tornando sulla condizione operaia :Simone Weil i post – EUROPA 51 Rossellini – prof Mauro Bonazzi

Cara Albertine,

mi ha fatto bene ricevere un rigo da te. Ci sono cose, mi pare, che comprendiamo solo tu e io. Tu vivi ancora; ecco, non puoi sapere come ne sia felice … La vita li vende cari i progressi che fa compiere. Quasi sempre a prezzo di dolori intollerabili… Quel che mi scrivi della fabbrica m’è andato dritto al cuore. E’ quel che sentivo io fin da quando ero piccola. Per questo ho dovuto finire con l’andarci e mi addolorava, prima, che tu non capissi. Ma quando si è dentro, come è diverso! Ora, è così che sento il problema sociale: una fabbrica, dev’essere quel che … ho sentito tanto spesso, un luogo dove ci si urta dolorosamente, duramente, ma tuttavia gioiosamente, con la vita vera. Non quel luogo tetro dove non si sa fare altro che ubbidire, spezzare sotto la costrizione tutto quel che c’è di umano in noi, piegarsi, lasciarsi abbassare al di sotto delle macchine.

Una volta ho avvertito intensamente, in fabbrica, quel che avevo presentito con te, dal di fuori. Era la mia prima fabbrica. Immaginami davanti a un gran forno, che sputa fiamme e soffi brucianti che mi arroventano il viso. Il fuoco esce da cinque o sei fori situati nella parte inferiore del forno. Io mi metto proprio davanti, per infornare una trentina di grosse bobine di rame che un’operaia italiana, una faccia coraggiosa e aperta, fabbrica accanto a me; quelle bobine sono per il tram e per il metrò. Devo fare ben attenzione che nessuna delle bobine cada in uno dei buchi, perché vi si fonderebbe; e, per questo, bisogna che mi metta proprio di fronte al fuoco senza che il dolore dei soffi roventi sul viso e del fuoco sulle braccia (ne porto ancora i segni) mi facciano mai fare un movimento sbagliato. Abbasso lo sportello del forno, aspetto qualche minuto, rialzo lo sportello a mezzo di tenaglie, tolgo le bobine ormai rosse, tirandole verso di me con grande sveltezza (altrimenti le ultime comincerebbero a fondere) e facendo anche più attenzione di prima perché un movimento errato non ne faccia cadere mai una dentro uno dei fori. E poi si ricomincia. Di fronte a me un saldatore, seduto, con gli occhiali blu e la faccia severa, lavora minuziosamente; ogni volta che il dolore mi contrae il viso, mi rivolge un sorriso triste, pieno di simpatia fraterna, che mi fa un bene indicibile.

Dall’altra parte, lavora una squadra di battilastra, intorno a grandi tavoli; lavoro di squadra, compiuto fraternamente, con cura e senza fretta. Lavoro molto qualificato, dove bisogna saper calcolare, leggere disegni complicatissimi, applicare nozioni di geometria descrittiva. Più lontano, un robusto giovanotto picchia con un maglio su certe  sbarre di ferro, facendo un fracasso da fendere il cranio. Tutto ciò avviene in un cantuccio in fondo all’officina, dove ci si sente a casa propria, dove il caposquadra e il capo officine, si può dire, non vengono mai. Ho passato là 2 o 3 ore a quattro riprese (ci rimediavo da 7 a 8 franchi all’ora; e questo conta, sai!)

La prima volta, dopo un’ora e mezzo, il caldo, la stanchezza, il dolore, m’han fatto perdere il controllo dei movimenti: non riuscivo più ad abbassare lo sportello del forno. Uno dei battilastra (tutti tipi in gamba) appena se n’è accorto si è precipitato a farlo in vece mia. Ci ritornerei subito in quel angolo d’officina se potessi (o almeno appena avessi riacquistato un po’ di forze). Quelle sere, sentivo la giuria di mangiare un pane dolorosamente guadagnato.

Ma questo è stato unico, nella mia esperienza di vita di fabbrica. Per me, personalmente, lavorare in fabbrica ha voluto dire, che tutte le ragioni esterne sulle quali si fondavano la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa, sono state radicalmente spezzate, in due o tre settimane, sotto i colpi di una costrizione brutale e quotidiana. E non credere che ne sia conseguito in me qualche moto di rivolta. No; anzi, al contrario, quel che meno mi aspettavo da me stessa: la docilità. Una docilità di rassegnata bestia da soma. mi pareva d’essere nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini – di non aver mai fatto altro che questo – di non dover mai far altro che questo. Non sono fiera di confessarlo.

