Maria Messina : La casa nel vicolo – L’amore negato – I figli dell’uomo sapiente in pdf

La casa nel vicolo, romanzo : Messina, Maria, 1887 … – Internet Archive

La casa nel vicolo – Liber Liber

l’amore negato – Liber Liber

I figli dell’uomo sapiente – Liber Liber

Maria Messina
(1887-1944)

Realizzazione e stampa a cura dell’Associazione “Progetto Mistretta” © ottobre 2006. Stampa Tipografia D. Salernitano, Messina.

La rottura del silenzio e dell’oblio, che hanno avvolto per oltre mezzo secolo il nome e l’opera di Maria Messina, si deve al recupero di uno scrittore sensibile come Leonardo Sciascia nei primi anni Ottanta e alle scelte della Casa Editrice Sellerio che con una ristampa ha offerto l’occasione di un’ampia rilettura di alcuni testi di una narratrice di singolari virtù, ingiustamente dimenticata non solo dal pubblico ma anche dalla storia letteraria del ’900.

Questa pubblicazione, che presenta la figura di Maria Messina con notizie sulla sua vita e sulle opere, rispondendo agli interessi di quanti la apprezzano e del mensile “Il Centro Storico” (promotore del Concorso a lei dedicato), intende rendere giustizia alla dignità e alla drammatica vicenda della scrittricevoce suggestiva e autentica della letteraura siciliana.

Lucio Bartolotta

La vita e la personalità di Maria Messina

Quel poco che conosciamo della scrittrice Maria Messina lo dobbiamo all’avventura umana e letteraria raccontata dalla nipote Annie (figlia del fratello Salvatore) nella introduzione alla riedizione di Piccoli gorghi, alla breve corrispondenza con Giovanni Verga (G. Garra Agosta, Un Idillio letterario inedito verghiano), che copre un arco dal 1909 al 1919, molto preziosa per la ricostruzione del profilo psicologico, al carteggio di modeste proporzioni con l’editore Bemporad (C. Pausini, Le briciole della letteratura) e a diverse proiezioni autobiografiche travasate nei suoi scritti e nascoste sotto il velo dell’impersonalità.

Il suo archivio, le sue carte, i libri e molte cose di famiglia, che potevano costituire documentazione per la ricostruzione della sua vicenda letteraria, andarono dispersi nel corso del bombardamento su Pistoia nel 1944.

Maria Messina nacque ad Alimena (Palermo) il 14 marzo 1887 da Gaetano, maestro elementare, e da Gaetana Valenza Traina, esponente di una famiglia baronale, originaria di Prizzi, “bella e facoltosa, distrutta da un cattivo vento di sfortuna” (lettera a Verga). Nella rappresentazione della vita della piccola borghesia alla quale lei apparteneva, attraverso forme occultate, la Messina accenna alla sua esperienza fatta di sofferenze segrete e alle ristrettezze economiche che dovevano essere “dignitosamente celate”. Come molte ragazze del tempo, non frequentò scuole ma ricevette una istruzione domestica sotto la guida della madre e del fratello, che incoraggiò la sua precoce vocazione letteraria. Da autodidatta di genio, le sue letture si indirizzarono probabilmente più alla narrativa recente (per es. Turghenev, che la Messina ricorda esplicitamente nella Casa nel vicolo) piuttosto che ai classici dei quali nella sua opera non si riscontrano tracce. A proposito della sua istruzione e della decadenza economica della famiglia materna un tempo socialmente elevata, veicolano contenuti autobiografici nella novella Mandorle: “E Bettina, trasognata, parve ascoltare la voce dei ricordi. Ricordi del tempo lontano, di quando studiava sola sola, con la guida d’una vecchia maestra, amica di casa, mentre tutti la canzonavano dandole della dottoressa. Stavano bene allora i genitori: Boscogrande non ancora venduto, tre libretti alla Cassa di Risparmio e niente paure di guerre, di epidemie, di miseria. “Ti pare che io ti lasci fare la maestrina!”, esclamava il padre, se la vedeva con un libro in mano. Maria condivise con l’unico fratello una prima giovinezza infeli ce, soprattutto per le incomprensioni tra i genitori, che ebbero delle ripercussioni sulla sua sensibilità di ragazza timida, chiusa e introversa.

“Di onesta e modesta fantasia, questa provinciale, aliena da pervertimenti sensuali, da smanie sentimentali e da ambizioni teoriche”, come scriverà G.A. Borgese, sentendo con novità l’ostinata malinconia della provincia povera, esordì molto giovane con due raccolte di novelle alla maniera verghiana, che le offrirono lo strumento per esprimere la pietà per una serie di personaggi travolti e sommersi nei “piccoli gorghi” delle umiliazioni patite e per testimoniare una realtà conosciuta sin dall’infanzia.

Maria Messina si inserì in un filone narrativo a cui avevano aderito Verga, Capuana, Pirandello, e i suoi lavori dalla fisionomia letteraria ben precisa, la portarono ad affacciarsi alla ribalta, a farsi un nome, a crearsi un successo di pubblico e di critica. Lasciata la Sicilia, la sua vocazione letteraria si nutrì dei ricordi dell’isola e alla produzione di novelle si intrecciò quella più complessa dei romanzi, unitamente ai testi per l’infanzia  Recensioni ai suoi libri apparvero su molte riviste qualificate.

Colma di una tenerezza inespressa, Maria era, come la ricorda la nipote Annie, “una giovane donna minuta con un visino pallido dai grandi occhi luminosi, incorniciato da una massa di fini capelli castani. La sua fragilità celava una forza d’animo non comune, la forza che le ci era voluta per denunciare, lei signorina di buona famiglia che avrebbe dovuto ignorare certe vergogne, quello che si celava dietro la facciata di case rispettabili, in cui la donna era tenuta in uno stato di soggezione prossimo alla schiavitù”. Maria, vivendo attraverso la scrittura, nella quale aveva trovato ragione di vita e di riscatto, si avviava alla conquista della fama nel mondo letterario e ad una soddisfacente serenità, ma, all’improvviso, su tutto quel fiorire di attività calò l’ombra nera della malattia: la sclerosi multipla.”L’alternarsi di speranze e disperazione, il pellegrinaggio da un clinico illustre all’altro, le incertezze delle diagnosi errate, fino a quella definitiva e terribile”. Il fratello, che l’aveva seguita con tanto affetto nei suoi esordi letterari, l’accompagnò con pena e angoscia nella sua lotta contro la malattia” (dai ricordi di Annie).

Dal carteggio di varia natura con l’editore Bemporad apprendiamo qualche particolare sulla salute e sul domicilio della scrittrice già dal 1924 a Firenze : “Le mie povere gambe si sono ancora più indebolite. Ella rammenterà con quanta fatica camminassi già l’anno passato. Ma lavoro molto, aspettando di stare meglio e credo di avere conchiuso qualcosa di buono” ( in C. Pausini, Le briciole della letteratura). Nel 1926 comunicava di essere andata in campagna, a Capostrada (Pistoia) con la mamma, aggiungendo che le sue povere gambe si rifiutavano a ripigliare forza, chiedendo il compenso della prima edizione di Storia di buoni zoccoli e di cattive scarpe, poiché la somma era diventata necessaria e urgente dopo avere sostenuto tante spese per la sua salute. Il suo ultimo intervento risale al novembre 1929 nella rubrica “Confidenze degli autori” sulla rivista “L’Italia che scrive”, mentre svaniva l’eco dei suoi successi e l’oblio cominciava ad avvolgere il suo nome. Negli anni Trenta, morti i genitori, viveva sola, con una infermiera, Vittoria Tagliaferri. Conducendo una vita chiusa e solitaria, parlerà di sé, ma attraverso forme non riconoscibili: “ci sono ore nella giovinezza in cui l’anima è così debole che non sa sopportare la solitudine. E la solitudine pare una creatura visibile; una creatura d’ incubo che ci prema il cuore con le sue mani aperte” (La casa nel vicolo). Dolorosamente sommersa in ancor giovane età nei silenzi dell’infermità e della solitudine, intristì come Una primavera senza sole, titolo di un suo romanzo. La terribile malattia, agli inizi non riconosciuta, progressivamente la portò alla perdita dell’uso di tutti i muscoli del corpo e le tolse la possibilità fisica di scrivere; interruppe quindi i contatti con varie riviste e con gli editori, sprofondando così nell’inattività e nell’isolamento.

Attingendo direttamente alla sua esperienza autobiografica, la Messina si riconosce nel personaggio di Franca (Un fiore che non fiorì), una delle figure femminili più tristi da lei descritte, che, affamata della sua parte di bene che non le è toccata, si riduce, disperata, a vivere in campagna, dove non vuole vedere più alcuno e dove diventa una “vinta” dal destino, moralmente e fisicamente, “Dottore, – disse Franca – non posso neanche lavorare. La mano si rifiuta, come se fosse senza muscoli. Come stanco e pesante è il suo gracile corpo! Voleva guarire, camminare, correre. Non c’è cosa più bella al mondo che quella di camminare sulle gambe che ci tengono eretti. Il suo avvenire era limitato e senza colore come l’orizzonte che la nebbia avvicinava sempre più. Il vecchio dottore Balsamini si accarezzava la barba, perplesso. Fenomeni nervosi – disse finalmente – Guarirai da sola, Non ti stancare”

Dopo quell’apertura luminosa durata una ventina d’anni, il destino si richiuse su di lei, non meno pateticamente di quello che accadeva a tante sue protagoniste povere d’amore e di affetto, dalle vite non vissute, come in fondo era stata la sua. Per non scoprirsi troppo, Maria Messina nasconde una dimensione autobiografica dietro lo schermo dell’impersonalità: “Sgomentata, vedeva con precisione la sua scialba vita di vecchia zitella … Gli anni avevano tutto sciupato senza rimedio lasciando fresco e intatto il suo cuore di vergine” (Rose rosse).

