Homenaje a John Berger by il manifesto, by Viola Amarelli e video

John Peter Berger (Londra, 5 novembre 1926 – Parigi, 2 gennaio 2017) è stato un critico d’arte, scrittore e pittore britannico.

Ways of Seeing: Painting and Possessions : Berger …

Addio a John Berger

Lo scrittore e critico d’arte britannico è scomparso ieri a Parigi. Aveva 90 anni

Parigi. Scrittore impegnato, critico d’arte (un’«etichetta» che tuttavia non amava), giornalista, sceneggiatore cinematografico, autore teatrale e disegnatore, John Berger si è spento il 2 gennaio nella sua casa parigina.
Nato a Londra nel 1926,  Berger negli anni Settanta ha dato un forte contributo alla «democratizzazione» dell’arte portandola in televisione, nel programma «Ways of Seeing», trasmesso dalla Bbc nel 1972. Una serie sullo studio delle immagini e sui modi di vedere l’arte nella vita di tutti i giorni da cui sarebbe nato il libro omonimo, che ha venduto più di un milione di copie (in Italia è pubblicato da Bollati Boringhieri con il titolo Modi di vedere).

Nel 1972, con il romanzo sperimentale G. (la traduzione italiana è uscita presso il Saggiatore) Berger aveva vinto  il Booker Prize, il più prestigioso premio letterario anglosassone. «Non c’è un solo testo di John che non sia permeato di uno sguardo politico», ha dichiarato all’agenzia France Press il figlio di Berger, il cineasta Jacob. «Aveva una posizione politica estremamente forte senza essere un comunista limitato e dogmatico». Berger, prosegue il figlio Jacob,  in fuga da quell’Inghilterra «estremamente anticomunista» degli «anni Cinquanta e degli inizi degli anni Sessanta». si era trasferito da decenni in Francia, a Quincy, in Alta Savoia. Lì è ambientato il recente documentario «The Seasons in Quincy: Four Portraits of John Berger»  (2016), un film prodotto da Colin MacCabe, Bartek Dziadosz, Christopher Roth e Tilda Swinton.

edizione online, 3 gennaio 2017

http://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2017/1/127176.html

John Berger. L’infinito, qui e ora

Gianluca Solla

Ritratti. Intellettuale critico poeta disegnatore narratore e molto altro. Rivoluzionò il modo di leggere i fenomeni e le forme d’arte. A pochi giorni dalla sua scomparsa, un ritratto ne ricpercorre i tratti essenziali

Anni fa circolavano, quasi in forma clandestina, spediti da amici in diverse occasioni, gli articoli di un tal John Berger. In casa ne arrivarono prima uno su Picasso, poi un altro, mi sembra su Caravaggio. Uno ancora sulla casa natale di Gramsci a Ghilarza.

Quest’ultimo portava un titolo splendido, qualcosa come vivere con le pietre. Di questo Berger non si sapeva molto. Eppure, quasi si fossero messi d’accordo tra loro, i diversi mittenti erano certi di una cosa: bisognava leggerlo perché, a qualsiasi oggetto si volgesse la sua scrittura, qualcosa d’impareggiabile accomunava testi tanto differenti. Al lettore non veniva proposto un sapere. Veniva donata un’immagine, una visione. Da ogni testo trapelava un calore insolito verso ciò che descriveva. Le sue immagini non avevano niente di patinato, anche quando si occupava di pubblicità. Non c’era lì niente di una pura rappresentazione. Invece, in maniera sorprendente, la sua scrittura accedeva a una dimensione che ancora oggi non saprei come altro definire se non plastica. Dal centro delle cose sorgeva una parola inaudita proprio perché queste venivano restituite alla loro plasticità. Erano lì, le si poteva finalmente toccare.

