m’avvenne,qualche anno dopo, di fare un racconto: di getto tutto nitidamente accampato nella memoria del momento in cui,  rileggendo Dante, al verso”De l’onor di  Sicilia e d’Aragona”( Purg. C. III V. 116), mi fermai a ripeterlo a voce alta: e fu il primo titolo del racconto, mutato poi  in “L’antimonio”. 

Sciascia, pertanto, ha mostrato interesse, prima ancora che per la letteratura francese, per la letteratura spagnola: Cervantes, Lorca e i poeti della generazione del ‘27,( di Pedro Salinas traduce “ Morte di un  sogno”, di Lorca”Lamento per Ignazio Sanchez”,dell’amico Jorge Guillen”Lampedusa”  ), Unamuno, Ortega y Gasset, Americo Castro, Borges sono gli scrittori che lo intrigano di più. Ha provato interesse, per altri eventi storici che hanno visto il destino della Sicilia legato a quello della Spagna, come la Santa Inquisizione con le sue ramificazioni, i secoli di dominazione spagnola in Sicilia , vissuti con tanta reciproca estraneità ,”un tempo forse qualcosa di peggio: insofferenza e odio”.Ma nessuno lo ha coinvolto come la guerra civile. Di questa guerra, poi, due figure di intellettuali hanno suscitato la sua  ammirazione , quella di Manuel Azana, l’ultimo presidente della Repubblica spagnola, l’intellettuale politico che visse il dramma della guerra civile in tutta la sua intensità, che non si è vergognato dei suoi giustificati dubbi, delle sue angosce di fronte ai massacri della guerra e di fronte alle sue responsabilità di uomo politico. Di lui Sciascia traduce “La velada en Benicarlò”. L’altro è Miguel de Unamuno, lo scrittore in cui si riconosce tutta la Spagna,e che, di fronte ai massacri della guerra, aveva pronunciato le parole rimaste indimenticabili :“Me duele Espanà”. Di lui Sciascia coglie il  sentimento tragico della vita,  la sua sete di immortalità, di religiosità , ma lo avvince soprattutto la sua coerenza intransigente di fronte all’atteggiamento nichilista dei franchisti vincitori e di fronte a quel generale falangista , Millan Astray, che aveva oltraggiato baschi e catalani, nel paraninfo dell’Università di Salamanca, e aveva coniato il paradosso più ripugnante:”Viva la muerte!”. A costoro Unamuno aveva opposto il valore dell’intelligenza, della ragione e del diritto. I due, Azana e Unamuno, pur diversi per orientamento politico , per una diversa visione  della vita,  mistica in Unamuno, laica in Azana, difronte alla guerra civile provarono la stessa  angoscia, lo stesso orrore, la stessa indignazione.

Nell’epigrafe in esergo leggiamo alcuni versi non consecutivi del poema “Conquistador”dello scrittore americano A. Mac Leisch., che si riferiscono alle guerre di conquista del Nuovo Mondo condotte da coraggiosi quanto spregiudicati condottieri spagnoli,come Hernan Cortès, all’inizio del 1500. Il primo verso accenna alla situazione politica della Spagna, nel momento in cui ne diviene re Carlo V, che aveva affidato la reggenza in Spagna al Cardinale fiammingo Adriano d’Utrecht, vecchio e quasi morente e in Sicilia ad un vicerè, perciò la Sicilia andava in malora, “ne aveva fin sopra i capelli”.Nel secondo verso si fa cenno alla necessità di conquistare nuove terre per risolvere i numerosi problemi che il nuovo assetto comportava, nel terzo si accenna alla decisione già presa di mettersi a navigare e alla partenza alla prima marea.

Se vogliamo cogliere una relazione tra questi versi e il contenuto del racconto, possiamo congetturare che Sciascia sia stato attratto, ad una prima lettura, dal riferimento alla Sicilia che “ne aveva fin sopra i capelli”, un riferimento che ben si adattava alla Sicilia che andava in malora anche sotto la dittatura fascista,perciò bisognava trovare nuovi sbocchi ”nuove terre da conquistare” per una popolazione misera e affamata, uno di questi fu l’arruolamento volontario di tanti poveri braccianti e minatori, come lo zolfataro del racconto, che partirono per la Spagna:”ci siamo messi a navigare”. Certamente queste sono solo congetture!! Voglio solo far notare  ai giovani  in che modo Sciascia , nell’assimilare e assemblare la sua vasta cultura, sapesse cogliere relazioni e corrispondenze tra mondi apparentemente lontani e diversi, ma sostanzialmente uguali nel momento in cui ci si riferiva alla storia del divenire dell’uomo ”.Di Mac Leish lo  avrà attratto forse anche la sua scrittura ironica,una ironia che è caratteristica della scrittura di Sciascia,e che non gli derivava dalla cultura illuministica, bensì dalla sua sicilianità, cresciuto com’era” tra gente di micidiale ironia”, come dice a Davide Laiolo nella “Conversazione”(1981).Per mera curiosità e per avvalorare ancora  la tesi di come la cultura non abbia confini, ricordo che Mac Leisch ha dedicato il suo poema “Conquistador” a Dante , di cui riporta il verso dell’Inferno , quello in cui Ulisse, nel momento di varcare le colonne d’Ercole, dice ai suoi: “frati, O dissi,che per cento milia perigli siete giunti all’occidente, (c.XXVI, vv.112-113)

