Zibaldone : da 2896 a 2903

Quanto sia facile l’imparare a parlare, quanto poco tempo debba esser corso innanzi che il genere umano [2896] arrivasse primieramente ad accorgersi di avere organi capaci di formare e articolare vari suoni, poi ad imparar di formare e articolar tali suoni, e finalmente a crear col loro diverso accozzamento una serie di voci di convenuta significazione, che fosse bastante a potersi scambievolmente communicare i proprii sensi, e più ancora innanzi che il genere umano arrivasse a portar questa serie al punto di poter essere chiamata lingua e di servire a tutti i bisogni dell’espressione; si consideri nel muto. Il quale, convivendo pur tutto giorno con uomini i quali parlano, ed usano una lingua già perfetta, non arriva mai in tutta quanta la sua vita nemmeno alla prima delle sopraddette cose, cioè ad accorgersi di avere organi capaci di suoni articolati: giacchè seppure egli manda fuori alcun suono di voce, questo è meno articolato e meno vario che non sono le voci delle bestie. Ora io torno in campo colla mia solita domanda. È egli possibile che se la natura aveva espressamente destinato l’uomo a parlare, se, come dice Dante, opera naturale è ch’uom favella, essa natura lasciasse tanto da fare all’uomo per [2897] arrivare ad eseguire quest’opera naturale, e debita alla sua essenza, e propria di essa, quest’opera senza la quale egli non avrebbe mai corrisposto alla sua natura particolare, nè all’intenzione della natura in generale, e condannasse espressamente tanta moltitudine e tante generazioni d’uomini, quante dovettero passare prima che fosse trovata una lingua, altre a non sapere nè potere in alcun modo fare, altre a non poter fare se non se imperfettissimamente, quello che l’uomo doveva pur sapere e potere compiutamente fare per sua propria natura? E poichè l’uomo senza la lingua non sarebbe uscito mai del suo stato primitivo purissimo, e la lingua è il principale e più necessario istrumento col quale egli ha operato ed opera quello che si chiama suo perfezionamento; e se d’altronde tanto è per ciascuna cosa il ben essere, quanto l’esser perfetta, nè si dà per veruna specie di enti felicità veruna senza la perfezione conveniente ad essa specie; è egli possibile che se questa che si chiama perfezione dell’uomo, fosse veramente tale, e destinatagli dalla natura, essa natura nel formar l’uomo [2898] l’avesse posto così mirabilmente lontano dalla perfezione da lei voluta e destinatagli, ed a lui necessaria, che egli non avesse ancora nè potesse avere nemmeno una prima idea dell’istrumento, col quale dopo lunghissimi travagli, e lunghissimo corso di generazioni e di secoli, la sua specie sarebbe finalmente arrivata a conseguire alcuna parte di questa perfezione? Certo se questo è vero, perchè diciamo noi che l’uomo è per natura il più perfetto degli esseri terrestri? Lasciamo stare che la perfezione è sempre relativa a quella tale specie in che ella si considera. Ma paragonando pur l’uomo colle altre specie di questo mondo, se la sua perfezione è quella che altri dice, come non si dovrà sostenere che l’uomo è per natura la più imperfetta di tutte le cose? Perocchè tutte le altre cose hanno da natura la perfezione che loro si conviene, e però sono tutte naturalmente così perfette, come debbono essere, che è quanto dire perfettissime. Solo l’uomo, secondo il presupposto che abbiamo fatto, è per natura così lontano dallo stato che gli conviene, che più, quasi, non potrebb’essere, e quindi laddove tutte [2899] l’altre cose sono in natura perfettissime, l’uomo è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie umana lungi da esser la prima in natura, è anzi l’ultima di tutte le specie conosciute.

Questa conseguenza deriva dal supposto principio: ma come il principio è falso, così essa non è vera; e questa proposizione considerata ancora in se sola, si riconosce agevolmente per falsissima. Poichè relativamente all’ordine delle cose terrestri, l’uomo come l’essere più di tutti conformabile, è il più perfetto di tutti.

