2 post su Post-verità e Storytelling by doppiozero

Storytelling versus verità

“Che cosa è la verità”? (Giovanni, 18:38)

La verità non prospera nella nostra epoca di pragmatismo anche filosofico. Il pragmatismo è stata la filosofia più influente nel XX secolo, e si riassume nell’idea che in fin dei conti è vero ciò che è utile. E oggi è massimamente utile (per certi) sfruttare ciò che la massa crede sia verità. Nell’antica Roma per tenere buona la plebe si davano a essa panem et circenses, pane e spettacoli; oggi per conquistare il suo consenso le si danno in pasto pseudo-verità.

Nelle campagne di gran parte d’Europa, anche in Italia, è diffusa questa “informazione”: che da un aereo vengono lanciate vipere nelle campagne. Siccome le vipere sono a rischio estinzione, per mantenere l’equilibrio ecologico occorre immetterne esemplari. Questo a opera della Forestale o di qualche altro ente statale. È una leggenda metropolitana, anche se questa leggenda è virale in zone rurali, non nelle metropoli.

Quando cerco di convincere qualche contadino o contadina che la cosa non è possibile – perché un fatto del genere finirebbe sulle prime pagine dei giornali e innescherebbe un poderoso attacco al governo, ecc. – fallisco puntualmente.

Penso che un Trump italiano che puntasse al voto rurale non si farebbe scrupoli a utilizzare una leggenda di questo tipo. Il Trump vero non ha fatto molto diversamente durante la sua campagna elettorale per le presidenziali. Ha avallato leggende metropolitane come quella secondo cui Obama sarebbe nato fuori degli Stati Uniti, e simili. È la postverità, termine così inflazionato oggi che ho quasi vergogna a scriverlo: ripetere dicerie e leggende che piacciono al proprio elettorato o pubblico, che vuole crederle vere.

Una forma diffusa di menzogna consiste nel dire che l’avversario mente. Trump durante la campagna diceva che i dati ufficiali sulla disoccupazione in America, il 4,9% (alquanto bassa), erano falsi, che la disoccupazione era del 30 o addirittura del 40%. Si confrontano quindi due accuse contrapposte di falsità, e la gente crede che le due denunce di falsificazione siano sullo stesso piano. Ben pochi vanno a verificare su wikipedia.

Quanto all’ingenuità di chi vorrebbe controllare dall’alto le bugie che si diffondono, in particolare attraverso il web: non è che la gente creda in certe idee perché legge o ascolta delle fandonie, ma crede in quelle fandonie perché ha già quelle idee. Voler controllare il web è come voler controllare la comunicazione bocca-orecchio, che è sempre esistita. Non credo affatto che i rumors di oggi siano prodotto della tecnologia e della rete, anche se la rete le amplifica più rapidamente. Nel 1630 durante la peste in Italia quasi tutti credevano negli untori, eppure non c’era il web.

Si dice che la campagna elettorale di Trump contro Clinton potrebbe marcare una svolta storica: ormai il politico può impunemente dire falsità, tanto la smentita non cambia nulla. Fino a non molto tempo fa i politici, per quanto potessero essere demagogici, stavano attenti a non dire bufale o sciocchezze perché sarebbero stati sconfessati da istanze autorevoli. Ma la democrazia sta facendo passi da gigante: le istanze autorevoli non hanno più molta autorità sulla gente. Se si è convinti di qualcosa, la si corazzerà contro qualsiasi falsificazione. E contro qualsiasi potere intellettuale. Anzi, chi denuncia la bugia viene sospettato di essere complice di chi vuol nascondere la “verità” (è il famoso complottismo).

La massa di chi sa poco e può poco si ribella contro le élite soprattutto intellettuali. La post-verità è prima di tutto post-cultura, diffidenza per gli “esperti”. E difatti, pare, moltissima gente non crede in molte verità scientifiche assodate. Respingono il copernicanesimo insegnato a scuola, sono convinti che sia il sole a girare attorno alla terra. Milioni, soprattutto in America, non credono nel darwinismo, e nel fatto che Homo sapiens sia effetto di un’evoluzione biologica. Molti nostri simili che usano l’iphone vivono cognitivamente nel Medio Evo, perché hanno scelto di viverci. Quando parlo con molti miei compatrioti, ho l’impressione che loro e io viviamo in epoche e mondi diversi. Non c’è bisogno di una macchina del tempo per fare un viaggio nel passato (o nel futuro?).

Un censimento dell’Eurispes ha appurato che in Italia nel 2009 operavano 155.000 maghi e astrologi; che ogni giorno 33.000 italiani si rivolgevano a un mago o astrologo, in totale 11 milioni di persone usavano questi servizi. Bisogna dire che l’81% di questi utenti di occultismo non aveva un titolo superiore a quello della scuola media inferiore. Ma anche gli intellettuali hanno le loro leggende e magie.

