ius tacendi CENNI per i troppi che si dilettano di processi….film S. Lumet

La storia dello ius tacendi dalle origini fino al codice del 1988 :

almeno qualche nozione, così non parlate a cazzo!

Autore Enrico Di Fiorino

Quello del diritto al silenzio rappresenta uno dei temi più affascinanti e dibattuti nellastoria del processo penale, per un duplice ordine di ragioni. Da una parte, la tutela della libertà morale dell’imputato, che affonda le sue radici negli ordinamenti anglosassoni fino ad arrivare, poi, alle più evolute esperienze europee, costituisce un importante terreno su cui verificare la possibilità di approdare ad un nucleo comune della disciplina del rito penale a livello comparatistico(1). Dall’altra, il diritto al silenzio è strettamente correlato alla posizione che l’accusato, nell’ambito di un procedimento penale, assume nei confronti dell’autorità, «sotto il particolare profilo dei poteri esercitabili da quest’ultima in ordine alle opzioni (di parlare o di tacere) del primo»(2). Una posizione, questa, che assume particolare rilievo in relazione alla dicotomica alternativa tra modello accusatorio e inquisitorio (si tratta, in realtà, di una contrapposizione che merita di essere mantenuta esclusivamente ai fini di una ricostruzione storica, trattandosi di due modelli frutto di un processo astrattivo-induttivo e non ritrovabili, come tali, nell’esperienza positiva concreta).

La tendenza del nostro ordinamento a fare propri i caratteri del modello accusatorio e a recepire quindi un modello di processo di tipo cognitivo, volto alla formazione di un sapere attraverso lo strumento del contraddittorio, ha fatto si che l’impianto probatorio non si fondi più essenzialmente sul contributo conoscitivo del soggetto cum quo res agitur, diversamente da quanto impone una concezione autoritaria ed inquisitoria, protesa verso una ricerca ossessiva della confessione – intesa come  regina probationum –  e che riduce il processo ad una contesa tra accusatore-giudice e inquisito, con un esito scontato in favore delle tesi del primo(3). Anzi, al contrario l’imputato, da bestia da confessione(4),  diventa titolare di una serie di diritti e garanzie, tra le quali la facoltà di non collaborare alla propria condanna; prospettiva, questa, diametralmente opposta a quella che vede il contraddittorio come un “orpello” da cui liberarsi – e non come regola epistemica ai fini dell’accertamento della verità – e che predilige piuttosto procedure anticognitive come la mediazione e la giustizia negoziata. Nel modello accusatorio, invece,  l’autorità non deve ricorrere all’utilizzazione del sapere dell’imputato al fine di trarne elementi a suo carico, dovendo ricercare altrove, o meglio oltre la persona del soggetto accusato, “conferme” ai fatti oggetto dell’imputazione.

Il problema relativo all’esistenza, in capo all’imputato, di un dovere di collaborazione all’accertamento penale ha da sempre rappresentato una questione delicata e particolarmente complessa, strettamente connessa alle scelte operate, nel corso delle varie epoche storiche, in relazione alle modalità di utilizzo del patrimonio di conoscenze provenienti da colui nei confronti del quale si procede(5). Gia nel XVII secolo si ammetteva che «un uomo interrogato … intorno a un delitto che ha commesso non è tenuto a confessare, senza garanzia di perdono, perché nessuno … può essere per patto obbligato ad accusare sé stesso»(6). Una chiara, per quanto approssimativa, affermazione del principio nemo tenetur se detegere, la cui più lucida e profonda espressione è rappresentata proprio dal diritto al silenzio(7).

Ma già nella società del diritto comune si era sviluppata la tendenza all’utilizzo probatorio del sapere dell’imputato, alimentata dal ricorso al sistema di prove legali e degenerata in seguito nel ricorso alla tortura. Solo con il diffondersi della cultura illuministica è stato possibile approdare ad una concezione dell’imputato quale “soggetto” del processo penale e non mero “oggetto di prova”, senza però che tale evoluzione, coniugata con il deciso rifiuto della tortura e di ogni altra forma di coercizione fisica e psicologica,  portasse alla configurazione di un vero e proprio ius tacendi. Indicativo è il pensiero di Beccaria, il quale, dopo aver rilevato «una contraddizione fra le leggi e i sentimenti naturali dell’uomo» nell’istituto del giuramento imposto all’imputato, osservava, a proposito della tortura, «ch’egli è un voler confondere tutti i rapporti, l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore e accusato»(8). La posizione del pensatore illuminista si fa però palesemente contraddittoria quando, da un lato «si reputa  contro la natura stessa che un reo si accusi immediatamente da sé», mentre, dall’altro, si sostiene che «colui che nell’esame si ostinasse di non rispondere alle interrogazioni fattegli, merita una pena fissata dalle leggi, e pena delle più gravi che siano da quelle intimate, perché gli uomini non deludano così la necessità dell’esempio che devono al pubblico»(9).