Se però nel detto ordine delle cose terrestri, considerando la perfezione di ciascheduna specie in modo comparativo, cioè relativamente l’una all’altra, non vogliamo immaginare una doppia scala, ovvero una scala parte ascendente e parte discendente. E nella estremità inferiore della prima, porre gli esseri affatto o più di tutti gli altri inorganizzati. Indi salendo fino alla sommità, porre gli esseri più organizzati, fino a quelli che tengono il mezzo della organizzazione, della sensibilità, della conformabilità. E di questi farne il sommo [2900] grado della scala, cioè della perfezione comparativamente considerata, come quelli che forse sono per natura i più disposti a conseguire la propria particolare e relativa felicità, e conservarla. Da questi in poi sempre discendendo giù giù per gli esseri più organizzati sensibili e conformabili, porre nell’ultimo e più basso grado dell’altra parte della scala l’uomo, come il più organizzato, sensibile, e conformabile degli esseri terrestri.

Discorrendo in questo modo, e raddoppiando o ripiegando così la scala, troveremmo che l’uomo è veramente nella estremità non della perfezione (come ci parrebbe se facessimo una scala sola o semplice e retta), ma della imperfezione; e in una estremità più bassa ancora di quella che è dall’altra parte della scala. Perocchè dalla comparativa imperfezione degli esseri posti in quel grado, non ne segue ai medesimi alcuna infelicità laddove all’uomo grandissima.

E veramente io così penso. L’uomo non è per natura infelice. La natura non ha posto [2901] in lui nessuna qualità che lo renda tale per se medesima, nessuna che tal qual è naturalmente, si opponga da niuna parte al suo ben essere; e però la natura direttamente non ha prodotto l’uomo nè infelice, nè tale ch’ei debba necessariamente divenirlo. Perocchè l’uomo potrebbe conservarsi nello stato suo primitivo puro, come gli altri esseri si conservano nel loro, e conservandocisi, sarebbe così felice, o così non infelice, come gli altri esseri sono felici o non sono infelici durando nel naturale stato. Sicchè la natura in ordine all’uomo non ha violato per niun conto nè trapassato le sue universali leggi, che ciascuno essere abbia nella sua propria essenza immediatamente quanto abbisogna alla felicità che gli conviene, e nulla che per se lo sforzi alla infelicità. Ma l’eccessiva, o diciamo meglio, la suprema conformabilità e organizzazione dell’uomo, che lo rende il più mutabile e quindi il più corruttibile di tutti gli esseri terrestri, lo rende eziandio per conseguenza il più infelicitabile, benchè non lo renda per se stessa e naturalmente infelice, cioè lo rende il [2902] più disposto a potersi, e più d’ogni altro essere, allontanare dal suo stato naturale, e quindi dalla sua propria perfezione, e quindi dalla sua felicità; perch’essa stessa conformabilità umana è più d’ogni altra disposta e facile a poter perdere il suo primitivo stato, uso, operazioni, applicazioni e simili. Talchè difficilmente l’uomo si conserva in effetto nel suo naturale e primitivo stato, e però difficilmente si salva in fatti dalla infelicità. Stante le quali considerazioni, e stante appunto la somma conformabilità e organizzazione dell’uomo, metafisicamente considerata in ordine alla vera e metafisica perfezione, diremo che l’uomo è il più imperfetto degli esseri terrestri, anche per natura, in quanto però solamente ella è naturale in lui una disposizione maggiore che in qualunqu’altro essere a perdere il suo stato e la sua perfezione naturale. Niuna imperfezione, neppure in ordine all’uomo, si può trovare propriamente nella natura; l’uomo non è imperfetto nè in natura, nè per natura; anzi se volete, in natura e per natura egli è il più perfetto degli esseri; ma [2903] in natura e per natura egli è più di tutti disposto a divenire imperfetto; e ciò per ragione appunto della somma sua perfezione naturale; come quelle macchine o quei lavorii compitissimi e perfettissimi, che per esser tali, sono minutamente lavorati, e quindi delicatissimi, e per la somma delicatezza più facilmente degli altri si guastano, e perdono l’essere e l’uso loro.

Ma ad essi si trovano forse artefici che possono ripararli, a noi guasti e snaturati una volta, non si trova mano che ci riponga nel primo stato, (nè da noi medesimi siamo atti a farlo). Poichè nè la natura ci ripiglia in mano per riformarci, come l’artefice il suo lavoro sconciato, nè altra potenza v’ha che ci possa restaurare come un nuovo artefice il lavoro altrui. (6. Luglio. 1823.)

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“Si mise un paio di occhiali fatti della metà del meridiano co’ due cerchi polari.

Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella.”

Giacomo Leopardi

Zibaldone pagg.200

Si mise un paio di occhiali fatti della metà del meridiano co’ due cerchi polari.

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