Nel risvolto della prima pagina troviamo anche,  sempre in esergo, il  chiarimento che lo scrittore fa del termine “ antimonio”, che ci riconduce alla Sicilia, al mondo della miniera,dove talora scoppia il grisoù  che i minatori chiamano appunto “antimonio”. E perciò apprendiamo che il termine “antimonio “ proviene da “antimonaco”, secondo una leggenda conosciuta dai minatori, in cui si diceva che il grisoù  fosse lavorato dai monaci i quali nel maneggiarlo incautamente lo facevano scoppiare e ne morivano.

Siamo pertanto all’altro polo di emozioni, di passione che spinsero Sciascia alla composizione del racconto : il mondo della miniera, della  zolfara . Sciascia conosceva bene questo mondo  non solo perché  a Racalmuto ci sono miniere di zolfo e di sale,queste ultime ancora attive, ma perché nella miniera avevano lavorato suo nonno paterno, suo padre, come amministratori , e suo fratello come perito minerario, operando pertanto all’esterno di “quelle trappole per topi”. Da loro e dai suoi compaesani aveva sentito raccontare terribili storie di morti per crolli, allagamenti, esplosioni. Claude Ambroise giustamente riconosce che la storia dello scrittore Sciascia ha le sue radici nella miniera.E lo scrittore stesso ammette che” Senza l’avventura dello zolfo, non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere, del raccontare per Pirandello, Alessio di Giovanni, Rosso di San Secondo, Nino Savarese, Francesco Lanza. E noi.”Certamente a questi scrittori, come a Sciascia, nel momento in cui la zolfara dava loro occasione di scrittura,  offriva anche una possibilità di riscatto, di fuga,  come di un’avventura in un mondo nuovo e ancora inesplorato, quale era quello della letteratura. Sciascia ha  riconosciuto, inoltre, l’influenza  che la zolfara aveva esercitato nella presa di coscienza dell’uomo siciliano. Al mondo chiuso, immobile ed abbrutito, quale era quello dei contadini legati alla terra, alla roba, al risparmio, lo zolfataro, che rischiava la vita ogni giorno nelle viscere della terra, opponeva una diversa visione della vita, quella fatta, di ubriacature, di mangiar bene, insomma un viver la vita “ nella sua mobilità e divenire”, un viver la vita come avventura.

E questa visione ha il minatore “oscuro” del suo racconto che sceglie l’avventura della guerra in Spagna, dopo che è scampato per miracolo alla morte in miniera. Dice, infatti, “La miniera mi faceva paura, al confronto la guerra in Spagna mi pareva una scampagnata.” Certo il giovane non poteva immaginare che cosa fosse una guerra civile, una guerra che accetta senza capire,e dove trova  l’atrocità della violenza gratuita,”Quando c’era gente che si arrendeva , mi sentivo la terzana, lame di freddo per il filo della schiena sentivo, un groppo di dolore alla bocca dello stomaco”. Le sue esperienze in guerra, accompagnate da riflessioni e considerazioni di carattere esistenziale, lo immettono in una temperie meditativa e critica che lo avvia alla maturità umana. Pensa,infatti, che “tutte le guerre si facciano così con uomini che sono soltanto uomini, senza bandiere, che per gli uomini che le combattono non ci siano nelle guerre Italia o Spagna o Russia, e nemmeno il fascismo, il comunismo e la chiesa ci siano: solo la dignità di ciascuno a giocar bene la propria vita, ad accettare il giuoco della morte.”  Anche il rapporto con Ventura, l’anarchico-mafioso arruolatosi tra i fascisti e venuto in Spagna per passare tra gli americani e raggiungere così la sua famiglia in America, sarà importante in questo suo processo di iniziazione umana, la sua vicinanza gli farà capire quali ragioni d’onore, in quella guerra assurda, si confacevano alla dignità di un uomo: ”l’impegno d’onore verso se stesso a non aver paura a non lasciare il proprio posto.”, e che esiste un senso dell’onore e della dignità umana in un modo assoluto, per cui  disporre  del destino altrui a proprio piacere, puntare un’arma contro un bambino disarmato è un gesto che ti annulla come uomo. Egli allora  ne trae la conclusione che“quando un uomo ha capito di essere immagine di dignità, potete anche ridurlo come un ceppo, straziato da ogni parte: e sarà sempre la più grande cosa di Dio”.