E’ quel genere di sofferenza  di cui nessun operaio parla; fa troppo male solo a pensarci. Quando la malattia mi ha costretto a smettere, ho assunto piena coscienza dell’abbassamento nel quale stavo cadendo e mi sono giurata di subire questa esistenza fino al giorno in cui fossi giunta, mio malgrado, a riprendermi. Ho mantenuto la promessa. Lentamente, soffrendo, ho riconquistato, attraverso la schiavitù, il senso della mia dignità di essere umano, un senso che questa volta non si fondava su nulla di esterno, sempre accompagnato dalla coscienza di non aver diritto a nulla e che in ogni istante libero dalle sofferenze e dalle umiliazioni doveva essere ricevuto come una grazia, come unico risultato di favorevoli circostanze casuali.

Due fattori essenziali entrano in questa schiavitù: la rapidità e gli ordini.

La rapidità: per “farcela” bisogna ripetere un movimento dopo l’altro a una cadenza che è più rapida del pensiero e quindi vieta non solo la riflessione, ma persino la fantasticheria. Mettendosi dinnanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima, i propri pensieri, i sentimenti, tutto per otto ore al giorno. Irritati, tristi o disgustati che si sia, bisogna inghiottire, respingere in fondo a se stessi irritazione, tristezza o disgusto: rallenterebbero la cadenza. Per la gioia, è lo stesso.

Gli ordini: dal momento in cui si timbra per l’uscita, si può ricevere qualsiasi ordine in qualunque momento. E bisogna sempre tacere e obbedire. L’ordine può essere penoso o pericolosa da eseguire, o anche ineseguibile; oppure due capi possono dare ordini contradditori; non fa nulla: tacere e piegarsi. Rivolgere la parola a un capo, anche per una cosa indispensabile, anche se è una brava persona (le brave persone hanno pure i loro momenti di cattivo umore) vuol dire rischiare di farsi strapazzare. E quando capita, bisogna ancora tacere. Per quanto riguarda i propri impulsi di nervi o di malumore, bisogna tenerseli; non possono tradursi né in parole né in gesti, perché i gesti sono, in ogni momento, determinati dal lavoro. Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae dinnanzi al bisturi.

Non si può essere “coscienti”. Tutto questo, beninteso, riguarda il lavoro non qualificato, soprattutto quello delle donne. E attraverso tutto ciò, un sorriso, una parola di bontà, un istante di contatto umano hanno più valore delle più devote amicizie fra i privilegiati grandi e piccoli. Solo là si conosce che cos’è la fraternità umana. Ma ce n’è poca, pochissima.

Quasi sempre le relazioni, anche fra i compagni, riflettono la durezza che, là dentro, domina su tutto. .. Volevo dirti anche questo: il passaggio da quella vita così dura alla mia vita attuale, sento mi corrompe. Capisco ora cosa succeda ad un operaio che diventa funzionario sindacale. Reagisco quanto posso. Se mi lasciassi andare, dimenticherei tutto, m’installerei nei miei privilegi senza voler pensare che sono privilegi. Sta tranquilla, non mi lascio andare. A parte questo, in quella esistenza ci ho lasciato la mia allegria, ne serbo in cuore un’amarezza incancellabile. E tuttavia, sono felice di averla vissuta…

Simone Weil : la condizione operaia

La condition ouvrière

Mauro Bonazzi – Simone Weil “Il libro del potere”

Simone Weil
“Il libro del potere”
Chiarelettere
www.chiarelettere.it

“I Greci ebbero la forza d’animo di non mentire a se stessi; furono ricompensati per questo e raggiunsero nella vita il più alto grado di lucidità, purezza e semplicità.”

Tre motivi per leggerlo:

Perché è un appassionante viaggio nell’antichità – gli eroi di Omero, la Grecia classica, il Cristianesimo eretico – alla ricerca di risposte fondamentali per la nostra vita.

Perché racconta della violenza di chi ama sentirsi sempre dalla parte del giusto, del bene, della verità.

Perché Simone Weil è un’autrice irresistibile, un esempio unico di coerenza e determinazione.

