Barry Lyndon: la pittura come “operatore di coerenza”

Autore Chiara Tartagni:: 7 Maggio 2014

Se la cultura visiva del Settecento è presente in buona parte della cinematografia di Stanley Kubrick, Barry Lyndon ne è l’esempio compiuto, nonché la prova di uno speciale rapporto fra il regista americano e il XVIII secolo
Tratto da un’opera meno nota dello scrittore inglese William Thackeray (1811-1863), Barry Lyndon (1975) rischiava fin dall’inizio di essere un fiasco commerciale. L’interesse di un cineasta come Stanley Kubrick nei confronti di un romanzo appartenente alla tradizione picaresca non è semplicemente spiegabile con un’improvvisa infatuazione: il regista coglierà il lato più oscuro della narrazione, svuotando volontariamente i personaggi e la narrazione del loro spessore originario, e dando quindi adito al sospetto che sull’estetica e sulla cultura del Settecento «sia fondata anche la sua concezione del cinema»[1].

Numerosi sono nella cinematografia di Kubrick i riferimenti al XVIII secolo: dal palazzo divenuto presidio militare in Orizzonti di gloria (1957) alla Lady Hamilton dietro il cui ritratto muore Humbert in Lolita (1962), dalla stanza in stile Luigi XVI in cui Bowman consuma la sua ultima cena in 2001 Odissea nello spazio (1968) fino all’elegante redingote di Alex in Arancia meccanica (1971). Legittimo successore dell’abortito progetto Napoleon, Barry Lyndon si basa su di un romanzo ambientato nel XVIII secolo e scritto nel XIX, secondo Alberto Crespi con peculiare intenzione: ciò a causa della «necessità, da parte di Kubrick, di un approccio mediato alle problematiche culturali di questo secolo, consentito dall’uso di un romanzo ottocentesco che del ‘700 facesse una consapevole satira (letteraria e di costume), dandone una ricostruzione “fantastica” come è costretto a fare, giocoforza, il cineasta di oggi»[2]. Tale percorso cronologico darebbe vita a un «raffreddamento della fonte» che si allontana sia dall’«utopia ordinatrice del romanzo illuminista (per cui le contraddizioni del mondo vengono riassorbite nello scioglimento dell’intreccio, nel potere demiurgico del narratore)», sia dai «termini moralistici e vittoriani da cui parte Thackeray per criticarla, avvicinando il film, più che a Thackeray, alle sue fonti dirette», ovvero la letteratura inglese del Settecento[3]. Redmond Barry è una sorta di Napoleone Bonaparte stinto, impotente di fronte alla Storia, in quanto gradualmente svuotato di significato dall’occhio documentativo della macchina da presa. In questo contesto, il film «è solo un’immagine della durata»[4], una fotografia dello scorrere del tempo (e non dimentichiamo che Kubrick diede inizio alla sua carriera proprio in veste di fotografo).
Le innumerevoli citazioni dall’arte del XVIII secolo riscontrabili in Barry Lyndon, di cui ci danno testimonianza lo scenografo Ken Adam[5] e la creatrice dei costumi Milena Canonero[6], spaziano dall’opera di pittori inglesi come Thomas Gainsborough, Joshua Reynolds, William Hogarth e George Stubbs, fino ai tedeschi Johann Joseph Zoffany e Adolph von Menzel, del quale resta celebre il Concerto di Federico il Grande a Sans Souci nel 1750 (1854). In particolare l’opera di Menzel, unico pittore fra quelli citati ad aver operato in pieno Ottocento, resta senz’altro ispirazione primaria per le scene notturne girate a lume di candela. Non solo: Adam segnala anche i francesi Jean-Baptiste-Siméon Chardin, di cui si ritrovano i colori polverosi e soavi in alcuni primi piani e nella vaporosità pastello di alcuni costumi, e Jean-Antoine Watteau, dei cui Imbarchi per l’isola di Citera (1718) recano evidenti tracce i piani lunghi. L’elenco degli artisti esplicitamente nominati dallo scenografo si conclude infine con il sorprendente Daniel Nikolaus Chodowiecki, «un artista polacco che ci affascinava entrambi, un maestro nel disegno e nell’acquerello, che aveva uno stile estremamente semplice e un notevole senso della composizione»[7]: proprio dalla peculiare abilità compositiva di Chodowiecki, riscontrabile nelle sue incisioni ad acquaforte, Kubrick sembra concepire a sua volta un senso atmosferico dello spazio, riconducibile alla sua funzione di «immagine della durata». È importante notare come Kubrick conservi nei confronti delle fonti pittoriche e materiali una rigorosissima attitudine all’adesione storica, fino a sentire l’esigenza di replicare le modalità di visione del Settecento, epoca in cui proprio il concetto di visione e sguardo assume fondamentale importanza, e rivoluzionare di conseguenza l’approccio tecnico dell’occhio cinematografico: da qui la richiesta a Ed DiGiulio, presidente della Cinema Products Corporation, di progettare un nuovo strumento di ripresa unendo un obiettivo fornito dalla NASA (prodotto dalla Zeiss per le foto fatte da satellite) ad una cinepresa BNC[8], allo scopo di girare le scene notturne senza luce artificiale.