E anche il rapporto con il padre socialista morto nella miniera, ripensato nel frangente della guerra, lo porterà a riflettere sui concetti di uguaglianza e giustizia e capirà come sia impossibile realizzare l’uguaglianza fra gli uomini, possibile solo davanti a Dio o davanti alla morte, mentre gli uomini, purchè lo vogliano, possono realizzare la giustizia. La parabola della sua emancipazione raggiungerà l’apice  quando egli scoprirà di essere venuto a combattere contro la speranza di gente della sua stessa classe, tanti poveri disperati come lui, e quando farà un bilancio della sua vita e allora capirà di non avere amato la moglie e di non amarla.

La sua partecipazione alla guerra si conclude bruscamente , quando, colpito ad una mano, viene spedito prima in un ospedale di Valladolid e poi in Italia, dove gli viene offerto un posto di bidello in una sede che egli sceglie  lontana dal suo paese, fuori dalla Sicilia.

Il giovane minatore, benché pervaso da un senso di straziante angoscia e di impotenza,(al posto di una mano ha un moncherino sempre freddo come il muso di un cane), ha acquistato una nuova saggezza umana ed esistenziale che gli fa dire  che era andato in Spagna che sapeva appena leggere e scrivere ed era tornato che gli pareva di poter leggere “ le cose più ardue che un uomo può pensare e scrivere.”

Dalla guerra di Spagna gli pare di avere avuto davvero un battesimo: un segno di liberazione nel cuore; di conoscenza; di giustizia”.” Un affinamento intuitivo, che al minatore- scrittore fa capire come questa guerra sia stata :”La chiave di volta di quel che minaccia il mondo.” Ecco perchè questo racconto è una delle opere più importanti di Sciascia, perché “qui il rapporto Sicilia-Spagna ha una conferma storica di validità umana ed estetica.”come afferma il prof. Natale Tedesco. Quindi è come se in questo racconto il dramma della guerra civile spagnola si legasse metaforicamente alla sofferta condizione dell’Italia e della  Sicilia, alla esperienza che ne  ha fatto lo scrittore, e nel rapporto si legano personaggio-scrittore , Spagna–Sicilia.

Per capire ciò basta leggere alcuni passi di una lettera che  lo scrittore inviava a Luis Gotor il 24 luglio 1960, in cui lamentava la critica  che gli era stata mossa da qualcuno:”….nel leggere il racconto sulla guerra di Spagna, tieni presente che era mio intendimento rappresentare più che la situazione spagnola , che conosco per esperienza di libri , la situazione della Sicilia che conosco per personale e dolorosa esperienza. E tieni presente che quell’”io” cioè l’operaio siciliano che  racconta in prima persona vuole essere un “noi”. Cioè c’è l’operaio che racconta, ma ci sono anch’io scrittore come testimone del dramma”, e concludeva, avallando il giudizio che Gramsci aveva dato dei popolani dell’opera pirandelliana, “a parte il fatto che ci sono in  Sicilia contadini e zolfatari capaci di esprimere una visione della vita a livello pirandelliano.”

Quindi due amori fortemente sentiti, quello per la Spagna, colta nel suo momento storico più buio, e quello per la Sicilia , ma più precisamente per il suo paese natale, in quello che questo ha avuto di più tragico e di più doloroso nel mondo della zolfara, concorrono a fare del racconto un capolavoro di “validità umana ed estetica” come dice il prof. Tedesco, e possiamo aggiungere,adattando il giudizio che Sciascia ha dato della guerra di Spagna, che  “l’oro puro che ne rimane è, come sempre, quello della verità, e della letteratura, che della verità è figlia”, quella verità che per Sciascia è sempre una denuncia, non quella di uno spassionato osservatore, ma quella di uno scrittore impegnato nella battaglia delle idee che dovrebbero regolare la vita sociale, e convinto che “nulla  di sé e del mondo sa la generalità degli uomini se la letteratura non glielo  apprende.”

Rosalia  Centinaro

Agrigento  nov.2015

http://www.gaspareagnello.it/2016/01/lantimonio-di-leonardo-sciascia-recensione-di-rosalia-centinaro/


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