Il principio del nemo tenetur se detegere nei paesi di common law, espresso nella massima «nemo tenetur seipsum prodere»(10), ha conosciuto un più rapido sviluppo dovuto al carattere spiccatamente accusatorio del processo(11); quanto al nostro Paese rivestono particolare importanza – sia per la liberalità del loro contenuto, sia per il significato che assunsero rispetto alla successiva legislazione degli Stati preunitari – le disposizioni dettate nel Codice di procedura penale pel Regno d’Italia (1807)(12). Si stabiliva, da un lato, il divieto «di deferire il giuramento all’imputato» e di far usi «di qualunque falsa supposizione, seduzione o minaccia, onde ottenere una risposta diversa da quella che l’imputato è disposto a fare spontaneamente» (art. 204), e, dall’altro, si prevedeva che «se l’imputato ricusi di rispondere, o per non rispondere si finga muto, il giudice l’eccita a rispondere, e lo avverte che si procederà oltre nell’istruzione, malgrado il suo silenzio» e «lo stesso avrà luogo nel restante della procedura e nel dibattimento, se l’imputato ricusi di rispondere» (art. 208). Norme che si collocano in una prospettiva che, anche in relazione alle soluzioni accolte in altri ordinamenti del tempo, può a ragione essere definita come culturalmente e giuridicamente “moderna”.

Interessante risulta anche l’analisi e il confronto delle disposizioni contenute nelle prime due codificazioni post-unitarie: mentre nel codice del 1865 l’obbligo di avvertire che, nel caso di rifiuto di rispondere all’interrogatorio, l’istruzione sarebbe proseguita oltre, si concretizzava solo dopo l’effettiva astensione, il codice del 1913 prevedeva che il «corrispondente avvertimento dovesse essere formulato … ancor prima che, nella dialettica dell’interrogatorio, la “parola” passasse all’imputato»(13).

Le «profonde modificazioni di principi e di struttura» che trovarono «la loro spiegazione nel mutato clima politico»(14) determinarono, nel codice Rocco, la mancata riproposizione di una norma che prevedesse la necessità di un avvertimento, visto ormai come un «obbligo … dannoso e disdicevole», espressione di una «generica tendenza favorevole per i delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso»(15). Si verificò, in sostanza, un arretramento non solo rispetto alla previgente codificazione, ma anche rispetto al codice del 1865. Pur in presenza di una dottrina favorevole all’introduzione di un vero e proprio “obbligo di verità”- non dissimile dal Wahrheitspflicht des Beschuldigten della Germania nazista -, la stessa formula legislativa e la mancanza di sanzioni (in particolare penali) in presenza di un comportamento menzognero ne esclusero la configurazione. L’idea di un obbligo di verità dell’imputato muoveva dalla teoria carneluttiana sulla concezione cd. “ottimistica” o “medicinale” della pena(16), secondo la quale l’obbligo, per l’accusato, avrebbe avuto il valore «di aiutarlo a vincere la sua riluttanza a quella narrazione veritiera, la quale a lui sembra, ma non è e non può mai essere in contrasto con il suo reale interesse»(17).

Non essendo configurabile l’idea dell’obbligo di verità, in capo all’imputato sarebbe stato al più riconducibile un «obbligo morale»(18) di rispondere secondo verità, incoercibile sul piano giuridico, ovvero un «onere di dichiarare il vero»(19), senza mai arrivare però ad una equiparazione piena tra silenzio dell’imputato e confessione tacita(20).

Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, in seguito alla caduta del regime fascista, si verificava quel recupero dei fondamentali valori democratici che – va chiarito per incidens – avrebbe forse consentito, anche senza la necessità di specifici interventi normativi, di ritenere il Codice Rocco non incompatibile con la possibilità per l’imputato di non rispondere o di non rispondere veridicamente. Di certo l’idea di un onus probandi si trovava ora in contrasto con la proclamazione dell’inviolabilità del diritto di difesa (art. 24 comma 2 Cost.) e del principio di non colpevolezza (art. 27 comma 2 Cost.)(21).

Ma un esplicito riconoscimento del diritto al silenzio è arrivato solo con la legge 5 dicembre 1969, n. 932, che prevedendo l’introduzione di un nuovo comma 3 all’interno dell’allora vigente art. 78 c.p.p., ha attribuito all’imputato la facoltà di astenersi dal rispondere e ha previsto a carico dell’autorità interrogante l’obbligo di avvertire ab inizio – «prima che abbia inizio l’interrogatorio» – l’imputato della facoltà in parola. Più precisamente, si tratta di un avviso che doveva intervenire, nel corso dell’interrogatorio, subito dopo l’indicazione da parte dell’imputato delle proprie generalità, essendo invece ogni sua ulteriore dichiarazione riconducibile sotto la  “generosa ala protettiva” dello ius tacendi.

Una disposizione, quindi, di carattere informativo, che esigeva che il soggetto accusato fosse effettivamente messo al corrente della facoltà di non rispondere, al fine di consentirgli un contributo processuale consapevole e libero e giungere alla «realizzazione, in sede processuale, dei principi propri di uno Stato di diritto»(22); in caso contrario si sarebbe venuti invece a “speculare” sull’ignoranza della suddetta facoltà garantita ex lege, contraddicendo la ratio dello ius tacendi e, più in generale, dell’intervento normativo tutto.