Proprio il Barry Lyndon di Kubrick, secondo Omar Calabrese, può rappresentare il «prototipo di intertestualità fra cinema e pittura»[9], in cui quest’ultima non è «solo una fonte iconografica necessaria ad una ricostruzione storica, e di ambiente; ma […] attraverso una serie di tecniche, di strutture cromatiche, di relazioni fra le diverse citazioni e i diversi motivi iconografici, attraverso questo sistema progettato insomma, noi ritroviamo un senso, con il quale possiamo interpretare il film»[10]. La narrazione in terza persona, scelta specificamente da Kubrick in contrasto con il romanzo d’origine, rispecchia il sistema delle citazioni figurative: «tutte le opere pittoriche citate fanno riferimento a generi “oggettivi”. Il paesaggio, innanzitutto, caratterizza tutta la prima parte del film. Seguono poi le scene di battaglia, che riguardano la seconda metà della prima parte, e che rinviano al sottogenere epico della pittura inglese settecentesca di corte. Poi vengono i quadri di genere, o conversation pieces, e infine i ritratti di corte, che accompagnano la sezione “avventuriera” della vita di Redmond Barry, un genere che serve a storicizzare il personaggio e il suo ambiente sociale»[11]. Anche la musica scelta per affiancare le immagini, che, al pari della pittura oggetto di citazione, spazia dall’”apollineo” Mozart al Romanticismo ottocentesco, non si limita ad essere discreto compagno, ma contribuisce in modo essenziale a fare di questo film un’immagine del tempo che scorre. L’intreccio fra citazioni pittoriche da determinati generi e colonna sonora «stabilisce che quello che vediamo è oggetto, cioè contrapposto alla visione di un soggetto individuale […] Nel romanzo c’è una esplicita critica al Settecento di Redmond Barry, mentre nel film i contrappunti musicali e la forte riconoscibilità non tanto della citazione puntuale, quanto di un complessivo modello, di una tendenza “alla maniera di…”, provocano un distacco totale»[12]. Tale sistema di riferimenti iconografici chiarisce infine, secondo Calabrese, come la pittura costituisca «il vero e proprio operatore di coerenza del film necessario alla trasformazione del senso nel racconto»[13].

Come sottolinea Michel Ciment, e come si evince dalle pellicole precedenti Barry Lyndon, la cultura visiva del Settecento si lega indissolubilmente nell’opera di Kubrick con la manifestazione della violenza e la morte: «il XVIII secolo è per Kubrick un’epoca minata nel profondo, che attende la sua imminente distruzione, e in cui dietro alla facciata delle feste, del lusso e dei piaceri, vagano la morte e la disintegrazione»[14], suggellate dagli eventi della Rivoluzione francese. Unendo quindi le istanze estetiche del Settecento con il medium per eccellenza del nostro tempo, Kubrick manifesta la precisa volontà di mostrarci come la nostra società trovi la propria origine proprio in quel ricettacolo culturale, in cui l’incontro con l’alterità, il valore del sentimento e la perpetua curiosità si intersecavano con la chiusura interiore, l’espansionismo colonialista e il terrore dell’ignoto.

[1] S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Milano, Il Castoro, 2000, p. 30
[2] A. Crespi, “Spazio e tempo in ‘Barry Lyndon’: la quadratura del cerchio”, in G. P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Parma, Pratiche, 1985, p. 155
[3] Ivi, p. 156
[4] S. Bernardi, op. cit., p. 43
[5] M. Ciment, Kubrick, Milano, Rizzoli, 1999, p. 211
[6] S. Masi, (a cura di), Costumisti e scenografi del cinema italiano, L’Aquila, Lanterna magica, 1990, pp. 122-127
[7] M. Ciment, op. cit., p. 211
[8] E. DiGiulio, Two special lenses for ‘Barry Lyndon’, in “American Cinematographer”, n. 3, 1976, p. 318
[9] O. Calabrese, Kubrick pittore, “Cinema & Cinema: materiali di studio e di intervento cinematografici”, n. 54/55, 1989, pp. 103-109, p. 103
[10] Ivi, p. 105
[11] Ivi, p. 107
[12] Ivi, p. 107-8
[13] Ivi, p. 109
[14] M. Ciment, op. cit., p. 66

https://farefilm.it/visioni-e-recensioni/barry-lyndon-la-pittura-come-operatore-di-coerenza

William Hogarth, “Tête à tête”, 1790-91 Londra, National Gallery

Ma Hogarth ha esercitato su Kubrick un’influenza ancora più profonda di quanto sembri: oltre a concretizzare visivamente quell’analisi di costume che era parte integrante della cultura e della letteratura britannica, con il saggio L’analisi della bellezza Hogarth sottolinea criticamente la fondamentale importanza della linea curva nell’arte, in quanto forma simbolica per eccellenza della bellezza. Kubrick lo prende in parola, facendo dell’uso del carrello laterale una delle tecniche principali nella costruzione dello spazio: la “linea serpentina” eseguita dalla macchina da presa (con il personaggio costantemente al centro e mai realmente in movimento) corrisponde, come rilevato da Bernardi, ai labirinti della Ragione che prendono forma nella categoria estetica del wit, ovvero il motto di spirito, vero dominatore della cultura settecentesca[1]. Non solo: «scegliendo Hogarth come fonte tematica privilegiata, sembra che Kubrick voglia riscoprire in un pittore le origini di quel linguaggio di cui egli, come cineasta, si serve»[2], confermando il particolare valore di Barry Lyndon come rappresentazione della rappresentazione, in cui, come nell’opera di Hogarth, «il percorso visivo prevale sulla meta e la traccia dello sguardo in movimento è più importante dell’oggetto guardato»[3].

[1]              S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Milano, Editrice Il Castoro, 2000, p. 40

[2]              A. Crespi, “Spazio e tempo in ‘Barry Lyndon’: la quadratura del cerchio”, in G. P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Parma, Pratiche, 1985, p. 157

[3]              S. Bernardi, op. cit., p. 40

http://cinemaearte.it/2015/05/27/barry-lyndon-hogarth/

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