Nel romanzo Le pause della vita scriveva: “La sua dolce giovinezza finiva così a poco a poco, come certe giornate invernali in cui il mattino somiglia alla sera”. Dai ricordi della nipote Annie : “Alla sterile disperazione di un tempo era subentrata in lei, che pure era stata una tiepida credente, la serenità della rassegnazione cristiana, una fede profonda che non cercava più in questo mondo. Ricordo ancora come il suo visino patito, ma ancor bello si illuminasse per me di un sorriso, mentre io, tenendo tra le mie le sue mani inerti le parlavo dei miei sogni, delle mie speranze che pure erano state le sue”. Un riferimento autobiografico palpita nel suo romanzo La casa nel vicolo: “Ecco che le sventure erano passate sul capo del vecchio contadino e non per questo il suo sorriso aveva perduto l’infantile dolcezza e i suoi occhi la espressione rassegnata della fede”.

Nel tragico inverno del 1943, lasciandosi alle spalle le macerie di Pistoia distrutta dai bombardamenti, così bisognosa di cure, morì per i disagi dello sfollamento in una casa di contadini il primo gennaio del 1944 nella località di Masiano. Alla sua fedele infermiera che le fu sempre accanto dettò, prima di morire, I doni della vita, un documento di fede e di religiosità, una esperienza di sofferenza fisica e spirituale.

L’esordio letterario di Maria Messina,

segnato dalle novelle ambientate a Mistretta

II trasferimento del padre (estate 1903) portò Maria Messina da Palermo a Mistretta,dove rimase fino al 1909 con la famiglia, abitando in una casa di Via Paolo Insinga.

Dalle molte proiezioni autobiografiche travasate nei suoi scritti sotto il velo dell’impersonalità si intuisce il suo iniziale stato di disagio nella cittadina dei Nebrodi, che non viene nominata esplicitamente, ma molti dettagli permettono di identificarla. Nell’Ideale infranto, la Messina così scriveva: “La signora Sinighella, lontana da Palermo per la prima volta in vita sua, cercava di mantenersi legata a ogni parente, a ogni amica, scrivendo lunghe lettere e aspettando – con la premura di una fanciulla – brevi risposte che pareva le portassero un’eco della cara città lasciata a malincuore. Quel primo trasferimento le aveva procurato un senso d’inquietudine, poi che gli amici, fìngendo di compatirla, si erano divertiti a descrivere la noia e i disagi che l’aspettavano nel piccolo paese montano. – Non c’è neppure la luce elettrica! E non c’è neppure un cinematografo! – dicevano alcuni. – Le scuole finiscono con la terza ginnasiale e con la terza complementare! – informavano altri –. E la posta parte una volta al giorno! Forse neanche una volta! E giornali non ne giungono quasi mai! Si figuri! senza ferrovia, senza automobili! Però nel luminoso settembre d’oro la signora Cristina s’era messa in viaggio con la convinzione di compiere un sacrifìcio più grande delle sue forze; e turbata e triste si era lasciata portare dalla affannata diligenza su per lo stradale interminabile che, arrampicandosi fra i monti aguzzi pareva lasciarsi dietro ogni rumore di attività. E una volta in paese fu assalita dalla nostalgia. La vista delle straducce mezzo deserte, delle case a due piani, delle donne vestite in colori oscuri le riuscì intollerabile. Non si lamentò, ma pensò alla sua bella casa di Via Maqueda, come se non avesse dovuto rivederla mai più”.

Con la sensazione di sradicamento riportata nel distacco da Palermo, soffriva per il suo isolamento culturale e sociale che è adombrato in una novella ambientata a Mistretta (Sotto tutela), in cui una forestiera, “alta, ben fatta, dai capelli ricciuti”, in una fugace conversazione con Bobò, allo chalet, vicino alla cappelletta, mentre “guarda con l’occhialetto il mare lontano incassato tra i monti, esclama: “Bello questo panorama e bellissimo il paese. Peccato che siate tanti orsi. Le signore escon poco. Non c!è modo di fare conoscenza. Ci si annoia mortalmente. Ci fosse almeno una biblioteca, dei giornali! … Portatemi dei romanzi, se potete”. Maria Messina crebbe a Mistretta all’ombra della famiglia in un clima dominato dalle tensioni tra i genitori e dalle condizioni economiche non floride,, conducendo una vita semplice, appartata e priva di grandi emozioni se non di carattere letterario.

Immersa in un piccolo mondo popolato di gente povera e rivivendo i personaggi del Verga, cominciò i suoi esperimenti narrativi incoraggiati dal fratello, suo convinto sostenitore. Sono schizzi di vita quotidiana, dove confluisce una gamma di personaggi di umile statura, destinati ad essere sopraffatti,che nella realtà si aggiravano per le strade e per le campagne di Mistretta, come Raimù, Maralucia, la gna Pidda, Bobò, Carmela, la raccoglitrice di olive, Vastiana, la gna Ntonia, Munnino.

Nel narrare queste umili storie in un ambiente ritratto con finezza di intuito e lieve sobrietà di tocco,anche nei punti più drammmatici, Maria Messina, con una compassione venata di ribellione, denuncia l’avvilente schiavitù femminile e affronta diversi temi come quello classico (presso la narrativa siciliana) delle corna (Pettini fini), della gelosia (Janni lo storpio), dell’adulterio e della roba (Coglitora di olive, Il compagno, Le serenate), dei maltrattamenti (Munnino), dell’abuso sessuale (Il ricordo).

Definita dal Lipparini (Marzocco, 19 dicembre 1909) una “eccellente promessa”, la Messina nella rubrica Confidenze degli autori (“Italia che scrive”, dicembre 1919) dirà: “Pettini fini e Piccoli gorghi sono gli inseparabili compagni del mio primo passo; mi fa piacere ricordare, dopo tanti anni, queste novelle rapide e secche, pensate laggiù a Mistretta. Pagine concise e senza aggettivi: come la parola di chi vive profondamente una sua vita interiore, come la mia prima giovinezza che si temprava in solitudine.

La critica accolse Pettini fini e, poi, Piccoli gorghi con espressioni così lusinghiere da far girare la testa ad una esordiente. La buona accoglienza non fu, per me, se non motivo di sgomento: la mia anima solitaria tremò e si chiese più volte: saprò io mantenere le mie promesse?”.

Mistretta, territorio privilegiato nelle novelle di Maria Messina

Mistretta, paese ben conosciuto da Maria Messina per avervi abitato e la cui realtà ella aveva osservato per diretta esperienza di vita,diventa il casuale stendardo della Sicilia, con gli usi, i costumi, con i pregiudizi, con le contraddizioni e con i problemi di allora, quando famiglie intere durante le grandi ondate migratorie verso gli Eldoradi di Oltreoceano erano costrette a “passari lu mari”. A questo fenomeno così straripante, specialmente nelle regioni meridionali, di grande attualità, la Messina dedica tre accorate novelle in cui l’America, “paese dove si lavora e poi si muore”, non viene vista come un sogno e come una nuova opportunità di vita ma come una realtà tragica. Nelle immagini sull’emigrazione, che hanno tratti di forte intensità, Maria Messina insiste, soprattutto, sul tema della crisi della famiglia patriarcale, sulle strazianti separazioni, sulla solitudine e sullo scioglimento dei legami familiari . “Le vicine dicevano che la Merica non lascia più tornare alcuno, che il meglio della gioventù si consuma in quella terra sconosciuta e l’emigrante non rimpatria se non ha cent’onze per farsi una casa. Anche la sera della partenza egli volle parere allegro. Peppe e Cola vennero a prenderlo verso le otto e la gna Nunzia lo seguì per accompagnarlo fino a Cicè. Maredda, con gli occhi rossi, s’affacciò sulla finestra, a salutarlo, sporgendo un po’ la testa fra un basilico e una rosa” (Le scarpette).

Nella novella La Merica, “tutti partivano nel quartiere dell’Amarelli; non c’era casa che non piangesse. Pareva la guerra; e come quando c’è la guerra, le mogli restavan senza marito e le mamme senza figlioli. Chi poteva contarli? Partivan tutti e nelle case in lutto le donne restavano a piangere. Pure ognuno possedeva un pezzo di terra, una quota, la casa, pure ognuno partiva. E i meglio giovani del paese andavano a lavorare in quella terra incantata che se li tirava come una malafemmina. Ma la Merica, diceva la gna Maria “è un tarlo che rode, una malattia che s’attacca; come viene il tempo che uno si deve comprare la valigia, non c’è niente che lo tenga”.

In Nonna Lidda, un’anziana lavandaia alleva tra mille stenti il neonato affidatole dal figlio vedovo, emigrato. Dopo alcuni anni egli reclama il bambino e la donna reagisce con dolorosa sorpresa. “Richiedeva il piccolo come niente fosse. Scordandosi che se l’era cresciuto lei, povera vecchia, con la sua fatica, che gliel’aveva lasciato quant’un gattino! Non lo sapeva lui che schianto le dava, oh, figliolo disamorato! oh figliolo sciagurato!” Dopo la separazione dal bambino, nonna Lidda muore intontita “come un corpo senz’anima”.

L’attenzione artistica rivolta da Maria Messina a Mistretta e al suo paesaggio, sempre in sintonia con lo stato d’animo dei personaggi, favorisce la ricerca del tempo perduto, un respiro casalingo e il ritorno della memoria ad un mondo antico, dove la modestia governava le anime e le cose, e tutto era incontaminato. Mistretta, questo “paese acchiocciolato ai piedi del castello, con le sue casucce rossastre” acquista nelle pagine della Messina colori sepolti nei secoli delle sue pietre ed è l’eco nostalgica di un mondo semplice, bonario, fatto di voci, di suoni, di odori, che ci aiutano a trovare la sua anima vecchissima: “Certe volte nella notte, si sentiva un tremulo accordo di chitarre. Le sere d’estate, nel vicoletto, sedevan tutti a circolo coi vicini, discorrevano sotto il lampione e sempre era Melina che faceva sentire più alta fra tutte la sua voce dolce che pareva una musica” (Le serenate).

Nelle novelle Maria Messina ci fornisce un affresco ampio e vario del paese “dalle case piccole e affumicate appese alle falde del castello” che emerge nell’insieme di segni, di tracce, che ci parlano della gente che l’ha abitato e interpretato (“i miei buoni mistrettesi”), nell’insieme di strade e di vicoli: il quartiere di S. Caterina dove “Pettini Fini s’era fatto le clienti fisse che scendevano sulla porta ad acquistare roba”, la strada di Santo Nicola, “dove le donne stavan tutta la mattinata a calzettare all’ombra mentre i bimbi facevano il chiasso lontano”, il vicolo di Santa Maria, dove “sotto il cielo terso, fra le case come assonnate solo qualche lume brillava di tanto in tanto”, il Rosario, dove “la gna Vastiana andava come una spola da Santa Caterina”, il Calvario, luogo di incontro tra una signora e Bobò il quale “la trovava sempre più bella specie se la confrontava con le signorine del paese, dai visetti troppo pallidi o troppo coloriti”, il quartiere di Sant’ Antonio, dove “in un vicoletto Angelo e Mariangelina facevano il telegrafo, lui dal terrazzino di pietra sotto la pergola, lei dalla finestrella”, “la discesa del castello con i vicoletti scuri, dove Don Lillo strisciava lungo i muri ben noti”.