“I Greci ebbero la forza d’animo di non mentire a se stessi; furono ricompensati per questo e raggiunsero nella vita il più alto grado di lucidità, purezza e semplicità.”
Simone Weil

Non viviamo tempi facili. Ma forse non sono mai facili i tempi in cui gli uomini vivono. Ci sono i bisogni, da cui non si può prescindere, concreti, materiali. E c’è la difficoltà, più impalpabile ma non meno pressante, di capire la realtà intorno a noi, di fare ordine nella confusione che ci circonda, di confrontarsi con chi la pensa diversamente.
Non si tratta di problemi solo nostri. Sono situazioni, appunto, che gli esseri umani fronteggiano da sempre. Simone Weil, ad esempio, se ne occupava negli anni Trenta del secolo scorso, mentre l’ascesa dei nuovi totalitarismi e la diffusione dell’industrializzazione stavano modificando in modo radicale il mondo. E lo faceva leggendo e rileggendo testi antichi, apparentemente lontani in realtà vicinissimi, come l’Iliade. Scoprendo che non sono soltanto i problemi a essere gli stessi, ma anche le risposte.
C’è infatti una tentazione che sempre attende gli esseri umani, quando cadono preda di incertezze o insicurezze. È la scorciatoia della forza, l’affermazione violenta di se stessi e delle proprie idee. Non è solo violenza fisica. C’è anche quella, ovviamente. Ma anche altro: è la condizione esistenziale di chi non sopporta la complessità e adotta dunque soluzioni drastiche, fondate su opposizioni nette: il bene contro il male, la luce contro il buio. Chi la pensa diversamente diventa un nemico, e deve essere combattuto. È un vizio comune, tanto più diffuso quanto maggiore è l’insicurezza in cui viviamo. La scelta della forza è l’inevitabile conseguenza di simili pensieri, in difesa della propria purezza, della propria identità, della incrollabile incertezza di avere ragione sempre e comunque.
Che questa sia una opzione sempre presente dovrebbe esserci ben chiaro: in fondo la nostra civiltà europea e occidentale nasce con un testo, l’Iliade, che racconta, nella cornice di una guerra tra Greci e Troiani, di un combattimento tra due grandi eroi, Achille ed Ettore. L’ Iliade o il poema della forza, come recita il titolo di uno dei saggi più belli e più famosi di Simone Weil. Ma è proprio rileggendo questo poema che dovremmo capire che la forza è una soluzione debole. Questo aveva compreso Simone Weil e per questo le sue pagine meritano di essere rilette, oggi come ieri.
(dall’Introduzione di Mauro Bonazzi)

