HyperNormalisation Adam Curtis by Bruno Formicola e Andrea Girolami : tag speciale gotico – western

Vivere in una distopia: il mondo ipernormalizzato di Adam Curtis

Con “HyperNormalisation”, Adam Curtis analizza la società attuale senza fornire soluzioni alternative, lasciando allo spettatore il compito di interrogarsi sul futuro e, forse, impegnarsi a cambiarlo.

In HyperNormalisation il documentarista britannico Adam Curtis ci accompagna per quasi tre ore nell’esplorazione e nell’approfondimento, entro i limiti permessi dal medium, di alcuni importanti eventi politici ed economici che hanno segnato gli ultimi quarant’anni di storia, con particolare riguardo alle relazioni internazionali tra occidente e medio oriente, il cyberspazio e il crollo dell’Unione Sovietica; questi elementi sono apparentemente del tutto isolati tra loro, ma Curtis mostra abilmente come essi siano invece collegati da un filo molto sottile.

Il titolo del docufilm, prodotto dalla BBC e scritto dallo stesso narratore, ha origine in un testo dello studioso russo Alexei Yurchak. L’HyperNormalisation è quel fenomeno che ha avuto luogo durante gli ultimi decenni di vita del sistema sovietico: era evidente che il sogno socialista fosse prossimo al collasso, ma l’incapacità dei burocrati e del popolo di immaginare una realtà alternativa li spinse a comportarsi come se nulla stesse accadendo, mascherando la nuova cruda realtà con quella precedentemente esperita. Tale fenomeno si riverberò anche sulle produzioni culturali, e Curtis cita il romanzo di fantascienza Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkady e Boris Strugatzki, da cui sono stati tratti il celebre film Stalker di Andrej Tarkovski e l’omonimo videogioco. Nel mondo immaginato dai due fratelli esiste una zona caratterizzata da strane anomalie, nel quale è difficile distinguere la realtà dalla finzione. “Eri parte del sistema a tal punto che era impossibile vedere oltre”, recita Curtis, secondo il quale anche noi siamo attualmente vittime di tale fenomeno. L’intento dell’autore, dall’autorevole tono tipicamente inglese, è quello di scavare a fondo nelle relazioni di potere tra e governati e governanti, clienti e banche, opinione pubblica e media, realtà e finzione; di analizzare in che modo le élite del “sistema” mantengano saldamente il potere promettendo stabilità invece di cambiamento, oppure perché tra i tecnoutopisti dei primi anni di Internet come John Perry Barlow che immaginavano una rete libera da gerarchie, e i padri del Cyberpunk come William Gibson che prevedevano una società hi-tech dominata da oscure corporazioni, siano stati questi ultimi ad averci visto giusto.

Al contrario di quanto ci si possa aspettare, Curtis non si abbandona a dietrologie scontate e teorie della cospirazione: dietro questo mascheramento della realtà non c’è un disegno intelligente di una manciata di potenti, ma un processo collettivo che è parte del sistema stesso. Il documentario si apre con la New York del 1975, una cesura storica che segna l’affermarsi del cosiddetto “neoliberismo”, quando gli istituti finanziari prendono il controllo della città ormai sommersa dai debiti. Figura importante della sinistra inglese, Curtis critica i movimenti anarchici e antisistema di quegli anni, che invece di continuare la lotta portata avanti negli anni ’60 si sono ritirati nelle periferie degradate delle grandi città dando vita a quel fenomeno che Edmund Berger chiama “accelerazionismo grunge”, rifiutandosi di combattere concretamente il sistema e dedicandosi esclusivamente all’espressione artistica.

Dagli Stati Uniti, l’autore si sposta in medio oriente. Curtis si concentra in particolare sulla Siria di Hafez al-Assad, padre dell’attuale dittatore Bashar al-Assad, e sulla Libia del Colonnello Gheddafi, salito al potere attraverso un colpo di stato. Vengono esplorati diversi aspetti riguardanti il passato di questi due personaggi; nelle loro relazioni con gli Stati Uniti Curtis vede un esempio del cosiddetto “perception management”, altra parola chiave del documentario. La gestione della percezione da parte di élite e media muta la comprensione che le persone hanno della realtà: gli Stati Uniti e alcuni loro alleati sono riusciti ad assegnare al dittatore libico un’identità, quella di leader del terrorismo globale, che in realtà non gli apparteneva; lo stesso Colonnello è stato al “gioco” per acquisire fama globale. Manipolare la realtà, o meglio, la sua percezione, riduce l’estrema complessità del mondo contemporaneo a spiegazioni semplicistiche di processi, situazioni e problemi che nessuno, anche politici e accademici, può comprendere e ai quali nessuno può trovare una soluzione definitiva.