La Messina coglie anche l’animus dell’umile gente amastratina la cui devozione vive particolari momenti: “nella stanzetta rischiarata dalla lampada che ardeva sul comodino davanti l’immagine di S. Sebastiano, rimase soltanto Nele, inginocchiato a canto del letto tenendo tra le sue la mano del fratello” (Coglitora di olive). “Si mise a letto subito. La sorella costernata, sbigottita, mandò pe’l medico e accese una candela davanti l’immagine di S. Sebastiano” (La croce). “Nella piccola casa di ssù ‘Ntoni i giorni passavano pieni di malinconia. Non c’era festa né processione per le due donne; sempre casa e casa, la domenica in chiesa a pregar davanti l’altare di Santa Lucia” (La Merica). “La cameretta di Mariano era pronta con il quadro della Madonna dei Miracoli a capo del letto” (Il prete nuovo).

Una espressione molto importante della pietà popolare è rappresentata dalle processioni “tra il nero ondeggiamento delle mantelline e degli scapolari” e delle feste, come quella dei Giganti. Molti particolari sono fortemente caratterizzanti come il campanile della Matrice dove “si sarebbe arrampicata Caterina per amore di suo fratello”, “lo chalet mezzo deserto, dove gli alberi pareva mormorassero tristi cose”, come “i villani con la barba folta come le fratte di Treppiedi, avvolti in pelli di capra” oppure “i pecorai con i calzari di pelle che si ritirano alla chiusa spingendo i lunghi greggi con grida rare e brevi”.

Alcune notazioni di costume riguardano il “repito” (le grida e le lacrime con cui le donne accompagnavano la dipartita di un congiunto esaltandone le doti e le virtù), il “visito” (la visita di condoglianze per tre giorni) e il lutto che le donne portavano spesso per tutta la vita: “II suo viso pallido appariva sempre più triste; e triste era il vestito che portava già da tre anni per la morte di uno zio. Quel bruno non sarebbe riuscita a toglierlo mai, perché tra tanti vecchi parenti vicini e lontani, le toccava di rinnovarlo per una nuova morte, quando non aveva finito di portarlo per una recente” (Gli ospiti).

Le notazioni di costume, oltre a delineare l’ambiente in cui si svolgono le vicende, ci fanno riscoprire antichi sapori (la frittedda di fave, scattati, vucciddati) mestieri (il campiere, il merciaiolo ambulante, il venditore di uova che girava per le vie del paese con la panierina sotto il braccio), antichi oggetti come: il tramareddo, la scaletta di legno (grazie alla quale attraverso una botola, u cciettu, si accedeva al piano superiore), il macina caffè, la carrozza, il piccolo corno che il merciaio ambulante suonava per le strade, la lampada ad olio, il telaio, i pennini, il calamaio, i lampioni lungo le strade. Le usanze caratteristiche e le tradizioni locali riguardano la passeggiata sul ballatoio del Casino, la passeggiata lungo il Corso fino allo Chalet, la passeggiata per “i viali della villa (che lusso di fiori in ogni siepe)”, l’inguaggio (la promessa di matrimonio), festeggiato con vino e calia, le chiacchiere alla Società Operaia. Altri riferimenti ad usanze paesane, oltre che in Piccoli gorghi, si trovano nella novellistica per bambini, come le tavole imbandite per la festa di S. Giuseppe (I racconti dell’Avemmaria) e la fiera prima della festa di settembre (Personcine).

Maria Messina ci ricorda anche che a Mistretta morire non era uguale per tutti. Infatti, sulla differenza di trattamento leggiamo nella novella Oggi a me, domani a te: “Una sera, mentre eran seduti a prendere il fresco sul marciapiede, si sentì sonare una campana a morto, poi se ne sentì un’altra, poi un’altra ancora. Per sonar tutte, era segno che se n’era andato un ricco. Il doratore, calcandosi il berretto sugli orecchi, s’alzò per andare a domandarne al sacrestano della Matrice”. Alcune altre immagini hanno un valore documentario: la diligenza da S. Stefano, i fuochi al castello durante i giorni di festa, il pagamento del focatico, il cortile del convento dei frati di S. Domenico, S. Francesco (sinonimo di carcere perché attiguo alla Casa Circondariale): “Le vicine mormoravano: hanno portato Solo Pane a S. Francesco! … Pare abbia derubato un contadino per la festa dell’Assunta – chi se l’aspettava, con quella faccia da scemo?…”

Altri particolari ripristinano la memoria con un sapore di cose lontane, come “i ciottoli sui quali trabalzano i carri e il lastricato ineguale”, che sono i segni di un mondo intimamente nostro, testimoni accreditati della storia cittadina, che facevano parte integrante dell’ambiente. Il paesaggio amastratino che varia con l’alternarsi delle stagioni e si svela in tutte le parole e nei sentimenti dei personaggi acquista le sue trasparenze e i suoi splendori sia quando “durante un bel crepuscolo d’estate il cielo, tutto rosso e oro, accende i tetti delle case e a poco a poco tutta quella luce cade dietro le montagne e le case come assonnate si scolorano così che nel cuore scende una gran quiete” sia quando “in fondo alla valle bruna le casucce del paese, piccole, rossastre, un po’ gravate di nebbia sembrano stringersi l’una all’altra per essere più vicine” (da Piccoli gorghi).

Maria Messina , giovane e timida corrispondente di Giovanni Verga

Appena ventiduenne, conducendo una vita semplice e all’ombra della famiglia, si affacciò alla ribalta letteraria con una raccolta di novelle, Pettini fini, pubblicata nel 1909 dall’editore palermitano Sandron, di cui inviò da Ascoli Piceno, in visione, una copia a Giovanni Verga che aveva esercitato sempre su di lei un grande fascino umano ed artistico. Egli rispose con “parole piene di benevolenza” che infondevano “il coraggio di guardare avanti nel paese dei sogni e delle speranze” e mostrò simpatia, segnalando il nome della Messina a riviste (come l’inaccessibile “Nuova antologia”) e a molti editori. Iniziò così, a distanza, il dialogo epistolare (1909-1914) tra la piccola solitudine della scrittrice in erba e quella dell’ “illustre ed amatissimo maestro” ormai anziano, sentito da lei come una guida sicura, un “padre” da cui ricevere insegnamento e protezione, e al quale Maria aprì il suo animo rivelando ansie, timori e le incertezze di una piccola scrittrice di provincia, con poca esperienza della società: “Son vissuta sempre sola nella mia piccola famiglia; non sono andata neanche a scuola. I miei maestri sono stati mia madre, quand’ero piccola, e il mio unico ed amato fratello che mi ha additato un ideale. Son dunque vissuta sola, pur non sentendo bisogno d’alcuno, restando un po’ selvatica, un po’ estranea alla vita, pure osservando la vita”. Dopo l’invio della seconda raccolta di novelle dal titolo Piccoli gorghi (1911), ancora per i tipi dell’editore Remo Sandron, al “più grande artista siciliano”, le parole di Verga che salutarono il timido esordio con nobili e serene parole fecero “piangere di tenerezza” la giovane e timida Maria che così scrisse : “Ciò che desidero ardentemente è di vederla, di potere inchinarmi a lei e dirle il mio affetto riverente”. Parlando dei suoi umili personaggi, sfogava le sue amarezze: “Certo li ho amati come una madre ama le sue creature. Non ho sofferto i loro dolori, ma ho sofferto. La mia è una di quelle storie troppo semplici, ma è tanto triste quanto le storie che non si raccontano!”.

Nel quadro socio culturale politico, in cui la scrittura era una attività non riservata alle donne, Verga non nascondeva alla “piccola amica lontana” le difficoltà di farsi strada nel mondo letterario, dove ci volevano “buone gambe” e la Messina, isolata nella sua casa, fuori dai grandi movimenti del dibattito culturale, alternava entusiasmo e abbattimento, incontrando il rifiuto di un editore, l’incomprensione di qualche critico, la paura di perdere la stima del maestro al quale “sfogava le sue piccole pene”. Sentendo sempre più difficile continuare il suo “lavoro tormentato e tormentoso, lasciato e ripreso più volte in mezzo a scoramenti profondi”, la “piccola autrice di Pettini Fini” conoscerà “l’aspra dolorosa via che affina lo spirito pure spogliandolo d’ogni bella illusione”.

L’allontanamento dalla Sicilia, dovuto ai trasferimenti del padre, nominato Ispettore Scolastico, accentuò il suo isolamento e fece maturare in questa “siciliana di razza, di sentimenti e di nascita” la convinzione di essere “un povero uccello senza nido”. Lei scriverà al maestro: “Le buone parole che mi ha rivolto sono come scolpite nel mio cuore: la lettura di certe sue mirabili, immortali pagine mi ha ridato la fulgida e netta visione dell’arte vera”.

Durante la Prima Guerra Mondiale visse a Napoli un periodo di relativa tranquillità e benessere economico e cominciò a collaborare al “Corriere dei Piccoli” su cui appariranno racconti e romanzi a puntate.

Da qui scriverà a Verga, col quale ci sarà anche uno scambio di ritratti fotografici con dedica: “Le parole buone che mi ha detto mi hanno sostenuta nelle ore più amare. Il suo ritratto è stato il mio conforto”. A Napoli, dove lavorava con fasi di ripresa, la Messina si ammalò e la corrispondenza col Verga, che aveva dato un senso alla sua vita modesta, si fece sempre più rada fino a cessare del tutto. Il silenzio del “grande maestro”, dovuto probabilmente alla stanchezza che segnò i suoi ultimi anni, fece sprofondare Maria Messina, che aveva trovato una sua dimensione nei difficili ambienti letterari del suo tempo, in un grande dolore: “Ho sempre aspettato una sua parola e la pena che provo, l’insoddisfazione che non si cheta, vengono dal suo insolito silenzio. Ma ciò che mi rattrista più di tutti è il sentirmi abbandonata da lei che mi voleva bene, che aveva fede in me” (dall’ultima lettera a Verga, in Idillio letterario inedito verghiano). Dai ricordi della nipote: “Nelle lettere al maestro illustre si sente palpitare un sentimento che forse fu quanto ella conobbe di più vicino all’amore”.