Simone Weil (1909-1943). «Le intellettuali della nostra generazione erano spesso eccessive: lei non faceva eccezione, ma ha spinto questo rigorismo fino a farsi distruggere.» Sono bastate poche parole a Claude Lévi-Strauss per descrivere la vita di un’amica con cui tante volte aveva discusso, «sempre disorientato dai suoi giudizi senza appello». Non poteva essere diversamente: il radicalismo, per Simone Weil, fu la condizione stessa per dare un senso alla propria esistenza, immergendola nel flusso tumultuoso della storia del Novecento. Eppure gli inizi erano stati di altro tenore. Nata il 3 febbraio 1909 in una famiglia ebrea borghese, Simone Weil aveva goduto di una giovinezza sostanzialmente agiata, complicata soltanto dai frequenti spostamenti del padre, ufficiale medico, durante gli anni della Prima guerra mondiale. «Facevamo un trimestre qui, un trimestre là; abbiamo preso delle lezioni private, delle lezioni per corrispondenza, e ciò ci ha permesso di essere molto più avanti negli studi dei nostri coetanei che avevano seguito i corsi normali.» Tornata a Parigi dopo la guerra poté così frequentare alcuni dei licei più prestigiosi, entrando in contatto con un mondo intellettuale in pieno fermento. L’ingresso nella prestigiosa École Normale Supérieure dovette sembrare, a chi la conosceva, la scelta scontata di studentessa destinata a una brillante carriera accademica. Le cose però sarebbero andate diversamente. L’esigenza di un impegno politico concreto fu sentita da tanti giovani in quegli anni convulsi. Nel caso di Simone Weil divenne una missione, destinata a cambiare per sempre il corso dei suoi giorni. La sua sarebbe stata una vita «lontana dai bagni caldi», come avrebbe scritto nel saggio sull’Iliade, perché così è la vita, e così andava vissuta, accanto a chi combatteva per uscire dalla povertà e per ottenere dignità e giustizia. Appena diplomata, è il 1931, chiede di insegnare nelle zone portuali del Nord, dove più forte era la presenza operaia. Finisce nell’Alta Loira, a Le Puy, ed entra in contatto con quel che resta della grande tradizione del sindacalismo rivoluzionario. Sono gli anni della militanza politica e dei primi saggi. L’esperienza la fa maturare in fretta; la sua coscienza politica, antiautoritaria e individualista (era arrivata a scontrarsi niente meno che con Lev Trotski, di passaggio per la Francia) si fa più acuta, al punto che nel 1932 la troviamo a Berlino, osservatrice disincantata dell’inarrestabile ascesa di Adolf Hitler. Simone, però, non è fatta per essere una semplice spettatrice; non basta analizzare, lei deve vivere, sentire. Il problema del suo tempo, dalla Germania nazista all’Unione Sovietica comunista passando per gli Stati Uniti, è quello dell’industrializzazione forzata, un meccanismo implacabile che sembra distruggere tutto: nel 1934 la professoressa impegnata chiede un congedo e inizia a lavorare in fabbrica, prima alle officine Alstom di Parigi e più tardi alla Renault. Bisogna viverle certe situazioni, per poterle capire. L’impatto su un corpo fragile è durissimo; l’esperienza sconvolgente, disumana («solo là si conosce che cos’è la fraternità umana. Ma ce n’è poca, pochissima. Quasi sempre le relazioni, anche tra compagni, riflettono la durezza che, là dentro, domina su tutto»). Compito di una vera democrazia operaia dovrebbe essere quello di ridare dignità al lavoro, che è il modo in cui noi entriamo in contatto con il mondo; ma così non accade. «Quando penso che i grandi bolscevichi pretendevano di creare una classe operaia libera, e di sicuro nessuno di loro aveva mai messo piede in un’officina, vedo la politica come una lugubre buffonata» scrive all’amica Albertine Thévenon. La stessa ansia di vivere il suo tempo la conduce nel 1936 in Spagna, militante repubblicana. Dove il corpo ancora una volta fa da ostacolo: distratta come al solito, mette il piede in una pentola piena di olio bollente. I genitori la riportano in Francia. Non era stato solo l’incidente fisico, in realtà, a deluderla. Il fatto è che, ancora una volta, l’esperienza diretta aiuta Simone a vedere le cose sotto una luce diversa, meno ideale. Quando la violenza esplode, niente vi si può sottrarre, e lo scontro tra repubblicani e franchisti è sempre più quello tra Spagna, Germania e Italia, entità astratte, bandiere vuote. È un’idea che ispira il saggio Non ricominciamo la guerra di Troia, scritto nel sanatorio svizzero di Montana nel 1937: i conflitti si scatenano per parole false, vuote; «parole omicide», le chiamerà. Almeno Greci e Troiani avevano combattuto per una donna; ormai gli uomini s’intruppano dietro a nozioni astratte come patria, comunismo, fascismo, democrazia, autorità: bandiere che non appena vengono assolutizzate «trasferiscono chi le usa in un universo irreale». Nonostante una persistente emicrania (che la costringerà a lasciare definitivamente l’insegnamento nel 1938), vive in realtà un periodo di relativa serenità, prima in sanatorio, dove recupera forze ed energie, e poi in giro per l’Europa, in Italia soprattutto. Ad Assisi, nella