Cosa c’entrano le superstizioni con le bugie che raccontano certi politici? In fondo le superstizioni sono bugie che si impadroniscono della nostra vita quotidiana. Quanto alla linea di demarcazione tra dicerie (tipo quella delle vipere) e bugie politiche (tipo che Obama è nato all’estero) mi pare che essa sia molto incerta.

Varie inchieste nel mondo occidentale – dove pure il livello di istruzione medio aumenta sempre più – mostrano che una parte cospicua della popolazione crede negli spiriti, nella reincarnazione, nelle streghe, nella telepatia, nella comunicazione con i morti, ecc. (vedi la tabella qui sotto). Se tanta gente crede in tutto questo, è facile fargli credere che l’effetto serra sia una bufala messa in giro dalla sinistra, come ha sentenziato Trump.

Perché la gente crede a tante storie anche se smentite da persone affidabili? Perché queste storie confermano il loro storytelling. Fino a non molto fa si diceva “narrazione”, ancora prima – in epoca marxista – si diceva “ideologia”. Poi, sulla scia di Christian Salmon, si è passati a storytelling. È quel racconto della vita e della società che ciascuno di noi – anche chi scrive – si fa. Ognuno di noi si costruisce delle storie che gli permettano di rendere il mondo liscio e comprensibile come se fosse un film hollywoodiano. Lo storytelling è un insieme di soffici piumini e cuscini su cui riposare comodamente la propria mente, ma questi piumini sono anche una prigione che ci isola dolcemente dalla realtà.

Mi aspetto l’obiezione: “Se ammetti che non possiamo fare a meno di storytelling, e che quindi anche questa tua critica dello storytelling è uno storytelling, non è tua arroganza criticare le storie degli altri?” Credo che le nostre storie non siano tutte sullo stesso piano: alcune ci difendono dal reale, altre ci mettono in contatto scabro col reale. Spero che la mia storia sia di quest’ultimo tipo.

Quando si è dominati da una story, bufale, sciocchezze o fantasie che la confermano verranno accettate come vere. Un qualsiasi fatto o “fattoide” per essere creduto deve avere consonanza narrativa: ovvero, deve confermare la storia che ci si racconta sul mondo. Secondo questa consonanza, un personaggio classificato come cattivo non potrà mai fare cose buone, solo cattive; un personaggio classificato come buono potrà fare solo cose buone. E le smentite fattuali sono vane, perché conta solo la consonanza.

Lo vedo bene quando mi capita di discutere ad esempio con xenofobi. Qualsiasi argomento razionale contro la loro narrazione è puro fiato. Dico che gli immigrati producono ricchezza, che quello che spendiamo per loro è inferiore a quello che producono;  che se la gente vuole immigrare da noi è segno della nostra relativa ricchezza, milioni sono emigrati in America perché era un paese prospero; che gli immigrati sono per lo più giovani e quindi compensano l’invecchiamento della nostra popolazione; e così via argomentando. Ora, da parte dello xenofobo non vengono contro-argomenti: semplicemente quello che dico gli entra da un orecchio e gli esce dall’altro. Non vengo nemmeno ascoltato, le mie sembrano solo elucubrazioni da intellettuale. Se non confermi quello che l’altro pensa, elucubri.

Sarebbe falso dire che prigionieri del proprio storytelling siano solo le persone meno colte. Parlando con molti intellettuali non è diverso, anche se l’intellettuale sa argomentare meglio la propria narrazione. Un amico intellettuale mi dice, per esempio, che la guerra civile in Siria è colpa del capitalismo. Del resto, per lui tutto quello che non va è effetto del capitalismo. La mia obiezione – che quella in Siria è soprattutto una guerra tra shiiti e sunniti, e la loro differenza è di secoli anteriore al capitalismo – non lo scalfisce.

Le persone che ascoltano veramente le opinioni contrastanti e sono disposte a mettere in questione le proprie sono socialmente trasversali; lo spirito critico sembra essere quasi un dono di natura (o piuttosto un danno di natura). Ma queste persone sono una piccola minoranza. A pochi è dato di sfuggire alla ferrea corazza delle consonanze narrative, e di non guardare il mondo eyes wide shut.

