Det regnar på vår kärlek (Piove sul nostro amore) Ingmar Bergman (Svezia/1946)

Det regnar på vår kärlek (Piove sul nostro amore)
di Ingmar Bergman (Svezia/1946)
recensione a cura di Leonardo Persia

“Forse vi chiederete chi sono e quale sia la mia parte in questa storia, ma non posso dirvelo subito. Oso addirittura affermare che è un segreto. Posso dirvi il mio nome… no, quello non ha alcuna importanza. Il mio compito è quello di informarvi su quello che sta per accadere. Sta piovendo… spero che abbiate notato che sta piovendo… È una pioggia di un mercoledì, una pioggia di ottobre… E fa freddo. Aspettate! Ecco uno dei personaggi principali…”.

 

Piove sul nostro amore finisce dove iniziava Crisi, a un incrocio che delimita le direzioni, città e campagna, punto A e punto B, un dualismo che continua ad avvolgere l’universo bergmaniano. Di una coppia, che potrebbe essere quella costituita alla fine del primo film, Nelly e Ulf, adesso Maggi e David (Barbro Kollberg e Birger Malmsten). Più appassionati rispetto ai primi, perché mossi da un desiderio non pre-determinato. Eppure la pioggia del titolo, che bagna sin dalle primissime sequenze, è la difficoltà reiterata che rende scivoloso il loro sentiero amoroso: elemento che, proprio perché naturale, è ineludibile, anzi necessario. Come, all’inizio, la perdita del treno della ragazza che, nella fretta di arrivare in tempo, fa cadere il giovane. Doppio, fortunato incidente. David era alla fontana. L’acqua, la pioggia sono vitali.

Nella prima parte del film, scura, autunnale, piovosa, i due s’incontrano, si scontrano, s’innamorano. Deterritorializzati, emarginati, senza tetto né legge, soprattutto senza soldi e senza meta, hanno soltanto il presente. Vogliono il futuro. Un ruolo sociale, una sistemazione. La seconda hanno modo di trovarla in un casolare abbandonato in campagna. Riparano lì, per via della pioggia. E vi affrontano, superandoli, i nodi insoluti. Il fatto che lui sia uscito di galera dopo una condanna per furto, che lei aspetti il bimbo di un altro. Spunta fuori però il proprietario, la più inquietante di una serie di figure “regolari”, dal parroco gentile nella sua crudeltà al portiere d’albergo, al controllore della stazione, minacciose e orrorifiche, incarnazione dei veri problemi senza soluzione. Sintesi suprema di una negatività imperante: il diavolo, probabilmente. A cui si contrappone un narratore angelo con ombrello. Per riproporre la dicotomia madre buona/madre cattiva del film precedente, con annessi contrappesi drammaturgici e psicologici.

L’angelo, per esempio, diventa la coscienza sporca di David. Quando la maternità di Maggi, a fatica accettata, finisce male, gli suggerisce che la cosa in fondo lo aggrada, è meglio che sia andata così. Il diavolo invece suscita pietà nel rimpiangere il tempo perduto, la nostalgia di figli e nipoti ormai cresciuti e non più promessa vitale: espressione somma di una condanna a morte insita nella stessa crescita e normalizzazione a cui la coppia ambisce. Terrificante quel che esibiscono le coppie integrate. Un antico socio di David, preda intristita di una moglie cosiddetta onesta, che non tollera più deviazioni di qualsiasi sorta, compresa quella di aiutare un vecchio amico. O i datori di lavoro del giovane, ripugnanti vivaisti, uniti dall’odio reciproco e per gli altri.

L’uomo beve ed è succubo della moglie, una bruttissima virago, che lo vessa e lo opprime, proiettando inoltre sulla figlia fuoricampo (si ascoltano solo le note del suo piano) le proprie ambizioni irrisolte. Naturalmente licenziano il giovane, accusandolo ingiustamente di furto. Mentre il proprietario di casa, ammettendo, da negativo brechtiano, di fare le cose esclusivamente per il proprio tornaconto, vende ai giovani la propria abitazione, senza rivelare che il terreno su cui è edificata sarà espropriato. Al messo comunale che comunica l’ordine, burocrate insensibile quanto il prete che non li ha sposati, David tira un pugno. E finisce per questo di nuovo sotto processo.