cappella di Santa Maria degli Angeli, si sente attratta da una forza irresistibile. È l’inizio del suo riavvicinamento a Dio, mentre i movimenti rivoluzionari le appaiono sempre più soffocati dall’ombra lunga dei totalitarismi. Inutile precisare che anche su questo fronte Simone darà prova di grande originalità: convinta che il cristianesimo non sia altro che il prolungamento e l’inveramento della spiritualità egizia e greca (uno dei temi portanti del saggio L’ispirazione occitana, scritto nel 1942), rifiuta il battesimo e i dogmi della tradizione cattolica. Contrariamente a quello che si può pensare, per lei la conversione religiosa non segna un punto di rottura con la vita e le idee degli anni precedenti: è piuttosto un modo per affinare il suo sguardo sul presente, per coglierne la trama profonda, la verità. È quello che ha sempre fatto e che continuerà a fare. Semplicemente l’incontro con il cristianesimo le rivela che la realtà è molto più ricca di quanto non avesse precedentemente pensato. La riflessione sulla miseria umana trova un completamento nella ricerca della perfezione divina. Il tentativo sarà ora di ridare voce a quanti hanno cercato di costruire ponti per colmare questa distanza: Platone, la sapienza egizia o i cristiani non fa differenza. Non è un compito semplice, come si può capire dalla lettura dei suoi saggi dedicati a questo tema. La tregua dura poco, però. La tempesta sta per scatenarsi, e Simone ci si butta dentro senza esitazioni. Il 13 giugno 1940 i tedeschi entrano a Parigi, e Simone la lascia, prima per Vichy poi per Tolosa e Marsiglia, dove torna all’impegno politico: si prodiga per trovare documenti falsi a chi deve fuggire, frequenta poveri e oppressi cercando di aiutarli, incorre nella repressione degli organi istituzionali. Minacciata di essere messa in cella insieme alle prostitute, risponde altezzosa che ha sempre desiderato fare conoscenza con questo tipo di persone. Il giudice la lascia libera ritenendola folle. Intanto, non smette di scrivere: il saggio sull’Iliade, avviato tra il 1937 e il 1938, è completato in questo periodo e verrà pubblicato sui «Cahiers du Sud» del 1941 sotto lo pseudonimo di Émile Novis. Simone, come tanti altri e tante altre, è in linea di principio per la pace, per cui si è battuta a lungo. Ma si rende ormai conto che non è più un’opzione praticabile, mentre molti pacifisti finiscono per fare il gioco del governo collaborazionista del maresciallo Philippe Pétain. Il problema è piuttosto come combattere una guerra senza subirne quella logica implacabile, a cui troppi secoli ci hanno abituati. A questo serve il saggio su Omero, una riflessione sull’eterna tentazione degli uomini di risolvere i problemi ricorrendo alla forza: ma la forza non risolve nulla, e chi la usa ne sarà inevitabilmente dominato. «La forza riduce l’uomo a cosa»: la forza seduce e distrugge, perché è un’illusione, e nient’altro. È una lettura controcorrente del poema omerico, sfruttato in quegli stessi anni da troppo solerti filologi tedeschi per esaltare il fascino della guerra, per dimostrare che erano i tedeschi i veri eredi degli Achei. Il 7 giugno 1942 Simone prende finalmente il largo alla volta degli Stati Uniti, dove il fratello André, matematico di successo, aspetta ansioso i famigliari. Arriva a New York, ma si pente subito: si sente un’imboscata, mentre gli altri, nella Francia occupata, combattono. Cerca subito di tornare in Europa; la meta è Londra, per arruolarsi nelle file di «France combattante», l’organizzazione della resistenza francese guidata dal generale Charles de Gaulle. Matura un’idea forse folle, sicuramente difficile da realizzare, a cui gli altri guarderanno con perplessità: organizzare un corpo di infermiere che stiano in prima fila nei combattimenti. Vuole opporre una testimonianza morale alla violenza brutale delle SS naziste. Come sempre si prepara meticolosamente, seguendo un corso di pronto soccorso a Harlem. Ma De Gaulle rifiuta, e Simone è incaricata di esaminare documenti di carattere politico provenienti dalla Francia occupata. Il fronte rimane lontano. Eppure lei si sente lì, e con tutti quelli che soffrono: s’impone una dieta rigidissima per condividere la vita di chi ha il cibo razionato. Da giovane le era già capitato di digiunare per solidarietà e aveva smesso di portare le calze quando aveva visto che così era costretta a fare la maggioranza delle persone. Il fisico di Simone non è fatto per sopportare queste prove. Affetta da tubercolosi, muore il 24 agosto 1943 in un ospedale fuori Londra, sola. Intanto l’eco degli scritti che ha disseminato tra gli amici inizia a diffondersi, grazie soprattutto all’impegno di Albert Camus. È solo una questione di tempo e Simone Weil diventa uno dei punti di riferimento intellettuali per comprendere i tormenti del Ventesimo secolo da una prospettiva autentica, non viziata dall’adesione preconcetta a tesi di partito o di bandiera. «A volte i morti sono più vicini a noi dei vivi», come avrebbe scritto Albert Camus.

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