Nella scrittura di Berger le cose non sono mai meri oggetti di studio. Non c’è nulla di immobile, qui. Non sono immagini statiche. Sono sempre volti vivi a guardarmi. Vederli significa immergersi in loro, non ritornare indietro senza che qualcosa abbia nel frattempo trasformato lo sguardo di chi guarda. Le cose ci toccano. Solo così si fanno pensiero. Vedere e toccare risultano qui intrecciati in una trama insolubile. Vedere significa toccare con lo sguardo. Ma a questo primo movimento, se ne accompagna subito un altro: vedere non significa altro se non essere toccati dalla propria visione. Là qualcosa si spinge verso noi. Non si accede mai alla visione dalla comoda distanza tra lo spettatore e il mondo. Piuttosto è solo in quanto diventa vertigine che l’immagine si fa pensiero, lascia vedere il tempo che contiene. Diventa una presenza tattile, difficile da dire, ma indimenticabile. Perché, per quanta confusione visiva e motoria la sua vertigine possa produrre, è da quella visione che proviene un invito al viaggio, all’esperienza. Un appello all’ascolto del mondo. Della sua bellezza
Ma l’esperienza di questa bellezza non è mai una percezione. È invece qualcosa che impressiona il nostro stesso sguardo, che gli si imprime, lo tocca, magari ferendolo. È una commozione, certo, ma in quanto una commozione è sempre un’avventura carnale. Se qualcosa si vede, è unicamente in forza della carne dell’occhio, mai di una capacità astratta che l’uomo possa rivendicare per sé. Per questo stesso motivo, l’esperienza non è mai contenuta nel ricordo, ma unicamente nel cambiamento indissolubile che imprime sul nostro di vedere, di pensare, di vivere. Non c’è esperienza che nel cambiamento. Potrà essere lento o precipitoso, evidente o inapparente. In tutti i casi dovremmo imparare a farne i conti col tempo.

L’insegnamento di Berger ci porta con decisione in questa direzione. Non: ho visto qualcosa di bello. Ma la bellezza mi è apparsa, mi ha guardato, mi ha toccato. Questo significa: entrarne a farne parte, essere parte della bellezza che ci ha colto. Esserne cambiati e, in un certo senso, esserne salvati. Senza bisogno di alcun’altra salvezza se non di questa che sorge qui e ora dal mezzo delle cose. In mezzo alla vita che ha così occasione di incontrare se stessa.
Questo accade perché il tempo vive nelle cose. Porta un’altra vita, una vita segreta, al loro interno. Se le storie sono incommensurabili, è a ragione di tutto il tempo contenuto in loro. Il tempo della scrittura, il tempo del racconto, il tempo dell’ascolto, aprono a una dimensione inaudita. È per questo che in tutta la sua fragilità la voce della letteratura e del pensiero dev’essere potente. Non si lascerà piegare, né spiegare: è una dimensione intrattabile, in cui accelerazioni e rallentamenti, modulazioni e intensificazioni, fanno parte della capacità umana, oggi per lo più dimenticata, di trasformare il mondo, trasformandosi.

Se di qualcosa in particolare Berger è il pensatore, lo è certamente di quanto in ogni esperienza non è mai finito, ma continua ad accompagnarci, e con cui non si finisce mai di fare i conti. Nell’impermanenza del presente, nella relativa inapparenza con cui accadono fatti anche decisivi, questo cuore segreto dell’esperienza è quanto ci permette di continuare a guardare e, insieme, a imparare a guardare. Senza fine.
Proprio per questo Berger è anche capace di parlare di un tabù ormai consolidato. Non della morte – astrazione tra le mille di una vita che sempre di più tende a evitare la fatica di fare i conti con se stessa – ma dei morti. Di cui, ha scritto una volta, noi vivi non conosciamo la lingua. Né le nostre storie vengono lette da loro. Eppure c’è stato un tempo in cui i vivi non rinunciavano al loro dialogo con i morti. Ed erano così più vicini alla loro stessa vita.
Anche solo per dirlo, per pensarlo, era necessario inventare una scrittura, un altro genere. Al di là dei gerghi consolidati, anche quelli della militanza e dell’impegno. Non era una questione di stile, ma di un’urgenza: quella di far emergere parole che, nella loro estrema semplicità, potessero davvero vibrare dell’esigenza che le animava. Indubbiamente questo spingersi oltre è un tratto costante dell’avventura intellettuale di Berger, che ha nell’infinito la sua misura: andare oltre, suscitare un desiderio che apre a una scoperta, partire, accogliere l’invito all’esperienza…

Esistono pensatori che sono come Sherazade: sono voci che tengono sveglio il mondo, che lo tengono aperto rispetto alle immense domande che lo attraversano in ogni tempo. Ci sono pensatori la cui voce è una colonna del tempo. È già essa una forma di giustizia. Di resistenza contro quella che – parlando di Hieronymus Bosch, Marcos e della Guerra Fredda – Berger chiamava la grande disfatta del mondo. Sono rari e tanto più preziosi, questi pensatori. Ancora di più in un momento in cui è la vita stessa a sembrare così invivibile ed è facile perdere di vista le cose essenziali. Il loro canto è coraggioso senza arroganza. Si leva in alto perché sa stare vicino alle cose in basso. E per questo è la memoria del mondo. È un canto della perdita, perché solo lì può sorgere qualcosa di nuovo. È una canzone che porta nel riso il suo seme. È una mescolanza di durezza e tenerezza, le cui modulazioni ci sono entrambe così essenziali, come l’aria o la luce. È una benedizione.
John Berger appartiene indubbiamente a questa compagnia. Lo dobbiamo anche al suo canto se, malgrado tutto, riusciamo ancora a immaginare di stare in contatto con una realtà che o ci travolge o ci sfugge. È questo pensatore dell’infinito, di un infinito laico, umile, dimesso, ma non senza un suo singolarissimo coraggio, che oggi salutiamo e ringraziamo. Della sua capacità sorprendente di farci vedere come quest’infinito non è altrove, ma qui e ora.