Un processo-espediente, match tra l’essere e l’apparire, la spontaneità e la contraffazione, durante il quale i giovani esprimono un gap da una società non più a misura, laica o religiosa che sia. “Dannata società! Una valigia vuol dire essere una persona perbene! Quella che loro considerano una persona bene”. Un decennio dopo, s’inaugurerà la stagione dei ribelli senza causa. Ma, pur mosso da tali premesse, oltre al tema in voga della ri-costruzione (soprattutto morale) del dopoguerra (anche per un paese neutrale come la Svezia), il film di Bergman ha ambizioni più cosmiche, invade e incupisce, catastrofico, tutta una marcia sfera esistenziale. Solo che lo fa, senza avere i mezzi e la sintesi di un linguaggio proprio, dei capolavori a venire.

Il meglio sta in una serie di epifanie negative, nelle sterzate simboliche, irrealistiche e pungenti, artifici di cultura, di burocrazia dell’esistenza, tristissimi. Laddove la natura, cielo, alberi, luna, la stessa pioggia, basterebbero. “Una stella è una bellissima compagnia, non credi?” chiede Maggi a David, entrambi a una finestra spalancata sull’universo semplice, così vicino e così lontano. I momenti in cui i giovani si aprono all’estate e all’amore sono figurativamente spontanei, dotati di una graziosa armonia.

Altrove il film incespica, appare retorico, fa sfilare diversi stili eterogenei, è narrativamente disarticolato. Come i suoi due protagonisti, il giovane cineasta è disperatamente alla ricerca di un’unità (estetica) che non giunge a compimento. Neorealismo degli esterni e realismo poetico degli interni e degli assunti. Un carillon-nostalgia, un cane-guida, un gatto-morte. Cupezza letteraria, da cui affiora ogni tanto un barlume di autenticità, e humour greve concentrato sulla figura di una vicina di casa, finalmente davvero gentile, e su due figure pre-felliniane da circo, con il compito forse di delimitare il confine tra poesia e prosa, tra mondo com’è e come dovrebbe essere, tra comico e ridicolo.

Il ridicolo e gli orrori appartengono alla cosiddetta società normale. L’idealismo, il candore, la luce, il calore, il colore sono dei due fidanzati. E del bimbo che aspettano, simbolo di novità, che difatti non sboccia. Come non sboccia il chiarore della seconda parte, figurativamente più distesa rispetto alla parte scura e piovosa. Per via delle paradossali contrapposizioni bergmaniane di cui sopra, l’oscurità è dominata dai propositi, dalla speranza e dall’amore; il chiarore dagli ostacoli, dalle disillusioni e dalle perdite. Il capodanno è preannunciato da un cupo incrociarsi di sguardi che si augurano la felicità. Occhi che hanno fissato nella retina tutto il disincanto bergmaniano presente e futuro, una beffarda e dolorosa profezia dell’anno che non verrà.. “Se vuoi conformarti per diventare uno di loro, ti mortificano”.

Ma i due giovani insistono: più si bagnano, più ne escono asciutti. Affiora l’idea del negativo che ingenera il positivo, della morte che stimola la vita. L’acqua, elemento fluido, scioglie, elasticizza, irriga le giunture di un mondo di marionette tristi e cattive, il cui scopo sadico è la sofferenza degli altri, prima del loro ingurgitamento.

A questo devono sfuggire Maggi e David, ma incautamente hanno sposato proprio la causa che li dovrà annientare, unendoli per separarli. Mettere su casa, in tutta l’estensività figurata dell’espressione. Conformarsi. Indubbio però che fissarsi in un ruolo, senza sussumere la dualità tenebre/luce dell’esistenza, costituisce per l’autore la fine della giovinezza e delle necessarie illusioni. Fissare i confini di un territorio de-fluidificante che fa delle persone pietre, al pari del proprietario della casa.

Nel finale, di nuovo a piedi, senza riparo, soldi e futuro, la coppia risplende ancora. Il loro angelo protettore, il cui aiuto è stato determinante per uscire integri dal processo, offre adesso, diabolico come un genitore, un parapioggia e una possibile direzione da prendere: città, campagna. Essendo già incappati e inciampati in campagna, i due non possono che optare per la direzione opposta. Proprio come aveva fatto, fallendo, la Nelly di Crisi.

Leonardo Persia


Det regnar på vår kärlek (Piove sul nostro amore)

Regia: Ingmar Bergman
soggetto: Oskar Braaten
sceneggiatura: Ingmar Bergman, Hebert Grevenius
fotografia: Hilding Bladh, Göran Strindberg
scenografia: P. A. Lundgren
musica: Erland von Koch
montaggio: Tage Holmberg
interpreti: Barbro Kollberg, Birger Malmsten, Gösta Cederlund, Ludde Gentzel, Gunnar Björnstrand, Erland Josephson
produzione: Lorens Marmstedt (Sveriges Folkbiografer)
prima proiezione: 9 novembre 1946
paese: Svezia
anno: 1946
durata: 95′

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