A seguito della legge n. 932 del 1969, venne anche a meglio delinearsi la natura dogmatica e la connotazione funzionale dell’interrogatorio: non più considerato «narrazione obbligatoria e a titolo di verità cui è costretto l’indagato-imputato»(23), ma concepito essenzialmente come strumento per l’esplicazione del diritto di difesa(24). Difficile non leggere, in questa parabola di «trasformazione dell’interrogatorio»(25), un avvicinamento ai canoni propri del modello accusatorio, che accentua la valenza difensiva dell’istituto. Ulteriori chiarimenti in materia sono arrivati dal nuovo codice di procedura civile del 1988, che individua due strumenti idonei ad introdurre nel processo il contributo conoscitivo dell’imputato: da una parte l’interrogatorio, come mezzo di difesa, dall’altra l’esame, come mezzo di prova. In realtà non appare così semplice operare una distinzione, soprattutto se si considera che entrambi posso svolgere una duplicità di funzioni e ruoli, tanto in chiave difensiva, quanto in relazione ad una eventuale potenzialità probatoria. La possibilità che attraverso l’interrogatorio si possa venire a conoscenza di notizie utili ai fini della decisione non consente comunque di collocarlo tra i mezzi di prova(26). In conclusione, risulta più opportuno classificare l’interrogatorio come fattispecie a formazione progressiva multifunzionale: «sempre mezzo di difesa, eventualmente fonte di prova, potenzialmente mezzo di prova»(27).

A prescindere dalla sua natura ciò che rileva è che l’istituto in parola può costituire un valido strumento di difesa solo nell’ipotesi in cui all’imputato venga garantita la possibilità di autodeterminarsi liberamente, id est venga garantita la sua libertà fisica e morale(28). In caso contrario, ossia in presenza di strumenti idonei ad incidere sulla volontà dell’imputato, l’ordinamento prevede l’impossibilità di utilizzare le conoscenze raccolte; inutilizzabilità che deve necessariamente estendersi a tutte le prove assunte successivamente alla trasgressione del divieto, per evitare che venga «incentivata la violazione dei divieti probatori, nella prospettiva di poter raggiungere, per questa via, risultati spendibili nel processo»(29).

Si tratta di una preclusione, ripresa dall’art. 188 c.p.p. nelle disposizioni generali sulla prova, che costituisce una chiara attuazione legislativa dell’art. 13 comma 4 Cost., ai sensi del quale «è punita ogni violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». Un divieto indisponibile per lo stesso interrogato – poiché prescinde da un suo eventuale consenso -,  la cui ratio deve essere ricondotta ad una scelta di carattere etico del legislatore e che si pone in contrasto con la previsione dell’istituto dell’accompagnamento coattivo. Difficile infatti non rilevare la contraddizione e l’incoerenza di una previsione che prevede l’accompagnamento coattivo, ai fini di un interrogatorio, di un soggetto che potrà poi avvalersi della facultas tacendi, motivo per cui lo stesso «accompagnamento andrebbe ammesso, ed avrebbe giustificazione, solo laddove la persona fisica dell’accusato occorra per un atto probatorio che non si risolva in sue dichiarazioni»(30).

Le osservazioni fin ora fatte si rivelano preziose ai fini di comprendere la complessa disciplina che, in materia di diritto al silenzio, ha predisposto il nuovo codice di procedura penale del 1988. Fondamentale risulta ora la distinzione, tanto chiara sul piano teorico quanto labile ed effimera nella realtà processuale, tra garanzia del silenzio sul fatto proprio e sul fatto altrui.

Per quanto riguarda il primo profilo, l’art. 64 comma 3 c.p.p. (nella versione antecedente la riforma della legge 1° marzo 2001, n. 63) ripropone una diritto al silenzio di estensione analoga a quello sancito nell’art. 78 comma 3 c.p.p. abr., della cui sussistenza il soggetto sottoposto ad interrogatorio deve essere informato(31), indipendentemente che l’interrogatorio avvenga di fronte al pubblico ministero, di fronte al giudice per le indagini preliminari o di fonte al giudice dell’udienza preliminare. In ipotesi di esame dibattimentale, all’imputato sono riconosciuti sia un diritto a non essere interrogato, in virtù della volontarietà dell’atto – effettuabile solo sua richiesta o consenso –, sia un diritto al silenzio “parziale”, id est la facoltà di rifiutare di rispondere a una o più domande, rifiuto di cui sarà fatta menzione nel verbale(32). Uno ius tacendi, quindi, con «portata panprocessuale»(33), riconosciuto sia all’interrogato nel procedimento a suo carico, sia (si veda subito dopo) all’imputato in un procedimento connesso ex art. 210 c.p.p., attesa la medesima esigenza di tutela.

L’art. 63 comma 1 c.p.p., anticipando lato sensu la tutela del diritto al silenzio, prevede una serie di garanzie in favore della persona non imputata ovvero non sottoposta alle indagini che abbia reso dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico: attraverso l’interruzione dell’esame, l’avvertimento in relazione ai rischi derivanti dalle dichiarazioni stesse e l’invito alla nomina di un difensore si rende edotto il dichiarante della utilizzabilità contra se di ulteriori apporti conoscitivi, stante invece l’inutilizzabilità di quanto  precedentemente dichiarato. L’art. 63 comma 2 c.p.p., al fine si evitare un “subdolo” aggiramento delle garanzie riconosciute al soggetto cum quo res agitur, sottopone al medesimo regime di inutilizzabilità le dichiarazioni di chi, ab origine, avrebbe dovuto essere sentito come indagato o imputato.