http://ilmanifesto.info/john-berger-linfinito-qui-e-ora/

il fuoco dello sguardo (collected poems) – John Berger

Viola Amarelli

Personalità poliedrica e originale, John Berger in tutti suoi lavori di pittore, critico d’arte, romanziere, saggista e sceneggiatore ha sempre confermato la sua principale attitudine: quella di osservatore e di attento ascoltatore dell’esperienza sociale e politica che indaga con tangibile empatia, filtrata anche dalla sua matrice marxiana,. La sua produzione poetica si è dipanata nel corso dei decenni (Berger è nato nel 1926), più che in singoli, autonomi libri, in saggi, racconti e romanzi e, raccolta nei “Collected poems” nel 2014, è stata meritoriamente tradotta e curata da Riccardo Duranti nel volume “il fuoco dello sguardo – collected poems” (coazinzolapress), titolo che rinvia al clinamen testimoniale della scrittura di Berger, oltre che ai suoi noti saggi in materia di fotografia e alla sua attività artistica e critica.

La struttura del libro – che raccoglie in maniera non diacronica testi che vanno dagli anni ’50 al primo decennio di questo millennio – si articola in sezione tematiche: da quelle di riflessione metapoetica (“Words”) a quelle di interesse storico e sociale (“History”, “Emigrations”) avvicinandosi poi con “Places” anche all’osservazione di una realtà contadina che è stato al centro di lavori di ricerca di Berger alla fine dello scorso millennio, per concludersi poi con “My love” in una sorta di cantilenante sussulto e rispetto per gli affetti, umani e non.

La scrittura poetica scorre, in questa raccolta, secca e rigorosa, scarsamente indulgente a intonazioni liriche, delineando con tratti essenziali allegoremi trasparenti e di vivida concretezza figurativa, come ad esempio in “History” (cfr infra) dove il ciclo vivo/morto traccia il corso crudo e dolente di tutte le “storie”, grandi e piccole, o in “Mestolo” (cfr infra), che dispiega ad universo l’interno ritmato dai bisogni primari di una cucina contadina L’inclinazione visuale che è all’origine di tutta l’opera di Berger è ovviamente più evidente nelle poesie dichiaratamente ispirate ad opere d’arte: dal magnifico “Rembrandt Self-portrait”(cfr infra),  sintesi di una sinestesia al negativo che è un saggio d’arte, all’ “On a Degas bronze of a dancer” sino a “Veduta di Delft”, ma rileva anche nella plateale costruzione pittorica di “Ypres” (Base: campi di fango gonfio d’acqua// Perpendicolare: esili larici….// Orizzontale: muri di mattone…//) e nell’anafora della V poesia del poemetto Ramauran (Che il disegno si rizzi) fino a giungere a un impasto – fortemente indicativo della commistione arte/vita presente nella poetica di Berger – nella poesia dedicata ai partigiani friuliani di Cervignano (Giorgione ha dato un nome a questa luce).

La capacità di aderire alla “narrazione” fondendosi quasi in maniera advaita all’osservato, che resta peraltro nel pieno risalto della sua crudezza e realtà, è tra i punti di forza di tutta la scrittura, non solo poetica, di Berger, per la quale spesso viene evocato il termine ‘magia’. Da tale prospettiva, liminale proprio perché quasi erosiva del confine tra sperimentatore e sperimentato (e faccio un passo avanti per diventare/ il riflesso color miele/nell’iride dell’occhio del primo venuto), l’autore restituisce con piena partecipazione “le contraddizioni e le ferite del mondo”, come giustamente nota Duranti. La com-passione, nell’accezione etimologica del termine, di questo sguardo/guardato traspare in maniera esemplare nella sezione “Emigrazioni” (Portiamo la poesia/come i carri bestiame del mondo/ portano le bestie./Presto dalle fiancate/ le faranno scendere) ma anche in numerosi still life di “Places” dove la stessa morte, umana od animale, diventa momento di estrema dignità e di rispetto del ciò che è stato (Da morta sembrava alta lo stesso/……/ma la spalla destra/era più bassa della sinistra/per via di tutto quello/che s’era caricata.). Nel fronteggiare il dolore, persino negli aspetti più crudi (becchettano a casaccio/le gengive attorno ai denti/gli occhi gelati sono aperti) e lottare per i marginali, Berger non dimentica né mai rinuncia a dire l’affetto: tutta la notte sentirà/ la verità come una ninnanna, restituendo alla poesia una dimensione di etica integrità.