Nella società fondata sui sondaggi contano i numeri delle opinioni. Si promuove un libro o un film sbandierando il successo di pubblico che hanno avuto: siccome qualcosa si vende bene, ipso facto è cosa buona. Se un’opinione è maggioritaria – mettiamo, che esistono gli UFO – questa viene avallata come vera. Talvolta ho proposto a riviste con cui collaboro di affrontare argomenti controversi, che insomma mi avrebbero fatto perdere lettori; puntualmente queste mie proposte sono state respinte. Non che i redattori non condividessero quel che io volevo dire, al contrario – ma sapevano che così avrebbero irritato molti loro lettori. E non dico quali fossero queste mie opinioni impopolari, altrimenti perderei lettori anche su Doppiozero. Siamo soggetti a una censura che non viene da Putin o da Xi Jinping, ma dal mercato: non bisogna confutare le favole in cui credono molti lettori. Da qui l’industria del consenso, industria sviluppatasi con la democrazia, i media e la demagogia. Questa industria sposa lo storytelling che domina la massa.

Forse bisognerebbe cominciare a spiegare alla gente che avere ed esprimere un’opinione è un diritto, ma questa non ha di per sé un valore. L’importante è qualificare le proprie opinioni. Ma oggi conta la quantità e non la qualità.

Ho sostenuto altrove (Dicerie e pettegolezzi, Il Mulino, 2000) che tutte le leggende metropolitane, o bufale che dir si voglia, puntando sulla consonanza narrativa, svolgono una stessa funzione: confermare i propri desideri. La credulità serve a soddisfare il proprio desiderio. Prendiamo la diceria delle vipere gettate dall’aereo. Dietro la faccia di informazione oggettiva, essa è di fatto un attacco all’ecologismo. I contadini odiano gli ecologisti in quanto questi vorrebbero tornare a una natura incontaminata dall’uomo, o addirittura trasformare la natura coltivata in natura selvaggia, mentre il contadino vuole umanizzare la campagna, dominarla, renderla produttiva e controllabile per l’uomo. La storia delle vipere conferma quindi la pessima immagine che la gente delle campagne ha dei “verdi”, e l’idea che ormai l’ideologia ecologista domini lo stato, la politica, gli enti forestali… Alla radice della leggenda c’è un desiderio politico: denunciare il pericolo ecologista.

Come abbiamo visto, quando si attacca una parte politica avversa, si dice “loro raccontano un sacco di balle”. Ciò che non si condivide viene letto come menzogna. Ovvero, la verità appare tale sempre al di dentro di uno storytelling. Ha fatto rumore l’attacco di Grillo ai giornali italiani perché sarebbero pieni di falsità, ovviamente sul suo movimento. Scommetto che Grillo sia in buona fede – e questa è la cosa grave – che cioè davvero consideri menzognere le cose che scrivono i giornali, quando lo mettono in cattiva luce. Le vede come bugie perché non aderiscono al suo storytelling. Le idee diverse dalla propria appaiono menzogne così come idee nuove, inedite, appaiono “difficili”.

Oggi si suol ripetere la frase di Nietzsche, “non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Ma io spero che anche se occorre comunque interpretare per riconoscere fatti, ci siano fatti che ci portino verso il reale. Quello che, prima o poi, smentisce tutti i nostri storytelling.

http://www.doppiozero.com/materiali/storytelling-versus-verita

Post-verità. La fine della verità o la verità nei post?

Avevo cominciato a raccogliere articoli sulla post-verità successivi all’ingresso del termine nel dizionario di Oxford. Come per i superalcolici, ho dovuto smettere. Troppi, la maggior parte dei quali maledettamente nocivi. Sembra che la questione appassioni chiunque, e per ragioni non sempre uguali, anzi il più delle volte contrapposte. C’è chi rimpiange la verità che non c’è più, dando la colpa della sua dissipazione a destra e a ultradestra. E c’è chi inneggia a un post- che più che ‘dopo’ sembra indicare i contenuti pubblicati su blog e social (“vorrei ma non posto”, canta il post-saggio). La post-verità è la fine della verità o la verità nei post? Per amor di significante, secondo certuni le cose coincidono. Così, c’è chi lancia strali contro le imposture, e chi sostiene che la verità è la vera impostura. Le bufale spopolano, come anche i loro cacciatori. A risentirne sono le mozzarelle, verso cui, peraltro, si dirigono i sospetti dei gourmet consapevoli. Che le bufaline siano una bufala? Povero Gesualdo. E l’alétheia greca, ormai postata nei Quaderni neri, che fa? gioca ancora a nascondino?

Si potrebbe continuare con i birignao, tutti attestati, tutti in odor di sanità. E allora facciamolo, quanto meno per ricordarne uno importante, che baratta la post-verità con la post-verificabilità. A saltare non è l’adeguamento delle parole e delle cose, a cui non credono manco i nipotini di Tommaso, ma la verifica quotidiana dei fatti: ossia la corrispondenza rassicurante fra il dispaccio di agenzia e l’enciclopedia che sta in redazione. Come mai? Per colpa di Internet che ci subissa di wikipedie? Macché. Piuttosto, le grandi testate anglosassoni, tagliando posti (ah!), chiudono il loro Ufficio Verifica dei Fatti, affidando al biondino tatuato con voucher d’ordinanza il compito di surfare a più non posso sul web; e quello, strafatto dalle canne, va su Facebook a sparare like con i compagni d’asilo. Insomma, la verità vera costa parecchio, e lavorando di spending review si finisce per congedarsi da essa. Come Vattimo nel titolo di un suo libro. Dal canto suo Jay McInerney, nelle Mille luci, preferiva la bianca boliviana all’erba di casa mia: e lavorava proprio a controllare la fattibilità dei fatti. Da cui logicissima, appunto, la post-verificabilità.