Alla medesima ratio di natura anticipatoria deve essere ricondotta la norma ex art. 198 comma 2 c.p.p, ai sensi della quale «il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale». Espressione del privilegio contro l’autoincriminazione, il quale si sostanzia nella facoltà di «rifiutarsi di rilasciare dichiarazioni che potrebbero comportare la propria incriminazione», la norma prevede una «eccezione al dovere di verità»(34). La valutazione circa la possibilità di emersione di una responsabilità penale deve ovviamente essere fatta non in termini di certezza, ma alla stregua di un criterio di prevedibilità secondo l’id quod plerumque accidit, indipendentemente quindi dal venire in essere di quegli indizi di reità che, ex art. 63 comma 1 c.p.p., comporterebbero una interruzione dell’interrogatorio.

Quanto alla garanzia del silenzio sul fatto altrui, sarebbe stato opportuno, costituendo il diritto in parola un limite oggettivo alla formazione della prova, scongiurare un riconoscimento sovrabbondante dello stesso, id est un riconoscimento che vada oltre l’esigenza di tutela del dichiarante contro il rischio dell’autoincriminazione. Risulta qui di estrema importanza prendere in considerazione il difficile rapporto tra diritto di difesa dell’imputato e finalità istituzionale del processo, ossia l’accertamento dei fatti e delle relative responsabilità. In particolare, mentre l’ipotesi di esercizio del diritto al silenzio sul fatto proprio non pone dubbi circa la sua diretta riconducibilità al principio nemo tenetur se detegere, l’esercizio del medesimo diritto sul fatto altrui necessita di una più attenta valutazione. Ciò soprattutto nel caso in cui il soggetto, inizialmente loquens, decida in seguito di avvalersi del diritto di tacere: una scelta sì astrattamente riconducibile al rischio per l’imputato dichiarante di edere contra se, ma che si traduce in una impossibilità per l’imputato accusato di verificare le dichiarazioni altrui e quindi in una frustrazione del suo diritto di difesa.

Si tratta di un problematico equilibrio a cui il legislatore del 1988 non è stato capace di dare risposta, limitandosi a garantire una generale tutela dello ius tacendi indipendentemente dalla natura del fatto (proprio o altrui) su cui si rendono dichiarazioni. E questo, soprattutto, per le obbiettive difficoltà, nella realtà processuale, di operare una netta distinzione tra dichiarazioni sul fatto proprio o altrui, in particolare nelle ipotesi di concorso di persone nel reato o in altre ipotesi di connessione di procedimenti.

In sintesi, come gia anticipato, l’intera disciplina ruota intorno alla possibilità di trovare «un sostenibile punto di equilibrio fra garanzie – il diritto di difesa del dichiarante, il diritto di difesa del chiamato in causa e l’efficacia della funzione di accertamento – che non sembra possano essere tutte egualmente salvaguardate fino in fondo»(35). Garanzie che sembrano porsi in un rapporto di proporzionalità inversa tra loro e che sembrerebbero necessitare, nell’impossibilità di cogliere un utile filo sinergico, dell’individuazione, ad una soltanto, di una qualche prevalenza o priorità sulle altre due(36).

Infatti l’esercizio del diritto al silenzio sul fatto altrui da parte dell’imputato precedentemente dichiarante risulta essere idoneo a pregiudicare o il diritto di difesa dell’accusato, nell’ipotesi di acquisizione come prova delle dichiarazioni, o la funzione del processo, nell’ipotesi di impossibilità di tale acquisizione. Pur essendo il contributo del coimputato sul fatto altrui pienamente assimilabile ad una testimonianza, il legislatore del 1988 non si è orientato in tal senso, “fiducioso” circa la possibilità di distinguere le dichiarazioni sul fatto proprio da quelle sul fatto altrui.

Per il coimputato dichiarante erga alios nello stesso procedimento, data la sua incompatibilità con l’ufficio di testimone ex art. 197 lett. a c.p.p.(37), l’ordinamento prevedeva l’acquisizione del suo contributo conoscitivo con gli stessi strumenti utilizzati  per assumere le dichiarazioni sul fatto proprio.

Per l’imputato, invece, in un procedimento connesso il legislatore predisponeva strumenti per evitare una perdita probatoria in modo analogo a quanto già previsto con la legge 8 agosto 1977, n. 534. Quest’ultima aveva, nell’alveo del codice del 1930, ideato la figura dell’interrogatorio libero dell’imputato di reato connesso per il quale si proceda separatamente. Si trattava di un soggetto dallo statuto fortemente ibrido, che occupava uno spazio collocabile a metà strada tra l’imputato ed il testimone (la pratica forense avrebbe coniato l’eloquente termine “impumone”, e pour cause). Il dichiarante era citato con le modalità previste per i testimoni, pur essendo prevista una sua incompatibilità a testimoniare (salvo che nei suoi confronti non fosse stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento). Egli era obbligato a presenziare, stante il ricorso all’accompagnamento coattivo, ma allo stesso tempo veniva tutelato con le medesime garanzie dell’imputato tout court: diritto all’assistenza di un difensore, facoltà di non rispondere, con obbligo di preavviso prima dell’inizio dell’esame, e mancanza dell’obbligo di rispondere secondo verità. Nell’ipotesi in cui le dichiarazioni sul fatto altrui avessero avuto anche un contenuto autoincriminante, potevano essere acquisite nel processo a carico del dichiarante secondo quanto previsto dall’art. 238 c.p.p.

