“Il cavalcavia andava chiuso” : ma davvero, ? articolo by lastampa.it

Le vittime sono Emidio Diomede, 60 anni, e la moglie Antonella Viviani. La coppia, marito e moglie, viveva a Spinetoli (Ascoli Piceno) e viaggiava a bordo di una Nissan Qashqai, travolta dal crollo del ponte, lungo il quale erano in corso lavori di manutenzione.

I feriti sono tre operai romeni di 56 e 46 anni. Sono precipitati da un’altezza di circa sei-sette metri ma non sono in pericolo di vita

Tondini al risparmio e sabbia di mare: così cede il nostro cemento armato

Il paradosso nel Paese con i ponti degli antichi romani

Pubblicato il 10/03/2017
Ultima modifica il 10/03/2017 alle ore 07:01

mario tozzi roma

Gli antichi romani costruivano per l’eternità, gli italiani per l’immediato futuro. E spesso neanche per quello. Associandoci con tristezza al dolore per le vittime, questa è la prima riflessione che viene spontanea confrontando le infrastrutture antiche della Penisola con quelle moderne e contemporanee. Siamo il Paese in cui resistono egregiamente, e sono ancora percorribili, perfino con i camion, ponti fabbricati in pietra duemila anni fa e crollano quelli recenti in cemento armato, anche senza terremoti e frane, dalla Lombardia alla Sicilia, con una regolarità impressionante. Stessa osservazione può essere fatta per le strade (l’Appia Antica ha 2300 anni), per i palazzi e per i monumenti. Se la tecnologia e i materiali sono migliorati decisamente, perché siamo funestati da crolli?

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Un prima risposta è che la progettazione e la realizzazione di un ponte, soprattutto se di grandi dimensioni (ma non solamente), non sono operazioni di routine. Nel 1940 il Tacoma Bridge (stato di Washington in Usa), lungo oltre un chilometro e mezzo, crollò appena sette mesi dopo la sua apertura perché non riuscì a resistere alle sollecitazioni laterali indotte dai «forti» venti (67 km/h) della regione. Sembra incredibile, ma il vento può far crollare un ponte dopo averlo fatto ondeggiare paurosamente come una frusta manovrata da un domatore (le immagini del Tacoma Bridge stupiscono ancora oggi, come un monito per chiunque costruisca ponti). Il ponte di Akashi (Giappone), con la campata unica più lunga del mondo (finora), fu ricostruito nel 1998 successivamente a un fortissimo terremoto che distrusse la città di Kobe tre anni prima e costrinse gli ingegneri a spostarlo e a ridisegnarlo, constatando che una delle due torri risultava dislocata di oltre un metro rispetto alla sua posizione iniziale. Dopo quello stesso terremoto un lunghissimo cavalcavia stradale giaceva in terra, completamente basculato su un lato.

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I ponti moderni sono costruiti in calcestruzzo armato, una miscela di cemento, acqua , sabbia e ghiaia che viene «armata» con sbarre di ferro e acciaio. Inventato per caso a metà del XIX secolo, è oggi il materiale di costruzione più diffuso nei Paesi moderni e permette arditezze ingegneristiche irrealizzabili con altri materiali, come grandi dighe e ponti. È un materiale che conosciamo tutti, ma quanto dura nessuno lo sa, sebbene gli inventori ne pronosticassero una vita eterna. I manufatti in calcestruzzo armato più antichi risalgono soltanto a un secolo e mezzo fa, dunque nessuno può sapere quanto resteranno in piedi, semplicemente perché non c’è stato tempo a sufficienza per osservarlo. Ma sappiamo benissimo che il calcestruzzo armato subisce l’onta del tempo, in particolare l’azione dell’acqua e dei sali corrosivi che possono aggredire l’armatura di ferro e comprometterne la resistenza alla trazione, principale motivo per cui è stata inventata l’armatura.

A questi fattori generali, che valgono non solo per i ponti ma per tutti i manufatti in calcestruzzo armato, si aggiungono i soliti particolari del caso Italia. Per esempio la volontà di risparmiare tempo e denaro, riducendo la sezione dei tondini di ferro, imponendoli lisci invece che «costati» e utilizzando sabbia di mare (praticamente disponibile gratis) invece che di fiume. I sali aggrediscono una struttura metallica già meno robusta e la resistenza del manufatto decade verticalmente. Situazioni di questo tipo sono state registrate più volte nel caso del collasso di manufatti moderni a seguito di alcuni terremoti, come quello de L’Aquila del 2009. Infine nei crolli italiani si registrano con una frequenza, apparentemente maggiore che altrove, «errori» tecnici di vario tipo e natura.

Si chiariranno le cause specifiche del crollo dell’impalcato sulla A14 e ci sono circostanze particolari che vanno considerate prima di formulare accuse (i lavori in corso, per esempio). E senz’altro le autostrade in Italia le sappiamo fare. Più in generale, però, fa impressione che il Paese in cui è stata coniata la parola pontefice (colui che realizza e difende i ponti, cioè quei collegamenti che una volta erano rari e strategici) veda crollare in meno di tre anni almeno quattro infrastrutture una di seguito all’altra. E fa ancora più impressione pensare che proprio qui da noi qualcuno voglia realizzare il ponte a campata unica più lungo del mondo sullo stretto di Messina, utilizzando un acciaio che ancora non esiste, con venti in quota a oltre 100 km/h, nella zona più sismica dell’intero Mediterraneo. Nel progetto preliminare gli ingegneri ragionano su una durata del manufatto di appena duecento anni, dieci volte meno di quanto poi sono durati (e durano) i ponti dei romani antichi. Forse meglio lasciar perdere.

http://www.lastampa.it/2017/03/10/italia/cronache/tondini-al-risparmio-e-sabbia-di-mare-cos-cede-il-nostro-cemento-armato-rQWQ0IpEWv0kmfNU4u0kQI/pagina.html

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