Proviamone un’altra, che non m’è capitato di leggere nella zoppicante rassegna stampa in mio possesso. E se alla verità sostituissimo la verosimiglianza? In fondo, è a quest’ultima che ci siamo appigliati per decenni, cercando di mostrarne, a valle, gli esiti euforici sul popolo bue e, a monte, i meccanismi della sua costruzione in mano ai tycoon dell’ultimora. Mentre i teorici del romanzo proponevano la sospensione dell’incredulità nella lettura di Cervantes e di Proust, i media la diffondevano per i loro prodotti, mescolando furbamente informazione e intrattenimento. La storia è nota, e non è una storia, cioè una bufala: è la verità, perché è verosimile. Insomma, la verità è un effetto di senso, l’esito finale di una serie di procedure di discorso che mirano a essa, che provano cioè a suscitare nel pubblico una buona dose di credulità. Dir vero è far credere. Dunque emettere fiducia, essere simpatici, cioè autentici, credibili: veri. Il marito di Hillary, lui, non perdeva le elezioni, nonostante fosse traditore, menzognero e puttaniere, perché ispirava simpatia, e dunque fiducia, e dunque verosimiglianza. Le prove provate della sua maramalderia, straordinariamente trash, non potevano far breccia un popolo perbenista e pruriginoso come gli abitanti dell’Iowa. La verità, verosimilissima, era dalla sua parte.

Botticelli, Calunnia

Qual è allora, se c’è, il problema? Con buona probabilità, a esser saltata è proprio l’esigenza di verosimiglianza, la necessità di ispirare fiducia e di aver qualcosa – o qualcuno – in cui credere. A forza di spacciare storytelling a basso costo, nessuna storia viene più costruita col chiodo appeso al muro nella prima pagina e il protagonista che vi si impicca nell’ultima (Checov? Maupassant? Pirandello?). Le storie che si raccontano nei vecchi e nuovi media – slabbrate, frammentarie, appiccicaticce – non hanno nerbo, cioè struttura, cioè coerenza, cioè verosimiglianza. E nessuno, abituatosi a quest’andazzo, sente l’esigenza di verificarne, non l’adeguatezza col reale, ma la verosimiglianza interna. Oppure, al contrario: dato che non è più un valore assoluto il famigerato tout se tient (linguistico prima ancora che narrativo), nessuno intende praticarlo. E si raccontano storie, cioè balle, come gli autoritratti pompati – e postati – sui social, i reportage giornalistici in zone di post-conflitto, le serie tv sui papi in erba.

Così, rimasti senza lavoro i narratori d’una volta, tutti chiacchiere e distintivo, devono parallelamente riciclarsi i critici a tempo pieno del Sistema: accettando di cambiare l’oggetto della loro decostruzione, o forse la decostruzione medesima, dato che niente viene più costruito, niente si vende come dispositivo brandizzato di verosimiglianza assicurata.

Resta il problema del post. Particella che si nutre della sua equivocità. Possiamo supporre che una delle ragioni dell’entusiasmo per la post-verità, o meglio per la formula linguistica che la designa (arruolata appunto nel dizionario), sia la memoria della post-modernità, o meglio della formula che la designa. Il cui successo, tanto inaspettato quanto planetario, ha creato, si sa, non poche invidie. Tutti a cercarne una migliore, nessuno a riuscirci. Tant’è che circola ancora adesso. Ma il povero Lyotard, spiegandolo ai bambini, ricordava che il ‘post’ del postmoderno non è un dopo ma un inveramento (oddio), e cioè lo sviluppo logico di alcuni presupposti taciti. Il postmoderno non è quel che c’è dopo il moderno ma quel che non poteva non succedere dati i presupposti su cui il moderno intendeva basarsi. C’è ormai nei manuali del liceo: solo i media non lo sanno. Messa così, la post-verità è la sua verità: e non poteva che finire in questo modo. Se essa, la verità, è la solidificazione di antiche metafore (Nietzsche), filando la metafora, ciò che è solido può anche liquefarsi, e poi divenire gas. Gas inerte, nobile, raro. Cfr. Primo Levi, Il sistema periodico, capitolo 1.

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