Volendo riassumere, il codice del 1988 ereditava la tipologia tripartita dei dichiaranti, accentuando la messa a fuoco della categoria intermedia, attraverso l’introduzione della regola di valutazione prevista dall’art 192.3 c.p.p., applicabile alle dichiarazioni sul fatto altrui. Dichiarazioni che, quindi, pur avvicinandosi sul piano concettuale a quelle del teste, se ne discostavano solo in relazione alla diagnosi di “impurità” della fonte(38).

La disciplina del nuovo codice si completava con l’istituto della «lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato» previsto dall’art. 513, i cui due commi si rivolgevano rispettivamente all’imputato nel proprio procedimento e di procedimento connesso.

Il primo comma, in caso di contumacia, assenza o rifiuto di sottoporsi all’esame disponeva, a richiesta di parte, la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese al pubblico ministero o al giudice nelle indagini preliminari o nell’udienza preliminare. Data la  mancanza di specifiche precisazioni normative, si riteneva possibile l’utilizzo delle dichiarazioni sia contro il loro autore sia contro l’accusato.

Il secondo comma disponeva la lettura dei verbali in caso di generica impossibilità ad ottenere la presenza del dichiarante, non facendo però riferimento all’ipotesi del rifiuto, che veniva escluso dai presupposti legittimanti l’assunzione della prova.

(1) In questi termini E. AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione? A proposito dell’interrogatorio dell’imputato in un libro recente, in Riv. dir. proc., 1974, p. 408.

(2) V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, 1998, in ID., Alla ricerca di un processo penale «giusto».  Itinerari e prospettive, Giuffrè, Milano, 2000, p. 203.

(3) O. MAZZA, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, Giuffrè, Milano, 2004, p. 105.

(4) F. CORDERO, Procedura penale, 7 ed., Giuffrè, Milano, 2003, p. 25.

(5) V. PATANÈ, Il diritto al silenzio dell’imputato, Giappichelli, Torino, 2006, p. 1.

(6) T. HOBBES, Leviatano, 1651, trad. it., Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 151-152

(7) In particolare E.AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione? A proposito dell’interrogatorio dell’imputato in un libro recente, in Riv. dir. proc., 1974, p. 412, nell’ambito dell’analisi degli ordinamenti di common law, parla di «polivalenza del nemo tenetur se detegere», arrivando «ad isolare tre differenti significati del principio: il diritto a non essere interrogato dal giudice (right not to be questioned), il diritto a non autoincriminarsi (privilege against self incrimination) e il diritto al silenzio».

(8) C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, 1764, ed. a cura di Calamandrei, Firenze, 1950, p. 210, 215.

(9) C. BECCARIA, op. cit., p. 209. In particolare V. GREVI, «Nemo tenetur se detegere». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Giuffrè, Milano, 1972, p 14,. vede una «singolare incongruenza» poiché, «una volta ripudiati … gli istituti della tortura e del giuramento dell’imputato, sarebbe stato logico escludere la configurabilità, nei confronti» dell’imputato «di un dovere di rispondere all’interrogatorio».

(10) Ai fini di sottolineare l’ampio utilizzo di formule difformi, ma senza alcuna differenza contenutistica, si veda KOHL, Procès civil et sinceritè, Liège 1971, p. 15, che parla del «principe exprimé par l’adage “nemo tenetur edere contra se”».

(11) Si pensi, in particolare, al divieto sancito dallo statuto di Carlo I del 1641 di deferire il giuramento ex officio all’accusato dinnanzi alle corti ecclesiastiche. O ancora al V emendamento della Costituzione federale degli Stati Uniti d’America, laddove si afferma che nessuno «può essere obbligato in qualsiasi causa penale a deporre contro sé medesimo».

(12)Sul punto V. GREVI, «Nemo tenetur se detegere». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano,  cit., p. 23 ss.

(13) V. GREVI, «Nemo tenetur se detegere». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano,  cit., p. 35, spec. nota 60, osserva che la differenza nelle modalità temporali degli avvertimenti trova uno specifico riscontro anche nel tenore letterale degli avvertimenti stessi:  mentre nella disposizione del 1865 il giudice doveva avvertire l’imputato che l’istruzione sarebbe proseguita «nonostante il suo silenzio», la disposizione del 1913 obbligava il giudice di avvertire l’imputato che «se anche non risponda, si procederà oltre nell’istruzione», mostrando così di voler far precedere l’avvertimento ad un eventuale silenzio.

(14) Così G. DELITALA, voce Codice di proc. pen., in Enc. dir, vol. VII, Milano, 1960, p. 284.

(15) Relazione sul progetto preliminare del codice di proc. pen., in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. VIII, Roma, 1929, p. 7.

(16) F. CARNELUTTI, Il problema della pena, Tumminelli, Roma, 1945, passim

(17) F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, vol. II, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1947, p. 169

(18) Vedi E. MASSARI, Il processo penale nella nuova legislazione it., Napoli, 1934, p. 137 s.

(19) G. FOSCHINI, L’interrogatorio dell’imputato, in Annali di dir. e proc. pen., 1943, p. 271., che fa riferimento ad un imputato libero di tacere e mentire, con il rischio, però, di fornire al giudice gli elementi di una prova per presunzione.

(20) Vedi, ad esempio, J. BENTHAM, Traitè des preuves, trad. Dupont, vol. I, Paris 1823, p. 353 s.