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Testi

Narratori

Scriviamo
accucciati ai piedi della morte
siamo i suoi segretari

Leggiamo al lume della vita
e ne compiliamo i libri mastri di pietra

Dove lei finisce,
colleghi miei,
cominciamo noi, ai lati della salma

E quando la nominiamo
è perché ormai
si sa che la storia è quasi finita.

1984

Story Tellers

Writing
crouched beside death
we are his secretaries

Reading by the candle of life
we complete his ledgers

Where he ends,
my colleagues,
we start, either side of the corpse

And when we cite him
we do so
for we know the story is almost over.

1984

Parole migranti

In una sacca di terra

ho sepolto tutti gli accenti

della mia lingua madre

riposano lì

come aghi di pino

raccolti da formiche

un giorno il grido malfermo

di un altro vagabondo

potrebbe incendiarli

allora caldo e confortato

tutta la notte sentirà

la verità conme una ninnananna

1980

Migrant words

In the pocket of the earth

I buried all the accents

of my mother tongue

one day the stumbling cry

of another wanderer

may set them alight

then warm and comforted

he will hear all night

the truth as lullaby

1980

La Storia

Il polso dei morti

                  incessantemente

costante come il silenzio

che intasca il tordo.

Gli occhi dei morti

                     iscritti nei nostri palmi

mentre percorriamo questa terra

che intasca il tordo.

anni ‘ 80

History

The pulse of the dead

as interminably

constant as the silence

which pockets the thrush.

The eyes f the dead

inscribed on our palms

as we walk on this earth

which pockets the thrush.

Rembrandt, autoritratto

Dal volto gli occhi
due notti che guardano il giorno
l’universo della sua mente
raddoppiato dalla pietà
nient’altro può bastare.
Davanti a uno specchio
silenzioso come una strada senza cavalli
ci ha immaginato
sordomuti
che attraversano il paese
per guardarlo
al buio.

1975

Rembrandt Self-portrait

The eyes from the face
two nights looking at the day
the universe of his mind
doubled by pity
nothing else can suffice.
Before a mirror
silent as a horseless road
he envisaged us
deaf dumb
returning overland
to look at him
in the dark.

1975

da “Otto poesie di emigrazione”

I  Villaggio

Te lo dico io

                 tutte le case

sono buchi in un culo di pietra

mangiamo  sui coperchi delle bare

tra la stella della sera

                 e il latte in un secchio

c’è il nulla

il bidone del latte si svuota

                due volte al giorno

gettaci

              fumanti

                               nei campi.

anni ’80

from Eight poems fo Emigration

I Village

I tell you

all the houses

are  holes in the arse of stone

we eat off coffin lids

between evening star

and milk in a bucket

is nothing

the churn in emptied

twice a day

cast us

steaming

on the fields.

anni ’80

Mestolo

Luna di peltro

butterato del mestolo

che sorge dal monte

e tramonta nella casseruola

per servire intere generazioni

fumante

dragando quel che è nato da seme

nell’orto

addensato da patate

e che ci sopravvivrà tutti

nel cielo di legno

della parete della cucina.

Madre che serve

dal petto di peltro fumante

venato dai sali

dati da mangiare ai figli

affamati come cinghiali

con la terra serale

incrostata nelle unghie

e il pane fratello

madre che serve

Mestolo

versa il cielo fumante

con il sole carota

le stelle di sale

e il grasso della porca terra

verso il cielo fumante

mestolo

versa la zuppa per i nostri giorni

versa il sonno per la notte

versa anni per i miei figli

1977

Ladle

Pewter pock-marked

moon of the ladle

rising above the mountain

going down into the saucepan

serving generations

steaming

dredging what has grown from seed

in the garden

thickened with potato

outliving us all

on the wooden sky

Serving mother

of the steaming pewter breast

veined by the salts

fed to her children

hungry as boars

with the  evening earth

engrained around their nails

and bread the brother

serving mother

Ladle

pour the sky steaming

with the carrot sun

the stars of salt

and the grease of the pig earth

pour the sky steaming

ladle

pour soup for our days

pour sleep for the night

pour years for my childre

1977

http://www.carteggiletterari.it/2015/12/09/il-fuoco-dello-sguardo-collected-poems-john-berger/


Homenaje a John Berger (III) –

Homenaje a John Berger (III) – YouTube


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