Dalle novelle rusticane a quelle di ambientazione borghese

Nelle successive raccolte di novelle, Le briciole del destino (1918), Il guinzaglio (1921) e Ragazze siciliane (1921), il verismo di Maria Messina cominciò a spostarsi dal mondo rusticano dei ” vinti” all’analisi della piccola borghesia. I “vinti”, i quali “non posseggono la forza di offendere né quella di difendersi” sono le donne: sposate come donna Jemma (La porta chiusa), che vive in silenzio, isolata e segregata in casa dal marito, mentre l’andamento domestico è affidato alla serva, nubili come Rosalba (L’avventura), la cui triste fine del suo sogno si ripercuoterà negativamente sul suo rapporto con il mondo maschile, fanciulle come Lucia (Gli ospiti), che vivendo da sepolta viva nella casa paterna tra vecchi e malati, intravede la possibilità di una esistenza diversa, quando l’arrivo degli zii sconvolgerà la sua vita e le procurerà strani turbamenti, zitelle come Liboria (Rose rosse), con “la sua fresca giovinezza che non voleva morire”, che rimpiange la sua esistenza involontariamente sprecata. Esse sono relegate in piccoli “paesi chiusi e sperduti, dove l’abitudine segna un ritmo uguale, dove le novità e il rumore giungono tardi, come voci smorzate dalla distanza”. Qui vivono Camilla (Camilla), che contro la volontà della famiglia rifiuta un fidanzato che “la disprezzava come si disprezza l’acqua rimasta nel bicchiere”, Bettina (Mandorle), desiderosa che “la sua giovinezza non si dissecchi del tutto, inutilmente come una pianta sterile”, Caterina (Il telaio di Caterina), che rivedendo “l’immagine della sua innamorata giovinezza” accetta lo squallore e la solitudine “in mezzo a gente che non le vuole bene”. Parlano anch’esse “di desiderio di libertà, pur seguitando a camminare nelle vie tracciate dall’esperienza dei vecchi, sognando bimbi da cullare, una casetta da governare … Umili, onesti sogni che non osano raccontare” (“Congedo” in Ragazze siciliane).

Nelle novelle, dove le qualità essenziali delle donne sono obbedienza e sottomissione, emergono tutte le difficoltà dei rapporti familiari che invano si cerca di tenere nascosti alla curiosità dei vicini, come le incomprensioni, le gelosie, i tradimenti, che rendono penosa la vita quotidiana. Maria Messina, che imposta con sicurezza situazioni e ambienti, esamina con malinconia la vita degli umili nel natio ambiente siciliano con una non comune forza di analisi psicologica, scendendo nei più inconfessati angoli del cuore umano. L’oscuro destino delle sue donne, la cui tragicità della propria sorte sta nella propria debolezza, si proietta ambiguo nel futuro di Maria Angelina (Lo scialle), travolta dalla solitudine, dall’invidia e punita per la sua intraprendenza con cui ha osato la scalata sociale, si afferma inesorabile, dopo il dramma mancato, in Ciancianedda e si conclude doloroso in Vanna e nella sua rinuncia alla vita (Casa paterna). Nelle piccole vicende ordinarie e anonime, l’interesse di Maria Messina è rivolto al conflitto interiore, alla lotta interna tra bene e male, alla necessità di redenzione, alle tortuosità dell’animo, che costituiscono il centro della sua arte.

La sua opera che si propone quale documento esemplare di una realtà maschilista, oltre ad essere una denuncia della coercizione cui è sottoposta la donna, è anche una polemica nei confronti di una società sprofondata nell’immobilismo, che accetta passivamente tali drammi.

La novella capolavoro di Maria Messina: Casa paterna

Protagonista della novella è Vanna, una donna siciliana sposata ad un avvocato romano. Delusa e amareggiata, incapace di sopportare la solitudine e l’alienazione della grande città, decide di spezzare quel vincolo tornando alla casa paterna, centro di tutti i legami affettivi e di tutte le care memorie, “dove la sua giovinezza era sbocciata come un fiore”. Ben presto Vanna si rende conto che la sua famiglia non è disposta ad accettare la vergogna di quella separazione. Nella casa, dove tutto è cambiato, le relazioni non sono improntate alla sincerità e all’aiuto reciproco, ma alla diffidenza e all’interesse. Non accettata dal padre, una figura quasi inesistente, incompresa dalla madre che non aveva saputo inculcare nella figlia “quei sentimenti di sottomissione e di sacrificio, che sono le virtù principali di una donna’’ – è esclusa dall’intimità dei fratelli (Nenè la definisce “cervellino da romanzo”) e delle cognate, fisicamente forti e formose. “… Viola biondissima e Remigia castana; donne belle e fiorenti, dal seno colmo e dalla carnagione bianchissima, che le ispirarono subito soggezione perché lei era bruna e gracile”. E’ proprio la prosperità femminile, che Maria Messina vede come asse discriminante nel mondo delle donne.

Non rispettata nella gestione della sua volontà, accusata da tutti di “non avere buoni principi”, consapevole di non far parte della vita che vive il marito, Vanna, che si sente “una povera cosa buttata in un canto e una pupattola di cencio”, accolta nella casa paterna come “una straniera di passaggio”, sente che quel luogo è falso e ostile. Il desiderio di cambiare, di ribellarsi, rifluisce prima in una rassegnata accettazione di solitudine, poi in un proposito di liberazione. Naufragata l’illusione di rimanere nella casa paterna, non le rimane che sperare ancora nel marito. “Aspettandolo si sforzava di rammentarlo nei suoi momenti buoni, per trovare un po’ di fiducia nell’avvenire”. Il problema della sua vita di “donna non integrata” è totale, cosi fugge, forse si suicida. Sembra di leggere il suo dissolvimento nella scena finale, in riva al mare, con il vento che le sfiora i capelli e un fiotto d’acqua che le sfiora i piedi e sembra volerla attirare per sempre nel principio materno dell’acqua. In Casa paterna, Vanna è il compendio di tutte quelle figure femminili chiuse in un ruolo prestabilito, ancorate ad un sistema di vita, codificato dagli usi e dai costumi di una società miope, che non vuole cambiamenti, e la cui unica preoccupazione è il decoro.

La novella è la storia della sconfitta di una “fuori posto” sia nella casa del marito sia in quella del padre, è la storia di una “vinta”.

Maria Messina: La miseria decente nella piccola borghesia siciliana

A poco più di venti anni, Maria Messina, nata da una famiglia della piccola borghesìa, comincia a scrivere le sue novelle. Non ha altra esperienza della vita se non quella che le viene dall’osservare con occhi precoci il chiuso ambiente della provincia siciliana in cui vive. Grazie alla sua sensibilità fuori dal comune, la Messina, con particolare efficacia, mette a fuoco il mondo dei “decaduti”, dei piccoli proprietari, dei mediocri professionisti, dei modesti impiegati, dimessi e avviliti, che trascinano una esistenza monotona e grigia, intessuta di rinunzie, di rimpianti, di sogni spenti, di solitudine, e segnata da carenze affettive, dove la quotidianità è avvilita dalla “miseria dignitosamente celata, inguaribile”, e dove si preferisce la fame al disdoro: “Una mattina la fornaia avvolse due pagnotte invece di una. L’avvocato non aveva che due soldi in tasca e arrossì: – Ne ho chiesto una soltanto . Sa … noi mangiamo poco … Avanzerebbe … Lo porti alla signorina. E’ fresco … è ancora caldo. Arrossì l’avvocato; diventò paonazzo, ma abbassò gli occhi e ringraziò, avviandosi traballando penosamente sulle magre gambe, come se gli avessero dato uno schiaffo” (Ti Nesciu). Occhio partecipe della vita della piccola borghesia, sempre con l’anima rosa dal tarlo di una incessante cura economica, Maria Messina con tono cechoviano descrive quella sofferenza esistenziale e quella malinconia presenti in un mondo che non vive di splendori,chiuso nel proprio egoismo e refrattario ad ogni mutamento. Dietro la facciata di case rispettabili, la miseria, sentita come un destino ineluttabile, viene nascosta ai fini di una parvenza di decoro, e anche lo status sociale è fissato attraverso il riferimento insistente al vestiario. “Un impiegato è agli occhi dei ricchi un essere spregevole. Se si veste bene, se si cambiano molti vestiti, se si spende molto, le porte dei salotti e le porte del Circolo dei Nobili si spalancano. La giovinezza è una cosa amara quando si è poveri”. (Alla deriva). Affinchè non si notino gli abiti logori che indossa, Liboria, figlia dell’avvocato Scialabba, preferisce passeggiare lungo il corso di sera “alla luce incerta dei lampioni e abbassa gli occhi e impallidisce sol quando vede passarsi accanto le signorine Saitta o la baronessa Caramagna, le quali, allor che uscivano col cappello, pareva riempissero la strada” (Ti Nesciu).

Nell’ambito della piccola borghesia, angustiata da necessità economiche, da pregiudizi meschini e da una falsa idea del decoro, dove le piccole pene di ogni giorno si perdono nel silenzio”, Maria Messina tesse storie che hanno per protagonisti, soprattutto, figure di donne, destinate ad appassire nella stretta dell’abitudine della vita di provincia. Prive di qualsiasi autonomia, esse sono prigioniere delle leggi patriarcali che le condannano al matrimonio per motivi di convenienza economica e delle assurdità di certe convenzioni sociali. La decadenza del ceto borghese, che si manifesta dietro l’apparenza di un benessere fittizio, viene esemplificata ne La signorina. Carmela, una ragazza di famiglia nobile e dissestata, “nipote del barone Ruda che ai suoi tempi teneva il paese in pugno vive con la madre che pareva campare di orgoglio e di ricordi”. Non lavora come maestra, vocazione soffocata dal disdegno del padre, perché una nobile non può dichiarare il bisogno di lavorare e “sta china tutto il giorno per qualche fine ricamo che la fedele Anna Rosa andava a vendere alle baronessine Fichera o a qualche figlia di burgisi senza rivelare il nome della ricamatrice. Ma Carmela doveva lavorare di nascosto alla gente e nascondeva il ricamo dietro un cuscino, dentro un cassetto, se venivano visite. E come nascondeva i ricami, così Carmela soffocava nel cuore un ardente bisogno di darsi liberamente a una occupazione che potesse offrire al suo spirito irrequieto qualche soddisfazione e uno scopo alla sua vita di zitella”. Sullo sfondo de L’ora che passa si agita il piccolo mondo impiegatizio: una maestrina sacrifica l’intera giovinezza alla famiglia che reclama il sostegno economico del suo stipendio perché continuamente ossessionata dalle spese per le necessità della casa e per salvare la faccia di fronte alla comunità cui appartiene.