(21) Vedi, sul punto, V. GREVI, «Nemo tenetur se detegere». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano,  cit., p. 46 ss., che sottolinea come la «preoccupante» teoria dell’onere di verità sia stata sostenuta, anche a seguito del nuovo clima politico-costituzionale, da una parte minoritaria della dottrina. Sui rapporti tra diritto al silenzio e garanzia costituzionali, si veda il paragrafo successivo.

(22) V. GREVI, «Nemo tenetur se detegere». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, cit., p. 112.

(23) G. RANALDI, Commento all’art. 64 c.p.p., in A. GAITO (a cura di), Codice di procedura penale ipertestuale, Utet, Torino, 2001, p. 221.

(24) Si veda, in proposito, la direttiva n. 5 della legge delega del 1987 che, forse in modo definitivo, ha preconizzato una disciplina dell’interrogatorio «in funzione della sua natura di strumento di difesa».

(25) V. GREVI, «Nemo tenetur se detegere». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, cit., p. 127

(26) In tal senso, v. Relazione sul progetto preliminare del codice di proc. pen., in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, cit., p. 71., dove si sostiene che «l’interrogatorio può essere fonte, ma non mezzo di prova, in quanto da esso si possono ricavare elementi idonei per determinare ricerche probatorie».

(27) La ermetica sintesi è di  G. RANALDI, Commento all’art. 64 c.p.p., in A.GAITO (a cura di), Codice di procedura penale ipertestuale, cit., p. 221.

(28)

(29) O. MAZZA, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, Giuffrè, Milano, 2004, p. 40.

(30) M. NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Clueb, Bologna, 1989, p. 55.

(31) In realtà, precisa il legislatore delegato che la garanzia debba ritenersi operante in relazione «ad ogni atto … che, per quanto non tecnicamente denominabile “interrogatorio”, comporti domande»: cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazz. Uff., 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, p. 72.

(32)

(33) L’espressione è di V. PATANÈ, Il diritto al silenzio dell’imputato, cit., p. 37.

(34) E. AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione? A proposito dell’interrogatorio dell’imputato in un libro recente, cit., p. 412.

(35) V. PATANÈ, Il diritto al silenzio dell’imputato, cit., p. 46.

(36) È stata la sentenza della Corte Costituzionale 2 novembre 1998, n. 361 a tentare dichiaratamente di trovare un equilibrio tra le garanzie in parola, stabilendo innanzitutto che la funzione accertativa del processo trovi il suo limite nel rispetto del diritto di difesa dell’imputato. Sul punto, si veda il paragrafo successivo.

(37) V. GREVI, Le «dichiarazioni resi dal coimputato» nel nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1991, p. 1153 ss., sottolinea come il regime di incompatibilità non debba essere ricondotto ad una presunzione assoluta di inattendibilità, ma «ad una diversa logica di garanzia sotto il profilo della non collaborazione».

(38) Vedi V. GREVI, Le «dichiarazioni rese dal coimputato» nel nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, spec. 1173 ss.

http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=2158

La parola ai giurati

di Sidney Lumet

drammatico, Usa (1957)

 di Lorenzo Taddei

E allora, cosa sarebbe superiore alla giustizia?
Sarebbe, più concretamente, la clemenza…
 (da “Straniera” di Sergej Dovlatov)

Senza infine aggiungere niente sulla sorte dell’imputato, senza neppure concedergli una seconda inquadratura, né concederci chiarimenti sul suo effettivo coinvolgimento nel crimine, Lumet si congeda con una stretta di mano, come quella fiera ma frettolosa fra i giurati Davis e McArdle, proprio come Davis ci aiuta a infilarci la giacca senza una parola di più, perché non importa aggiungere altro quando si è fatta la cosa giusta. E la cosa giusta stavolta è aver impedito alla giustizia di fare il suo corso. Anteporre alla giustizia la clemenza, questo è il tema che il film comunica forte e chiaro: prestare ascolto, agli altri e a se stessi, se proprio dobbiamo giudicare, liberandosi almeno del pregiudizio.

“12 Angry Men” esce nel 1954 come film tv e tre anni dopo Reginald Rose, autore del soggetto, scrive la sceneggiatura per l’adattamento cinematografico. La regia viene affidata da Rose ed Henry Fonda – coproduttori insieme alla “Orion” –  al trentatreenne esordiente Sidney Lumet. Il budget stanziato per il film fu di 350.000 dollari. Grazie alla meticolosità del giovane regista (due settimane di prove) le riprese si conclusero in diciannove giorni, cioè un giorno prima del previsto, e con un risparmio di mille dollari.
Nel 1957 il film vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e l’anno seguente riceve tre candidature agli Oscar come “miglior film”, “miglior regista” e “miglior adattamento”, ma tutte e tre le statuette gli saranno soffiate da “Il Ponte sul fiume Kwai” di David Lean.

Tra i remake il più importante è certamente il film tv di William Friedkin del 1997 scritto ancora da Reginald Rose: il giurato che insinua il dubbio, interpretato da Jack Lemon, non è più il numero 8 ma il 7; il giudice è una donna (Mary McDonnell); quattro giurati sono afroamericani e a tutti i giurati non è permesso fumare. Anziché porre al centro la pena di morte, Friedkin si interessa maggiormente al declino culturale dell’America di cui i giurati rappresentano dei campioni. Da annotare anche il remake del regista indiano Besu Chatterjee del 1986 e quello del cinese Ang Xu, prodotto lo scorso anno.