Una pellicola incentrata sulla dicotomia realtà-finzione non poteva esimersi dal toccare argomenti come il cyberspazio, l’intelligenza artificiale o la realtà virtuale e l’utilizzo di droghe psichedeliche, di cui celebri attivisti della controcultura come Timothy Leary sono stati strenui sostenitori negli anni ’60 e ‘70. Vengono anche sfiorati temi quali il fenomeno UFO, utilizzato come ulteriore esempio del “perception management”, e i programmi di sorveglianza di massa. La colonna sonora electro-ambient dai suoni angosciosi composta da pezzi di vari artisti – tra cui Aphex Twin e Brian Eno – fa da sfondo ai numerosi filmati di repertorio provenienti dagli archivi della BBC. Nell’ultima parte Curtis prende in esame eventi di estrema attualità quali l’intervento russo in Ucraina e in Siria e il successo del magnate Donald Trump in occasione delle elezioni presidenziali americane, investigando anche sul suo passato; il parallelo Trump-Putin è un ottimo esempio di quella che molti studiosi definiscono “post-factual society”, i cui effetti sono amplificati dalle filter bubble in cui ci hanno intrappolato i social network. La società post fattuale vede nelle strategie del candidato repubblicano e del presidente russo la sua più alta rappresentazione: attraverso la diffusione di informazioni false e operazioni di propaganda si da vita ad una realtà alternativa a quella rappresentata dai fatti che è impossibile da contrastare, divenendo, di fatto, una finta realtà parallela, una società in cui il reale ha la stella valenza del irreale. L’autore si concentra su Vladislav Surkov, consigliere di Putin, considerato da Curtis l’uomo dietro la “fiction” messa a punto del Cremlino, attraverso la letterale spettacolarizzazione della vita politica russa, popolata da movimenti di supporto e di opposizione al governo che lui stesso sponsorizza; la trasposizione di questo disegno nel mondo della guerra ha dato vita a quella strategia, utilizzata dalla Russia in Ucraina e più recentemente in Siria, che Surkov ha nominato “non-lineal warfare”, che mira a “creare uno costante stato di percezione incerta per acquisire il controllo della situazione”.

HyperNormalisation è un documentario sul presente che non fa alcun accenno al futuro; è scevro di alcun intento prescrittivo, in quanto l’autore si focalizza esclusivamente nel descrivere la società attuale senza fornire soluzioni alternative. È intriso di un pessimismo che non viene abbandonato nemmeno al termine del film, lasciando allo spettatore il compito di interrogarsi sul futuro e, forse, impegnarsi a cambiarlo. Diamoci da fare, perché sembra che Adam Curtis ci abbia già rinunciato.

Bruno Formicola

Bruno Fomicola è laureando in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, collabora con il Center for the Future of Europe affrontando i temi degli etnismi, dei nazionalismi e dei movimenti separatisti e unionisti all’interno dei confini europei.

http://www.futurimagazine.it/osservatorio/vivere-in-una-distopia-il-mondo-ipernormalizzato-di-adam-curtis/

HyperNormalisation, il nuovo documentario di Adam Curtis, attraversa gli ultimi decenni di Storia in cerca di una risposta alla domanda: “esiste un’alternativa a questa società?”

Fuga dalla HyperNormalisation
di  Andrea Girolami

Da più di vent’anni Adam Curtis produce film che tentano di minare le certezze degli spettatori della BBC e dei tanti che si sono interessati al suo lavoro online negli ultimi anni. Attraverso titoli come The Century Of Self (2002) e The Bitter Lake (2015) ha provato a esplorare percorsi alternativi per spiegare l’evoluzione della società globale dell’ultimo secolo. Non solo quella occidentale, il suo interesse per il Medio Oriente ne ha fatto uno degli osservatori più influenti in molte delle questioni politiche su cui ci si scontra quotidianamente, fuori e dentro Facebook mentre le collaborazioni con il comico (ma anche autore della serie Black Mirror) Charlie Brooker o la band dei Massive Attack contribuiscono a dare un’immagine di Curtis simile a quella che si ha del suo lavoro: difficilmente definibile e capace di passare dall’ironia al dramma con una veloce piroetta.