I tentativi di ribellione di Rosalia non trovano sfogo all’esterno ma si consumano dentro: “sentiva un vuoto intorno a sé, come uno che ha perduto qualcosa di vitale; e quand’era chiusa nella scuola, la prendeva con violenza un’ardente, insaziabile voglia dell’aria libera, del cielo aperto”.

Nei suoi risvolti psicologici e sociali, Maria Messina analizza il dramma della miseria e della condizione esistenziale limitativa: “Le sorelle Fiorillo pensavano che l’inverno era cominciato e la miseria avrebbe picchiato all’uscio. Altro che andare a Catania! La serva l’avevano licenziata; vesti per l’inverno non se ne facevano; a tavola si mangiava solo la minestra; … Non bastava. Quando non si può non si deve. Se loro tre non avevano mai fatto cattive figure, se erano stimate da ognuno, ricevute nelle migliori case, come al tempo che era vivo il padre, lo dovevano solo all’accortezza e all’economia di Marianna” (Mandorle). Maria Messina con struggente malinconia ritrae le figure femminili, dove palpitano una risonanza autobiografica e una implicita volontà di denuncia del costume arretrato della provincia siciliana, dell’arcaica società piccolo borghese del primo scorcio del Novecento, chiusa nel cerchio di un perbenismo patetico, e definita nella novella, Mandorle, “un mondo di meschine ambizioni, di falso orgoglio, di piccole relazioni sociali tra gente piccina e vanitosa, mondo di cartapesta, mondo di burattini”.

Maria Messina: da “scolara del Verga” per G.A. Borgese

ad una “Mansfield siciliana” per L. Sciascia

Negli anni in cui l’opera di Giovanni Verga era ampiamente trascurata, Maria Messina, ignorando altri modelli letterari in voga all’inizio del ’900, recuperò in superfìcie il modello dello scrittore catanese che per lei “aveva colto il meglio e il più dell’anima siciliana nelle sue mirabili e immortali pagine dando vita alle meravigliose creature della nostra Sicilia”.

A Verga la legavano una affinità di sentimenti, la fedeltà ad un mondo ben conosciuto, i tratti scritturali, le tecniche e lo stile. Le reminiscenze verghiane sono più rintracciabili nei racconti dell’esordio, ritratto lucido della desolata vita degli umili nella loro incessante fatica, battuti dalla miseria e dall’ossessione della “roba”, degli emarginati, degli emigranti. Benché le vicende risultino differenti, emergono evidenti richiami nella coppia Janni-Maralucia, che fa riscontro a quella di Jeli e Mara, nella storia di Burgio che ricalca quella di Mastro don Gesualdo, in Vastiana che mostra affinità con Nedda, in Munnino che ricorda Ranocchio, in Luciuzza che nella sequenza narrativa di apertura ripete quella del racconto Gli orfani. Di ascendenza verghiana sono anche La nicchia vuota in cui il tema della rivalità tra monache e frati per il possesso di una statua di S. Giuseppe ricorda quello della rissa tra paesani in Guerra di santi e Rancore in cui il rude massaro Janni, come Mastro don Gesualdo, non perdona la figlia e chi si voleva prendere la roba a tradimento. G.A. Borgese che riconobbe Maria Messina “scolara del Verga” così scriveva: “Non sarebbe nemmen giusto dire ch’ella abbia comune col Verga solo la materia del racconto e il metodo verista. V’è anche un’onestà d’arte che la fa degna del modello.La vita siciliana quale essa la espone, non ha né pompa di paesaggio, né drammaticità sanguinaria. E’ tutta in tono minore.”Col passare del tempo, non appena la Messina si distacca dal punto di partenza, cioè, dal legame di fedeltà a Verga, nella sua arte narrativa si delinea una certa autonomia, quando il suo verismo, acquistando morbidezze particolari, si orienta verso il racconto in cui non contano tanto i fatti quanto la loro risonanza nell’animo femminile.

La Messina, perseguendo vie autonome e originali, concentra la sua attenzione sulla sommessa vita interiore del piccolo mondo borghese ossessionato dalle apparenze e dal decoro, esaminando la condizione delle donne in un destino di solitudine, di marginalità e di oppressione; esse non hanno atteggiamenti di fatale rassegnazione, come i “vinti” del Verga, ma di malinconica accettazione della sofferenza e della subordinazione in una società maschilista, dove la povertà è complice della loro emarginazione che soffoca ogni possibilità di riscatto. Per la Messina è decisamente più autentico il modesto squallore nella piccola borghesia di paese anziché i brevi episodi di vita contadina. Molti elementi di notevole importanza la distingueranno dal Verga: la nitida e sottile tendenza all’indagine psicologica delle figure femminili, la rappresentazione della natura dove viene sottolineata la solitudine dell’uomo, una scrittura sobria, aliena dai grandi effetti,con un tono sommesso e dimesso. Maria Messina appare lontana dal canone verista dell’impassibilità dell’autore: in lei non ci sono né la descrizione distaccata, né il guardare il mondo che va e raccontarlo, ma la partecipazione in prima persona agli eventi e la immedesimazione con i personaggi, soprattutto femminili, nell’ombra dei quali, rivivendo l’inquietudine, l’isolamento e l’infelicità, trapela la solidarietà della scrittrice sotto lo schermo dell’impersonalità. Le particolari atmosfere che troviamo nelle sue pagine consistono in una nascosta vena sentimentale, nella sofferenza del silenzio obbligato (che è al centro della sua opera), nelle attese vane, nei soffocati drammi di sogni spenti; nei rimpianti cocenti, in quei “lenti e sbadiglianti finali”, dove si esprime una vita sonnolenta. Le frustrazioni e le restrizioni si concretizzano in immagini-simbolo, quali la “tetra casa”, il vicolo, il “baglio”, la casa-pensione, dove ognuno vive per conto proprio in mezzo a disagi e a silenzi, il “corridoio di cielo tra due file di tetti vicini”.

A differenza delle grandiose scenografie verghiane, la Messina non ama i colori accesi, ha piuttosto il gusto pittorico dei crepuscolari, con tonalità grigie e sbiadite. Infatti, nelle sue pagine gravano sempre un “cielo basso e scolorato, nubi chiare, una luce incerta che rischiara il cielo, una smorta luce del crepuscolo”, e la memoria di sole e di aria emerge solo in qualche palpito.

La Messina riserva un’attenzione particolare alla sfera sessuale: scandaglia i fremiti fisicamente percepiti attraverso i linguaggi del corpo (rossori, palpitazioni, sguardi, sorrisi, voci, “espressioni stralunate” e scava nelle parole per dare voce a gesti appena percettibili, alle emozioni, ai desideri, esprimendo così inquietudini, delusioni, gioia.

Leonardo Sciascia che apprezzava in Maria Messina l’originalità del suo verismo “in tono minore”, in questo mondo a cui “non resta più dolore ma solo una pacata malinconia”, le riconosceva la grazia di “una Mansfield siciliana”. Egli accostava la Messina alla scrittrice inglese del primo Novecento, anche lei autodidatta e rivalutata in tempi recenti per i suoi racconti di impronta realistica, per la stessa attenzione rivolta ad aspetti di quotidianità, per la condizione e per gli stati d’animo del mondo femminile, per le situazioni che si svolgevano in spazi limitati come l’ambiente domestico e, infine, per la sofferenza che affliggeva il loro corpo.

Pur nell’impersonalità del racconto, Maria Messina, con una sensibilità delicata, porta alla luce le problematiche femminili, le restrizioni sociali, con la implicita denuncia della mancanza di un riconoscimento umano e sociale alla donna nel primo scorcio del ’900, parlando per chi nella vita non ha la possibilità di parlare, esprimendo la malinconia e la pietà per tutte le esistenze calpestate in una precisa situazione storica e politica, che sembra negare ogni possibilità di cambiamento.

I Romanzi

Maria Messina intorno agli anni ’20 approdava alla narrativa di più ampio respiro con i romanzi i cui titoli Alla deriva, La casa nel vicolo, Primavera senza sole, Le pause della vita, Un fiore che non fiorì, L’amore negato sono metafore di una condizione umana, in prevalenza femminile, immobile e priva di speranze.

L’ambiente dei romanzi è ancora quello della piccola e media borghesia nel clima della città di provincia, che “raduna tutti i disagi morali di un villaggio e le ricercatezze materiali delle capitali”. L’orizzonte geografico si sposta nel Continente, mentre alla Sicilia viene riservato uno spazio sempre più marginale, filtrato attraverso i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. Anche in un contesto più ampio come quello dei romanzi, Maria Messina ricrea i personaggi nella consueta pena del vivere, che soffoca silenziosamente sogni e speranze, e proietta in primo piano il tema della subordinazione della donna in una società maschilista.

Tra i romanzi, espressi con straordinaria sobrietà di mezzi, due in particolare, dal ritmo serrato e compatto, rappresentano le sue prove più alte di arte narrativa: sono quelli ristampati dalla Casa Editrice Sellerio, LA CASA NEL VICOLO, il più acclamato dalla critica di ieri e di oggi, e L’AMORE NEGATO, apprezzato soprattutto in tempi recenti.