I supplenti sono liberi
New York, anni ’50. La prima inquadratura riprende la facciata del Palazzo di Giustizia, dal basso verso l’alto, per poi ridiscendere nell’atrio e condurci con una staffetta di comparse all’aula 228 dove si sta svolgendo il processo che ci riguarda: omicidio (parricidio) di primo grado, premeditato, il più grave. L’inquadratura è piena, suddivisa dal banco della corte, una sorta di diagonale “segmentata” (a forma di saetta) che unisce l’angolo in basso a sinistra a quello in alto a destra dello schermo. Seduto sulla destra in primo piano il giudice, sullo sfondo (al centro e in alto a sinistra) la giuria, in altro a destra invece l’usciere (l’unico in piedi) e il banco dei testimoni vuoto; la porzione d’aula visibile (in basso a destra) è occupata dallo stenografo e dal disegnatore. L’inquadratura è piena, come la maggior parte delle inquadrature del film, lo spazio interamente sfruttato. Con un’imparzialità quasi indolente il giudice rammenta ai giurati che un uomo è morto ed è loro dovere separare i fatti dalla fantasia; l’imputato potrà essere giudicato colpevole solo se non sussiste dubbio alcuno (“presunzione di innocenza” ed eventuale condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”). Nel caso di unanime verdetto di colpevolezza (l’unanimità è requisito necessario, altrimenti il processo deve essere ripetuto) la sentenza di morte sarà senz’altro esecutiva. Nel frattempo una lenta carrellata da destra a sinistra riprende i giurati – sono ancora quattordici – alcuni dei quali già contraddistinti da particolari gesti o espressioni che ritroveremo più avanti. I due giurati supplenti sono liberi di andare. Gli altri dodici invitati a ritirarsi in camera di consiglio. Per la prima volta – finora fuori campo – compare l’imputato, di spalle, le mani giunte sul tavolo, mentre osserva i giurati uscire dall’aula. Segue un primo piano diviso, stavolta da una diagonale “immaginaria”: dal vertice in basso a destra una luce rischiara la bocca, il naso, gli occhi del giovane imputato; l’altra metà dell’inquadratura è invece nell’ombra. L’illuminazione del volto triste del ragazzo, la sua compostezza, le mani che ricordiamo unite come in una preghiera, sono una dichiarazione silenziosa di onestà che prepara già il terreno all’eroe giurato n.8 (Henry Fonda).

La stanza della giuria
Una dissolvenza, accompagnata dalla musica di Kenyon Hopkins (che ritroveremo nei punti salienti del film, finale compreso) ci trasferisce dallo sguardo dell’imputato nella sala di consiglio: scorrono i titoli di apertura ed entrano i “12 Angry Men”, in verità ancora abbastanza sereni.
Come scrive Lumet nel manuale autobiografico “Fare un film” edito in Italia da Minimum Fax (lo consiglio a tutti, fan e non) la prima inquadratura della stanza della giuria, che dura quasi otto minuti, è stata una delle illuminazioni più complesse del film. La ripresa inizia sul ventilatore (ne vediamo solo metà) in basso a sinistra dello schermo. Lo schermo è diviso in due dal tavolo dove siederà la giuria, la scena è ripresa dall’alto, i giurati si aggirano per la stanza cercando ognuno la propria collocazione (il giurato n.8 , Henry Fonda è l’unico che guarda fuori dalla finestra); seguono diversi piani americani, almeno uno per ogni  persona. Scrive Lumet: “Mi servii di una gru. La base della gru (il dolly) doveva fare almeno tredici movimenti in quello che era un set piccolo. Il braccio (il boom) sul quale era piazzata la macchina da presa doveva fare almeno undici movimenti diversi a destra e a sinistra e otto in su e in giù. Boris Kaufman impiegò sette ore per illuminare la sequenza. La quarta ripresa fu quella buona.”
Lumet ha collaborato con Kaufman in otto film, tra cui “Pelle di serpente” del 1959 con Marlon Brando e Anna Magnani; la sua predisposizione a una fotografia dai toni drammatici si esprime al meglio nel film di esordio di Lumet.