Normale quindi che il suo ultimo lavoro, HyperNormalisation, fosse circondato da un’attesa quasi messianica, come se si trattasse dell’unico film in grado di mettere in fila i messaggi contraddittori che ci troviamo a decodificare ogni giorno. Lanciato lo scorso 16 ottobre direttamente online sulla piattaforma digitale iPlayer della BBC, si tratta, come già i precedenti lavori di Curtis,  di un magmatico ammasso di immagini e parole della durata di quasi tre ore: un racconto che procede in parallelo tra occidente (New York in particolare) e medio oriente (Siria e Palestina) recuperando il filo dei rapporti tra i due blocchi e spiegando come uno ha influenzato l’altro fino allo stallo che viviamo oggi. Secondo Curtis quella che stiamo osservando non è solo una paralisi politica ma anche ideologica dove nulla si muove perché tutto si tiene in un equilibrio tanto precario quanto apparentemente intoccabile.

Per argomentare questa sua visione il documentario parte dalla controcultura americana degli anni ‘70, la prima che scelse di ritirarsi dal dibattito politico pubblico per rifugiarsi nella dimensione privata, mettendo dunque in discussione l’efficacia di quelli che erano gli equilibri del tempo. Ed è proprio in quel periodo che il giovane Donald Trump, complice la crisi finanziaria di New York e gli interessi delle banche (ormai entrate nelle stanze di potere dell’amministrazione cittadina), inizia a trasformare la metropoli americana nel parco giochi per ricchi che oggi conosciamo. Intanto dall’altra parte del mondo Henry Kissinger metteva in scacco il Medio Oriente bloccando sul nascere una possibile unione dei paesi arabi e spingendo per reazione l’allora presidente della Siria Hafez al-Assad ad avvicinarsi alle posizioni di Khomeini in Iran fino a mutuarne l’utilizzo di “bombe umane” a fini terroristici.

Quella raccontata in HyperNormalisation è una storia piena di personaggi, legami impossibili e incontri segreti. Proprio il recupero della complessità della narrazione è l’argomento principale del documentario. Il problema fondamentale secondo Curtis è che sia i politici che i media attuali tendono a semplificare concetti e scenari in modo disonesto con l’obiettivo di strumentalizzare il proprio pubblico. Gli esperti di comunicazione la definiscono perception management. Si costruisce attorno agli eventi una cornice che trasforma la realtà e le sue sfaccettature in una fiaba adatta a tutti con tanto di buoni, cattivi, colpi di scena e risoluzione finale. Uno scenario per certi versi ideale proprio perché costruito artificialmente, in cui ciascuno ha un ruolo ben preciso a cui non si può opporre. È questa la ipernormalizzazione che dà il titolo al documentario. Una definizione presa in prestito dal libro di Alexei Yurchak Everything was Forever, Until it was No More: The Last Soviet Generation. Nei giorni della caduta dell’impero russo tutti sapevano che le cose sarebbero presto cambiate ma la vita procedeva comunque in un paradossale immobilismo dovuto all’incapacità di immaginare un sistema alternativo.

In tanti oggi condividono questa stessa sensazione come di un imminente tracollo che ritarda continuamente il suo arrivo. Una generale sfiducia verso un sistema politico e finanziario che pur portando avanti serenamente il suo operato perde però ogni giorno di più la sua capacità di alterare la realtà. L’impressione è quella di vivere in uno spazio dickiano dove ciò che vediamo è solo l’ombra di un’altra realtà che rimane nascosta. Proprio la fantascienza è una fondamentale chiave di lettura di HyperNormalisation e del lavoro di Curtis in generale. Il documentario spiega bene come un film come Stalker di Tarkovskij riuscisse a descrivere perfettamente una Russia che faticava a distinguere il sogno dalla veglia. Allo stesso modo un autore come William Gibson ha raccontato perfettamente un mondo occidentale che passava di mano: dalla politica degli Stati Nazione alle reti informatiche delle grandi multinazionali.

HyperNormalisation non si ferma alle origini del conflitto arabo-israeliano ma continua il suo racconto fino alla nascita dell’informatica e di internet. Uno spazio virtuale che ai suoi esordi sembra promettere l’opposto delle visioni luciferine di cui scriveva Gibson. Grazie soprattutto al lavoro di persone come John Perry Barlow, ex hippie votatosi poi alla tecnologia e autore della “Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio“. Un documento che ha inciso profondamente sull’immaginario popolare contribuendo a dipingere internet come un luogo utopico in cui sarebbe stato possibile aggirare le logiche del potere. Ormai sappiamo che le cose non stanno proprio così: come ogni strumento tecnologico la rete si presta a diversi utilizzi, non tutti degni del Nobel per la Pace a cui qualcuno l’ha candidata qualche anno fa. Secondo Curtis anche in questo spazio virtuale ormai è la finanza a farla da padrona e il culmine di un mondo interconnesso ma immobile sembra essere la costruzione del supercomputer Aladdin di Blackroc. Primordiale esperimento di intelligenza artificiale capace di analizzare tutte le transazioni finanziarie del mondo e consigliare gli investitori annullando qualunque tipo di rischio. L’ennesima prova di un estremo bisogno di sicurezza da parte del sistema, una necessità che sfocia nella fantascienza come sa bene chiunque abbia letto Il cigno nero di Nicholas Taleb.