La casa nel vicolo

Nella casa silenziosa che si affaccia su un vicolo “fondo e cupo come un pozzo vuoto”, Maria Messina per un lungo arco di tempo segue la squallida esistenza di due sorelle, che si consuma nella mortificazione della loro personalità e nell’asservimento a Don Lucio, marito di Antonietta (“povera cosa senza volontà”) e cognato di Nicolina (“già vecchia senza aver vissuto la sua parte di vita”). La forza e la volontà di questo sovrano incontrastato di una piccola comunità familiare siciliana, gravano sulle cose e sulle anime silenziosamente. Egli considera la famiglia una proprietà da governare secondo le sue regole. Tutto è metodicamente stabilito, tutto è preveduto in un rituale assurdo, predisposto per la sua tranquillità, sfruttando la devozione della moglie “dal temperamento docile e mansueto, fatto per essere plasmato come l’argilla fresca”, ma anche la docilità della cognata. Ambedue, pur vivendo infelicemente, riconoscono per ancestrale accettazione la superiorità del maschio e passano i loro giorni nell’aria chiusa della Casa nel vicolo, avvolta da un profondo senso di mistero e di tristezza. Nicolina, la cognata, subirà senza reagire la seduzione di Don Lucio, ma la tenerezza iniziale ben presto si trasformerà in “orrore e ribrezzo” e le resteranno i pensieri amari e un “nodo di lacrime che non ci riesce di piangere”.

La relazione incestuosa tra Don Lucio e la cognata “sposa senza anello e senza sposo” si iscrive come un elemento ineludibile nella logica del possesso del maschio cui tutto è dovuto. I rapporti tra le due sorelle, inizialmente di grande affetto, si deteriorano in modo irrimediabile fino all’odio aspro e cupo, vissuto come “castigo”. Dopo la scoperta della tresca, Antonietta intima alla sorella di lasciare la casa. L’autodifesa di Nicolina è incentrata sulla sessualità femminile: “Tu mi hai rovinata. E ora mi vorresti scacciare? Non me ne andrò. Ho sciupato qui la mia giovinezza fresca e spensierata, come un velo che si butti su una siepe di spini.Tu mi hai messa in bocca al lupo. Intorpidita dall’egoismo mi lasciavi sola, giornate intere, per servirlo. E non pensavi ch’io ero una povera creatura fatta di carne, come te? Perché gli dovevi voler bene tu sola? Non potevo sentire allora, ora no! ora non più! ora non più! quel che sentivi tu? Anche più fortemente di te? Non ci pensavi? E se ci pensavi,non eri più snaturata della più snaturata femmina? Andarmene! Come un cencio logoro che non serve più! Come un limone spremuto che si butta in mezzo alla strada!” Le donne sono “due colpevoli chiuse nella stessa gabbia”. E’ una famiglia incapace di comprendersi e di amarsi a vicenda; ognuno è chiuso in una sua gelida armatura di egoismo e ognuno considera l’altro suo nemico. L’unico ad osteggiare la tirannica autorità paterna è il figlio adolescente, Alessio, sensibile e sognatore il quale ha intuito “l’oscura colpa della zia” e soffre un grande disagio: “il suo piccolo cuore era gonfio di pietà verso la madre, di pietà verso la zia” e alla pietà sono improntate le ultime sue parole rivolte alla madre: “perdoni alla zia. Ha sofferto la sua parte”. Per lui che fin dall’infanzia “pareva che camminasse sulla terra guardato dalla morte”, l’unica forma di ribellione possibile sarà il suicidio. Le due sorelle “nemiche” risentiranno in modo terribile dell’accaduto, mentre Don Lucio senza alcun rimorso o rimpianto per il figlio considerato “un debole e un vinto” si preoccuperà che il fatto atroce non gli faccia perdere onorabilità agli occhi della gente. Perché le figlie non gli possano sfuggire non le manderà più dalle monache: per formarle lui: “docili, semplici, ignoranti, senza desideri, come debbono essere le donne”. Antonietta perderà la sua integrità mentale e si autoconfinerà nella sua stanza, ignorando perfino le due figliolette minori, mentre Nicolina sostituirà la sorella nella conduzione domestica, ma con l’espressione di “chi adempie un obbligo increscioso”. Le “sorelle nemiche” si sentiranno accomunate dalla sofferenza e dalla compassione reciproca: ” i loro cuori erano riboccanti dello stesso sentimento di pietà … poiché erano state tutte e due ingannate dalla vita”. Così tutto ridiventa tranquillo nel silenzio di prima sotto il peso di quell’ombra grigia e umida che fascia la casa nel vicolo, “vecchia nave che marcisce nel porto, piena di viaggiatori che non hanno mai veduto l’ampio orizzonte”.

L’amore negato

La vicenda si svolge ad Ascoli Piceno nell’ambito della piccola borghesia segnata da difficoltà materiali e da carenze affettive. Due sorelle, tristi della loro solitudine, cresciute tra un padre vecchio e malato, una madre soverchiata dai dolori e dalle disgrazie e un fratello ritardato, consumano la loro sconfitta. Nessuna delle due incontrerà quella felicità che si identifica con l’amore, negato da un destino beffardo. Di caratteri opposti, Miriam, dolce e sottomessa, Severa, battagliera e aggressiva,di diversi sentimenti e aspirazioni, esse si trattano con rancore e diffidenza.

Miriam, generosa e sognatrice, è convinta di dover raggiungere uno scopo, di essere necessaria a qualcuno e offrire il suo bene a qualche altra creatura, quel “bene che ella portava con sé, come una piccola fiamma che nessuno può spegnere, come un tesoro che nessuno può distruggere”. Miriam considera il matrimonio come il compimento del proprio destino: “Come deve essere felice la sposa! Quale giorno è più bello di quello, nella vita? Che importa se dopo ci tocca patire? E’ destino che dobbiamo portare una croce; ma è piacevole poter posare la croce, per un giorno, e sentirci felici!”. Nella quieta sopportazione di rinunce e sacrifici, Miriam sa assopire anche il ricordo del suo amore per Gaddi, un giovane studente che aveva avuto per lei solo il capriccio di una gita in collina. “Pensava a lui con pacato rimpianto, come a una gioia che l’avesse sfiorata di lontano, per lasciarle una segreta dolcezza, dentro l’anima chiusa”. Messe da parte le fantasie matrimoniali, si trasferisce a Torino al servizio di una nobildonna, per provvedere anche ai suoi. Severa, invece,che non ha potuto terminare gli studi, intraprendente e ambiziosa, ribellandosi al suo destino di povertà, dirà: “Io la piegherò questa sorte! Io non mi lascerò sopraffare come te, come nostra madre, come tante che conosco e non mi fanno pietà!”. Scontrosa e dura, guidata da un egoismo arcigno, procurandosi i capitali necessari, cerca di costruirsi un lavoro come modista. Fa di tutto per riscattarsi dalla sua condizione di miseria scavalcando i confini sociali e sfidando la società conformista della provincia, suscitando gelosie nelle rivali: “La invidiavano perché sapeva essere sola e non aveva bisogno di nessuno. Esse sentivano la sua forza e la invidiavano”. Raggiunta l’agiatezza economica grazie al suo avviato atelier, rifiuterà la sua stessa famiglia, trascurando la madre angosciata per la perdita del figlio annegato per disgrazia in un fiume. Un orgoglio determinato la fa lottare contro il disprezzo e l’ipocrisia delle ricche clienti, una vitale voglia di vivere la fa innamorare senza pudore e vergogna di un giovane studente squattrinato che gestisce la contabilità della sua piccola azienda, e al quale Severa elargisce spontaneamente molto denaro. In seguito, tradita dal giovane che sposerà una ragazza dell’alta borghesia, urlerà: “io avevo diritto alla felicità!”. Nel pentimento, nella solitudine e nella follia della sua sconfitta, si ritira in una casetta di periferia. Stanca e disillusa, dopo l’effimero successo del suo atelier e dopo il fallimento sentimentale, vinta anche la sua tempra di crudele egoista, sentirà di più la sua sconfitta sul piano economico e sociale, quando vedrà che Miriam è riuscita a conquistarsi la sua indipendenza economica lavorando in fabbrica come operaia. Allora, rientrerà nella famiglia per avere la protezione dell’amore della madre, ma capisce di essere una “fuori posto” in quella casa dove “c’era una gran pace. Ma quella pace non era la sua pace”. Priva di amici, di affetti, con il suo inutile orgoglio, con il “suo cuore che era piccolo e diventava più pesante del bronzo”, va alla ricerca dell’amore materno da tanti anni da lei negato e si autocondanna alla solitudine nonostante la grande afflizione della madre che vorrebbe “calmare il suo cuore come quando era piccola e la teneva in braccia”. Dietro la solitudine si intravede in lei l’ombra della follia. Allora, cercherà di conquistare l’amicizia dei bambini del vicinato, alla quale guarda con tenerezza, nel rimpianto di un’esistenza diversa: “E’ bello fare amicizia coi bambini. Lei non aveva saputo guardare con simpatia le piccole cose buone che s’incontrano ad ogni passo. Ma ecco, noi ci accorgiamo di avere camminato con gli occhi chiusi quando ci fermiamo, stanchi da non sapere più ripigliare il cammino”.

La produzione narrativa per l’infanzia

La produzione di Maria Messina, fine osservatrice dell’infanzia, diffusa attraverso periodici, riviste e bibliotechine di classe, comprende narrazioni fantastiche (I racconti di Cismè, I figli dell’uomo sapiente), con i loro sortilegi e incantesimi, i cui modelli sono Luigi Capuana e Giovanni Pitrè, novelle di ambientazione borghese e di stampo realistico (Personcine, I racconti dell’Avemmaria), ispirate ad un senso profondo della vita come realtà morale. Nei romanzetti (Cenerella, Il giardino dei grigoli, Storia di buoni zoccoli e di cattive scarpe), senza grandi vicende, ma pieni di bontà e di tenerezza, illuminati di coraggio e di fede, vengono esaltati certi valori fondamentali come l’unione familiare, la Patria, il lavoro onesto e la verità. I lavori, dalla funzione educatrice, espressi con meravigliosa sobrietà, che vibrano di umanità e di un forte spirito nazionalistico, uniscono alla nobiltà dei testi l’eleganza e la ricchezza delle illustrazioni di autori come Enrico Novelli, più noto con lo pseudonimo di Yambo, dal segno scanzonato,dalla fantasiosa ironia e dalle sfumature irreali, Fabio Fabbi, dal bozzettismo rapido e vivace, illustratore anche dei romanzi di E. Salgari, e Attilio Mussino, popolarissimo presso l’infanzia, la cui brillante interpretazione grafica lo portò a collaborare anche con il Corriere dei Piccoli e con l’editore Bemporad per le illustrazioni di Pinocchio.