Una trappola montata ad arte
Per prima cosa annotiamo che nella stanza si soffoca dal caldo. Fatta eccezione per la prima e l’ultima inquadratura – che riprendono l’esterno del Palazzo di Giustizia (e il percorso che conduce dall’atrio all’aula dove si sta tenendo il processo) –  e per una breve incursione nei gabinetti, l’intero film si svolge nella stanza in cui la giuria si riunisce. Come riferisce il giurato n.7 (Jack Warden) l’ufficio meteorologico ha previsto che sarà la giornata più calda dell’anno. Il tempo in senso meteorologico ha quindi la sua importanza, alimenta fin da subito il disagio, moltiplica i gesti di insofferenza dei giurati inzuppando le loro camicie. Il tempo inteso come “cronos” è invece sospeso. Si fa una volta cenno all’ora, più volte il n.7 esorta gli altri a fare in fretta perché ha comprato i biglietti per la partita serale degli Yankees, ciononostante il tempo resta fermo, non ci sono orologi visibili, l’unico riferimento è il calare della luce esterna, che peraltro coincide con l’arrivo del temporale.
La porta della stanza è chiusa a chiave, il ventilatore non funziona, il tempo non scorre.
Lumet aziona la trappola affinandola con una micidiale “trama di lenti”. Per far sì che la stanza sembri progressivamente rimpicciolirsi ha utilizzato obiettivi sempre più lunghi (da 28 e 40 mm, fino a 50, 75 e 100). L’effetto di asfissia, che Lumet riprenderà in altri suoi film (uno su tutti “Quel pomeriggio di un giorno da cani” del 1975) è ulteriormente amplificato dall’altezza della macchina da presa, che riprende inizialmente al di sopra degli occhi, per scendere progressivamente fino ad assestarsi al di sotto degli occhi, provocando così l’illusione che anche il soffitto della stanza si restringa.
Infine il ritmo. Se la trappola è ben montata il dimenarsi della preda – in questo caso dei personaggi e poi dello spettatore – la intrappola ancor di più. Il ritmo è vitale alla riuscita di qualsiasi narrazione.
Scrive Lumet: “Se un film sembra montato male è perché è stato girato male.” Dunque questo film è stato girato decisamente bene. Lumet si affida al montaggio più classico, dosa i colpi di scena e guida lo spettatore nello spargimento del “dubbio” portato avanti prima dal n.8 e poi anche dal n.9 (Joseph Sweeney). I personaggi sono presentati a coppie, poi isolati e riuniti di nuovo in gruppi. Ai piani di insieme si alternano primi e primissimi piani, controcampi e dettagli su mani (la votazione segreta), gambe (Fonda che simula il vecchio testimone claudicante), braccia alzate (l’ultima votazione che riprende il braccio di Warden con il ventilatore finalmente acceso sullo sfondo). Il montaggio ha un ritmo elevato per tutto il film, ma sul finire accelera in modo evidente, contribuendo ad aumentare la tensione e il senso di intrappolamento.

Numeri senza nome
I dodici giurati non hanno nome. Uno di loro si firma Scott, e altri due soltanto alla fine si presenteranno: Davis e McArdle. Il cast è eccezionale, ogni personaggio è caratterizzato alla perfezione e di ognuno si delinea sempre più chiaramente il background. Dar loro un nome non farebbe altro che confondere le idee ed attenuare l’effetto di – straniamento e – immedesimazione. L’eroe è indubbiamente Fonda ma altrettanto eroico e commovente è il monologo catartico del giurato n.3 (Lee Cobbs) mentre alle sue spalle imperversa il – refrigerante, purificatorio – temporale. E come non amare il vecchio 9 e non simpatizzare almeno un poco per il 7? Certo che nel suo caso molto influisce il doppiatore, che è lo stesso di Jerry Lewis e Eli Wallach. Può essere anche divertente – e utile – buttar giù la propria lista di giurati:
n.1) il presidente della giuria ma meglio essere allenatore in seconda Martin Balsam; n.2) il bancario mite alla sua prima giuria John Fiedler; n.3) il padre ferito Lee J. Cobb; n.4) il broker imperturbabile, l’unico là dentro che non suda E.G. Marshall; n.5) il taciturno che come l’imputato ha trascorso l’infanzia nei bassifondi Jack Klugman; n.6) Scott l’imbianchino Edward Binns; n.7) lo yankee che vende marmellate Jack Warden; n.8) l’architetto Davis cavaliere bianco Henry Fonda; n.9) il vecchio occhi di falco Joseph Sweeney; n.10) il raffreddato, bisbetico razzista, isolato poi in una delle scene più teatrali del film Ed Begley; n.11) l’orologiaio russo-americano artefice di una delle battute più belle del film “Abbiamo una responsabilità…è la cosa più notevole della democrazia” George Voskovec; n.12) il pubblicitario indeciso Robert Webber.

Ascoltare
La “comunicazione” intesa come corrispondenza fra due o più persone presuppone il dare e ricevere ascolto. L’ascolto è un valore a cui Lumet non rinuncia. Sul set Lumet ha sempre prestato attenzione alle opinioni dei suoi collaboratori, degli attori, di tutti coloro che contribuiscono alla realizzazione del film. E dell’importanza di ascoltare parla soprattutto questo film. I giurati hanno compiuto pienamente il loro dovere, hanno ascoltato uno dopo l’altro. Nella sequenza finale Lumet usa il grandangolare più grande per concedere il massimo respiro ai giurati che guadagnano l’uscita. Se Davis si fosse limitato a seguire la giustizia, o se poi gli altri non lo avessero ascoltato, non avessero accettato il confronto, un uomo avrebbe perso la vita. Innocente? In fondo non è importante. Così come ho aperto citando uno scrittore che amo, concludo con un altro scrittore che pur in maniera diversa condivide la stessa passione per “l’ascolto” e avversione per il giudizio.

I giudici non sapevano quello che sapevo io e nemmeno facevano la fatica di andare fino in fondo nel destino di un uomo, trattavano tutte le questioni nella stessa maniera, si attenevano ai documenti e ai cosiddetti fatti inoppugnabili e condannavano senza conoscere il condannato e senza conoscere l’ambiente di colui che condannavano e senza conoscere la sua storia e senza conoscere la società che aveva fatto di lui quel delinquente che ora il tribunale bollava per sempre come tale. I giudici si attenevano quasi esclusivamente ai documenti e, con le loro leggi brutali, prive di intelligenza e nemiche del sentimento, distruggevano la persona che veniva condotta davanti a loro. (da “La cantina” di Thomas Bernhard).

http://www.ondacinema.it/film/recensione/parola_giurati.html






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