Intanto in Medio Oriente per una crudele eterogenesi dei fini le bombe umane inventate da Khomeini e prese in prestito da Assad (padre) invece di unire il popolo arabo contro il potere americano hanno portato ulteriore morte e distruzione all’interno e all’esterno del mondo arabo. Il nostro mondo ipersemplificato ha però sempre bisogno di un nemico contro cui coalizzarsi, un capro espiatorio capace di assorbire contrasti che la politica non è in grado di controllare. Per anni la parte di questo nemico è stata assegnata a Mu’ammar Gheddafi, padre padrone della Libia che nel giro di qualche decennio passa da inoffensivo pupazzo a pericoloso terrorista e poi nuovamente a illuminato alleato. Un balletto durante il quale gli viene affibbiata la responsabilità di numerosi attentati: quelli agli aeroporti di Vienna e Roma nel 1985 e quello di Lockerbie nel 1998. Anche se tutti gli indizi dei servizi segreti portavano ad identificare la Siria come vero autore delle esplosioni sarebbe stato troppo complesso sfidare un paese così potente e interconnesso nel mondo arabo. Meglio colpire la Libia di Gheddafi: più isolata e inoffensiva, senza il rischio di compromettere gli equilibri globali così faticosamente costruiti.

L’ultimo capitolo del documentario è dedicato a Putin e Trump, che secondo Curtis sono il trionfo di questa ipernormalizzazione verso cui corriamo da ormai quasi 40 anni. Due politici inafferrabili capaci di dire tutto e il contrario di tutto, addirittura di finanziare i propri avversari (Trump lo ha fatto con i suoi rivali nella corsa alla candidatura repubblicana). Le loro roboanti dichiarazioni e le guerre non lineari che continuano a sostenere sono il prodotto dello stallo politico e ideologico dei nostri giorni. L’incarnazione vivente delle teorie di sociologi come Ulrich Beck e Anthony Giddens (ampiamente citati nel documentario) secondo cui un politico che volesse davvero cambiare il mondo sarebbe un pericolo inammissibile per un sistema che si fonda sul proprio totale immobilismo.

Quello di Curtis è un racconto gigantesco in cui confluiscono vorticosamente tutti i temi della ultramodernità. Intelligenza artificiale, terrorismo, Donald Trump e realtà virtuale si alternano alle immagini di spettrali camere d’hotel notturne, schemi di televisori, enormi uffici pieni di computer, Jane Fonda che fa fitness indossando body fluo. HyperNormalisation critica l’eccesso di semplificazione dei media mettendo in scena un teatro dell’ipercomplessità. Il tutto è tenuto assieme dall’incredibile lavoro di patchwork visivo che attraverso centinaia di contributi e frammenti d’interviste dall’archivio BBC argomenta le tesi del documentario portando per mano lo spettatore fino all’estrema conseguenza finale.

Una conclusione che però rimane sospesa. Alla fine di queste caleidoscopiche tre ore quella che manca è una vera alternativa possibile. Se da una parte Curtis critica la controcultura che dagli anni 70 in poi ha rinunciato alla lotta politica e civile dall’altra riconosce lo scacco di chi è sceso in piazza rischiando la vita. La cosiddetta primavera araba coordinata e resa possibile dalle piattaforme social non ha mantenuto le sue promesse di rivoluzione ancora una volta per l’incapacità di costruire una vera alternativa possibile. Che si scelga di creare realtà parallele o si scenda in strada con la molotov in mano la ipernormalizzazione è destinata a farci prigionieri in ogni caso.

Andrea Girolami
Giornalista e autore video ha lavorato per MTV e Wired Italia. Per Indiana Editore ha scritto il libro dedicato alla cultura digitale Atlante delle cose nuove. Pensa di essere un ottimo ballerino, ama fare il DJ ai matrimoni.

http://www.prismomag.com/adam-curtis-hypernormalization/


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