Maria Messina penetra con delicatezza nel mondo dell’infanzia, debole, dimenticato ed esposto come quello femminile alle violenze e ai sorprusi. I suoi personaggi indimenticabili, molto umani e portatori di una solitudine inguaribile, sono vittime di un destino oscuro di infelicità, come Munnino, povero pastorello sfruttato che, malato di malaria, muore tristemente come “il cane spelacchiato della fontana” e come Luciuzza, la dolcissima e incompresa piccola orfana, senza affetti, gracile, che vive in un rozzo ambiente contadino, dove la zia e la nonna lavorano duramente e sono abituate ad essere forti “come uomini”. L’unico conforto alla sua solitudine è una “pupa”. La bambina alla quale piace sognare, dal suo rifugio segreto, che è l’abbaino, si sente più vicina al cielo, dove c’è la sua mamma e dove spera di andare presto. Stremata dalla fatica a cui è costretta si ammala gravemente e si avvia silenziosamente alla morte, tremando di non potere entrare in paradiso con la sua bambola.

Una grande prova dell’arte di Maria Messina: Cenerella

L’emigrazione e la Prima Guerra Mondiale costituiscono i due temi fondamentali del romanzo di impianto realista, uscito a puntate nel corso del 1917 ed edito in volume successivamente. La protagonista è la piccola Santina (dai suoi chiamata Cinniredda), trascinata da vicende che somigliano a quelle di molte vite. Abbandonato il paesino siciliano di Alcara, non può seguire la madre e le sorelle in America perché viene scartata durante la visita medica per una malattia agli occhi per avere troppo pianto. L’idea che si aveva dell’America negli anni ’20 la ritroviamo nel romanzo, dove Maria Messina ci fa seguire le tristi giornate degli emigranti, il loro sradicamento, l’abbandono della propria casa, degli amici, la vendita delle terre e il dubbio del domani: “Cinniredda soffocò un piccolo singhiozzo, nel suo cantuccio. La parola emigrante suonava alle sue orecchie come una specie d’insulto. Essa rammentava di aver veduto partire gli emigranti, una sera. Un gruppo di uomini avanti, cogli scialli al collo, e poi le donne e i bambini vestiti a festa, dietro in processione. E poi un gran pianto di quelli che li accompagnavano fino a Sant’Agata. Triste parola, emigrante. Gente che non sa più vivere nel paese dove nacque, che la miseria o il dolore caccia lontano, verso luoghi ignoti. Erano anch’esse emigranti. Certo. Anch’esse vendevano la terra e mettevano della roba nelle valigie. E domani si sarebbero avviate anch’esse: e gli amici e i parenti le avrebbero accompagnate, col cuore stretto dalla pietà, come si accompagnano i morti”. Accolta a Napoli in casa di un lontano zio, subirà in qualità di ospite indesiderata umiliazioni e maltrattamenti dalle cugine e sopporterà la tirannia della matrigna dello zio, che è austriaca, e che Cenerella sfida tante volte difendendo il valore dei soldati italiani. La povera bambina che svolge in casa i lavori domestici sognando il ritorno del fratello maggiore, Domenico, caduto in mano agli austriaci, vive la tragica e gloriosa realtà della guerra e si esalta un giorno al passaggio dei bersaglieri che cantano l’inno nazionale: “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta. Fratelli, sì, veramente. Sentiva di amarli tutti, quei bersaglieri che passavano, come amava Domenico. Essi offrivano la loro giovane vita, il forte cuore, alla Patria, per difenderla … C’erano dei garofani sulla tavola: quelli del venerdì che aspettavano di essere disposti nei vasi in salotto. Cenerella afferrò il mazzo e lo lanciò fuori; mentre i rossi fiori si sparpagliavano nell’aria, prima di cadere, mormorò piano, con le mani giunte, come se pregasse: – O Italia! Italia bella ! Evviva”. Quando Domenico, il bravo soldato devoto alla Patria, tornerà dalla prigionia, mutilato, ricondurrà la sorella, affinata nel sentimento del dolore, nella vecchia casa di Alcara, dove gli farà da infermiera e dove saranno raggiunti dalla madre “invecchiata coi capelli bianchi e un lieve tremito nella testa”, per ricostruire il loro futuro.

Il linguaggio di Maria Messina

Le novelle, dove si esprime maggiormente il suo talento, rimangono il genere più consono al suo stile essenziale, disadorno, alieno da inutili compiacimenti descrittivi, dai costrutti sintattici complessi e troppo elaborati, a vantaggio di un periodare breve, asciutto, ma vibrante di intensa emozione. Il linguaggio, strutturato sul modello della conversazione semplice e familiare, è ricco di immagini tratte dal mondo delle esperienze più vicine alla vita di tutti, di similitudini di tono realistico, ispirati alla condizione culturale e all’ambiente dei personaggi, spesso di matrice verghiana (“Don Lucio poteva fare il sole e il maltempo come il Padreterno”, “Donna Santa era piantata in mezzo alle tribolazioni come Cristo in croce”). Il linguaggio è vivo perché frequentemente attraversato da interiezioni, formule proverbiali che esprimono con la loro antica saggezza la concezione dominante del mondo agricolo, dell’immobilismo naturale e sociale, della ripetitività dei gesti e delle azioni: “il povero e il malato è scacciato dal parentado, il sangue non è acqua, gli affari e il sentimento non camminano assieme, essere rimasto come un ramo senza foglie, restavano uniti tutti assieme come i chicchi di uno stesso grappolo”.

Per caratterizzare il discorso della gente di bassa estrazione sociale, oltre alle espressioni dialettali, rientrano nel colore locale le sgrammaticature gergali: “Loro si accanivano ad amareggiargli la vita con le piccole angustie, gli sciocchi timori con che le donne s’infrascano la testa. Ci sono momenti nella vita, che la sorte ci manda in faccia un vento cattivo”. Il disagio dei personaggi viene reso con una scrittura nervosa, continuamente franta con frasi brevi, intercalate da lunghe pause, proposizioni esclamative, e dal pleonasmo pronominale (“A te ti piace con le sue arie da superdonna”). I silenzi, i sottintesi e il conflitto interiore sono sottolineati dai puntini di sospensione, che troncano i racconti che veramente non finiscono mai di raccontare. Spesso, un periodo non ha neppure tanta forza di arrivare alla fine: “Lei non aveva osato scrivergli, e poi … Dopo tutto …” (Le pause della vita).

Maria Messina ha ereditato dai grandi autori della sua terra l’arte di dare in poche righe un ritratto, uno stato d’animo; la sua personalità si rivela nella sicurezza della narrazione, nell’attenta analisi psicologica e nel lasciare intuire quello che i suoi personaggi non dicono. Infatti, lei conosce il fascino del non detto, quando non è necessario alla comprensione del testo; vale più il silenzio della parola: “Vanna si mise a correre verso la costa. Andò davanti al mare. Il vento passava sui capelli. Un fiotto s’avanzò fino ai suoi piedi … (La casa nel vicolo).

Maria Messina fa molto uso di sostantivi, aggettivi e verbi in direzione vezzeggiativa e spregiativa, modificati da un suffisso (risettino, corserella, cameruccia, fogliuzza, matrimonione, fanciullone, contadinaccio, riscalducchiò, tossicchiò), di iterazioni rafforzative (solo solo, freddo freddo, serio serio, subito subito), di nomignoli col diminuitivo affettivo (Bobò, Luciuzza, Geniuzza, Vastianedda), di termini lessicali tipo vossia, voscenza. La Messina usa scarne ed incisive notazioni di costume, che hanno la funzione di delineare i personaggi e lo sfondo in cui si svolgono le vicende narrate; per esempio, la descrizione dello spazio vitale di case anguste ed opprimenti racconta meglio dei dialoghi la condizione delle persone. Gran parte dei racconti sono ambientati in interni da dove è difficile evadere, e dove la sensazione è di claustrofobia.

Ed è per questo che molto spesso le protagoniste si affacciano con desiderio da qualche finestra: “Canticchiò, si stirò, all’improvviso dimenticò il desiderio di uscire, per correre sul balcone della sua cameretta come se avesse dovuto vedervi qualche cosa di straordinario” (La bimba). “Luciuzza saliva su un firrizzu e guardava fuori della finestra. Si vedevano i tetti. Quanti! Tutti i tetti erano distesi sotto la finestrina. A potervi camminare da un tetto all’altro, si giungeva nelle montagne, proprio in quella montagna grande grande tutta blu macchiata qua e là di bruno… E dopo la montagna c’era il cielo. Si giungeva fino al cielo, dov’era la mamma (Luciuzza).

Maria Messina: dall’oblio alla nuova stagione di popolarità

La produzione di Maria Messina, che comprende moltissime novelle in vari volumi e romanzi, fu accompagnata da una buona accoglienza di critici e di pubblico, testimoniata dal livello delle Case editrici che la ospitarono (Sandron, Treves, Bemporad, Le Monnier, Vallardi, Giannini, Ceschina), dalle riviste più diffuse come “La Nuova antologia”, “La Donna”, e dal “Corriere dei Piccoli”.

A soli 22 anni esordì sulla scena letteraria con Pettini fini che risultò vincitore della medaglia d’oro al concorso bandito dalla rivista “La Donna” nel 1910. Relatore della Commissione giudicatrice era G. A. Borgese, l’autorevole critico che, dopo la pubblicazione della seconda raccolta di novelle, Piccoli gorghi, segnalò al pubblico in un suo saggio (Una scolara di Verga), Maria Messina per il singolare rilievo della sua scrittura lucida ed essenziale e per “il temperamento tra i più attraenti della nostra letteratura femminile”.

Fu ammirata dal Verga, al quale fu legata da stima e da affetto e fu anche apprezzata da Ada Negri che, firmando una affettuosa prefazione a Le briciole del destino riconobbe nella “piccola sorella Maria” la capacità di evidenziare sventure di cui gli umili sono protagonisti.

Mia piccola sorella Maria, sì; le briciole del destino: avare e magre, sprezzanti ed anonime, che la vita getta con distratto compatimento agli Umili, i quali non posseggono la forza di offendere, né quella di ben difendersi, e non possono mettere in mostra la tragica bellezza di grandi sventure. Le briciole del destino … Tu hai voluto studiare questi cantucci di umanità, che sanno di vecchia polvere, di vecchi stracci abbandonati, di vecchie ragnatele, di vecchie lagrime rancide. Tu vi sei riuscita, piccola sorella Maria. Come? … Non so.

La tua anima fresca si compiace stranamente degli oscuri meandri ove pullula la povera gente senza risorse, senza fortuna, e, anche, sì – senza appoggio. E l’intuizione, che aiuta il novellatore assai più che l’esperienza, ti conduce talvolta a misteriose profondità.

Misteriose profondità che io leggo anche ne’ tuoi occhi guardanti a me dal ritratto, piccola sorella lontana ch’io non ho mai vista e della quale non udrò forse la corporal voce – e che pure mi dici tutto di te, nelle sommesse pagine ove l’anima insoddisfatta e torbida assume spesso la verdastra densità degli insondabili fiumi.

Ada Negri

L’attività di Maria Messina fu intensa fino al 1928, anno in cui uscì il romanzo L’amore negato, ultimo suo lavoro. Il suo totale e silenzioso isolamento la portò ad essere dimenticata persino da quegli editori che anche durante la sua malattia avevano continuato ad insistere per pubblicare i suoi scritti. Le difficoltà incontrate con l’editore di lunga data (Bemporad), che nel 1926 interruppe qualsiasi rapporto di lavoro, il progredire della paralisi, il disinteresse del Fascismo per il quale non c’era posto per la povertà e il sottosviluppo del Meridione, i temi e gli schemi tecnico-espressivi del Verismo, che suscitavano una impressione di appartenenza ad una stagione già percorsa, il maschilismo dei Futuristi, l’esaltazione della figura femminile dannunziana al centro di una visione estetizzante della realtà contribuirono al declino della fortuna di Maria Messina scomparsa dalla scena editoriale. Dimenticata dalla storia letteraria del Novecento, fu anche ignorata da quegli operatori che avviarono il processo per il recupero della letteratura femminile. La pubblicazione nel 1979 delle lettere indirizzate da Maria Messina a Giovanni Verga, raccolte nel volume Un idillio letterario inedito verghiano di G. Garra Agosta, rappresentò il preludio alla riscoperta delle sue opere. Decisivo per la rivalutazione critica della scrittrice fu l’interventio di Leonardo Sciascia che nel 1981 inserì nel volume Partono i bastimenti (Mondadori) due suoi racconti sull’emigrazione ambientati a Mistretta, il cui tema è la disgregazione dei vincoli familiari. Nonna Lidda e La Merica, di ascendenza verghiana, per intensità tragica ed efficacia di rappresentazione si possono annoverare tra i migliori dell’intera produzione novellistica di Maria Messina. Sciascia si curò, inoltre, di redigere una nota critica a presentazione del volumetto Casa paterna e, per risarcire la scrittrice dell’ingiusto silenzio, scrisse: “ci, meraviglia che nell’attuale urgenza delle rivendicazioni femminili e femrniniste, nell’attenzione delle scrittrici del passato e nel tentativo di costruire principalmente attraverso la loro opera una rappresentazione della condizione femminile nel mondo, in Italia e particolarmente nel Meridione, non pochi suoi libri e il suo nome stesso siano rimasti del tutto ignorati.La dimenticanza, o, se si vuole, più poeticamente l’oblio, spesso s’insinua e dilaga come edera rampicante a coprire certe aree e certi nomi della nostra storia civile e letteraria”.

La Casa editrice Sellerio, successivamente, ripropose all’attenzione del pubblico il rilancio complessivo dell’opera narrativa di Maria Messina,che ha così attraversato una nuova stagione di popolarità. La rottura del silenzio si deve anche a molti studiosi (Barbarulli, Brandi, Leotta, Di Giovanna, Santoro, Magistro, Pausini, Zambon), che con corredi critici approfonditi hanno rivalutato i testi della scrittrice che, ritraendo gli errori, la miseria umana, le frustrazioni e le sofferenze delle sue protagoniste, ha fornito uno strumento di riflessione su argomenti di attualità, quali la mancata corrispondenza tra i sogni dell’adolescenza e la realtà della vita, l’opacità dell’esistenza dominata dal motivo economico, che soffoca i sentimenti più genuini, le conseguenze della trasgressione alle regole sociali, l’incomunicabilità tra i componenti della stessa famiglia, la diffidenza negli strati socialmente depressi per i libri e lo studio. La modernità dei suoi racconti consiste in una amara resa al destino, nell’ansia, nel male di vivere, che attanaglia vincitori e vinti. La sua è una denuncia precisa di una società sprofondata nell’immobilismo che nega alla donna una sua entità autonoma in una precisa situazione storica e politica.Il recupero editoriale e critico, propiziato dalla ristampa delle opere di Maria Messina si è registrato anche nelle principali lingue europee.

Opere

Novelle

Pettini fini e altre novelle, Palermo, Sandron, 1909

Piccoli gorghi, Palermo, Sandron, 1911

Le briciole del destino, Milano, Treves, 1918

II guinzaglio, Milano, Treves, 1921

Personcine, Milano, A. Vallardi, 1921

Ragazze siciliane, Firenze, Le Monnier, 1921

Romanzi

La casa nel vicolo, Milano, Treves, 1921

Alla deriva, Milano, Treves, 1920

Primavera senza sole, Napoli, Giannini, 1920

Un fiore che non fiorì, Milano, Treves, 1923

Le pause della vita, Milano, Treves, 1926

L’amore negato, Milano, Ceschina, 1928

Letteratura per l’infanzia

I racconti di Cismè, Palermo, Sandron, 1912

Pirichitto, Palermo, Sandron, 1914

Cenerella, Firenze, Bemporad, 1918

I figli dell’uomo sapiente, Palermo, Sandron, 1920

II galletto rosso e blu, Palermo, Sandron, 1921

II giardino dei Grigoli, Milano, Treves, 1922

I racconti dell’Avemaria, Palermo, Sandron, 1922

Storia di buoni zoccoli e di cattive scarpe, Firenze, Bemporad, 1926

Traduzioni

La maison dans l’impasse – Arles, Actes Sud, 1980 (La casa nel vicolo)

La maison paternelle et autres nouvelles – Arles, Actes Sud,1987 (Casa paterna e altre novelle)

Petits remous – Arles,Actes Sud, 1990 (Piccoli gorghi)

Severa – Arles, Actes Sud,1993 (L’amore negato)

Petites personnes, suivi de Après l’hiver: nouvelles – Arles, Actes Sud, 2000 (Personcine e Dopo l’inverno)

La cueilleuse d’olives, in Nouvelles d’ltalie – Paris, Alfilèditions,1994 (Coglitora d’olive)

La robe couleur cafè – Arles,Actes Sud, 1991 (La veste color caffè)

Das haus in der gasse – Hamburg, Die Arche,1990 (La casa nel vicolo)

Der zerronnene Traum – Hamburg, Die Arche, 1992 (Gente che passa)

Jede Einsamkeit ist anders – Hamburg, Die Arche, 1994 (L’amore negato)

A house in the shadows – Vermont, Marlboro Press,1989 (La casa nel vicolo)

La casa del callejon – Guadarrama, Oriente y Mediterraneo, 1996 (La casa nel vicolo)

Recensioni su Maria Messina:

* Il Marzocco 19 dicembre 1909

Giovanni Rabizzani Il Marzocco 26 maggio 1918

* I libri del giorno giugno 1918

Francesco Orestano L’Italia che scrive dicembre 1919

* I libri del giorno maggio 1920

G. d.B. L’Illustrazione italiana 27 giugno 1920

Paolo Arcari L’Illustrazione italiana 6 marzo 1921

G.C. I libri del giorno dicembre 1921

* I libri del giorno febbraio 1923

* Nuova antologia 1 novembre 1926

Alberto Marzocchi L’Illustrazione italiana 26 dicembre 1926

Giovanni Titta Rosa La Fiera letteraria 7 novembre 1926

Franco Bondioli La Fiera letteraria 4 novembre 1928

Recensioni su Maria Messina

dopo la rivalutazione delle sue pubblicazioni:

Giuliana Morandini Il Messaggero 20 agosto 1981

m.b.c. Giornale di Brescia 22 agosto 1981

Carmelina Sicari Gazzetta del Sud 24 novembre 1981

Giorgio De Rienzo Corriere della Sera 14 novembre 1982

Giovanni Vizzari L’Umanità 12 gennaio 1983

Giovanna Musolino Gazzetta del Sud 4 gennaio 1983

Paolo Del Colle L’Avanti 4 febbraio 1983

Piera Mattei Paese Sera 11 febbraio 1983

Luigi Cattanei Corriere del Ticino 12 novembre 1983

Anne Bragance Le Monde 22maggio 1987

Salvatore Nigro La Sicilia 11 marzo 1988

Fernando Salsano L’Osservatore Romano 22 giugno 1988

Ermanno Paccagnini Il Sole 24 Ore 17 luglio 1988

Roberto Alajmo Giornale di Sicilia 18 luglio 1988

Sebastiano Lo Iacono L’istrice Novembre 1988

Liliana Tomasi Confidenze 16 aprile 1989

Patrizia Zambon Avvenire 22 luglio 1989

Maria Attanasio La Sicilia 26 ottobre 1989

Caterina Maniaci Il Popolo 15 dicembre 1989

Annabella d’Avino La Repubblica 11 marzo 1993

Paolo Marcolin Il Piccolo 25 aprile 1993

Lorella De Biase La Voce Repubblicana 3-4 maggio 1993

Giuseppe Ciccia Il Centro Storico Gennaio 2004

C. Barbarulli – L. Brandi Il Centro Storico Febbraio 2004

Lucia Graziano Il Centro Storico Settembre 2004

Giuseppe Passarello Il Centro Storico Novembre 2005

Lucio Bartolotta Il Centro Storico Febbraio 2006

Filippo Giordano Il Centro Storico Maggio 2006

Salvatore Ferlita La Repubblica 5 agosto 2006

Massimo Schilirò Enciclopedia della Sicilia Roma 2006

http://www.literary.it/dati/literary/bartolotta/maria_messina_18871944.html

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