L’ Enfant et les sortilèges Maurice Ravel – Colette pdf

L’ Enfant et les sortilèges, di Maurice Ravel (1875-1937)

libretto di Colette

L’enfant et les sortilèges – di cose un po

Fantasia lirica in due parti

Prima:

Montecarlo, Opéra, 21 marzo 1925

Personaggi:

il bambino (Ms), la mamma (A), la tazza cinese (A), la libellula (A), la civetta (A), la pastorella (S), il pipistrello (S), lo scoiattolo (S), la poltrona (B), l’albero (B), il pendolo (Bar), il gatto (Bar), la teiera (T), l’aritmetica (T), la rana (T), il fuoco (S), la principessa (S), l’usignolo (S), un pastore (A), la gatta (A), una pastorella (S); coro di numeri, di rane, d’alberi

Quando Maurice Ravel si avvicinò al teatro lirico per la prima volta con L’heure espagnole , rappresentata nel 1911, aveva più di trentacinque anni; ma ne dovettero passare ancora più di dieci prima che egli ritentasse la prova, sebbene nel frattempo avesse composto di nuovo per la scena, ma in forma di balletto. Nel 1916 la scrittrice Colette aveva proposto un divertissement intitolato Ballet pour ma fille a Jacques Rouché, direttore dell’Opéra, il quale ebbe subito l’idea di sottoporlo a Ravel; ma il musicista era allora sotto le armi, e non ricevette mai il plico. In seguito le trattative ripresero: Ravel, affascinato dall’incantevole soggetto, tempestò di osservazioni e di curiose richieste di modifiche la scrittrice che peraltro non riuscì mai ad avere con lui «aucun entretien particulier, aucun abandon amical» («sembrava preoccuparsi soltanto del duetto miagolato dei due gatti – ella raccontò – e mi chiese seriamente di poter sostituire ‘mouao’ con ‘mouain’»), ottenendo di accentuare l’elemento fantastico e di ‘rivista’ all’interno del quadro sentimentale; così, durante l’estate del 1920 poteva finalmente scrivere: «Lavoro all’opera in collaborazione con Colette. Il titolo definitivo non è ancora fissato [Ravel infatti obiettò sorridendo di non avere una figlia]. Questo lavoro in due parti si distinguerà per una mescolanza di stile che sarà giudicata severamente: la cosa non lascerà indifferente Colette, e io me ne fr…». Ma ci furono varie interruzioni, dovute alla composizione di altri brani, come le due Sonate per violino e violoncello e per violino e pianoforte, finché l’intervento del direttore del teatro di Montecarlo, Raoul Gunsbourg, non costrinse Ravel, con un contratto, a consegnare l’opera entro il 1924; l’ Enfant poté così andare in scena nel marzo 1925, sotto la direzione di Victor De Sabata. « L’enfant et les sortilèges » – scrisse per quella occasione Ravel – «è un racconto fiabesco dal candore ingenuo, non privo di ironia, un sogno con sfumature di incubo e se talvolta dà l’impressione di essere un piccolo dramma, si tratta sempre della più graziosa commedia».

Se l’apparente realismo della commedia aveva scatenato in Ravel il gusto per il grottesco, per i movimenti di marionetta e per i meccanismi ad orologeria, anche la ‘verità’ del racconto di Colette si limita al primo episodio, in cui il fanciullo svogliato si scontra con i rimproveri della mamma; l’infantile fiaba quotidiana inclina subito, vistosamente, verso il clima della féerie sognante, assumendo i modi del racconto coreografico (la première ebbe infatti le coreografie di George Balanchine) e i toni dell’apologo moraleggiante e positivo, che presenta il bambino, in fondo, non così cattivo, e meritevole dunque di addormentarsi sereno, finalmente liberato dagli spaventosi incubi che l’hanno ossessionato nella notte. Punito dalla madre per la sua svogliataggine, l’ enfant (mezzosoprano en travesti ) per dispetto comincia a mettere a soqquadro la sua stanza, dove è rimasto solo: strappa i libri, fa volare in pezzi la teiera e la tazza, tira la coda al gatto, toglie il bilanciere all’orologio. Dopo questa sfuriata capricciosa, si adagia stanco sulla poltrona; e qui cominciano i sortilegi: la poltrona si agita e si mette a ballare una danza antica, seguito dagli altri mobili; l’orologio si lamenta dell’equilibrio perduto (“Ding, ding, ding”); la teiera – in lingua inglese e con movimenti da boxeur (è un wedgwood nero), e la tazza in un buffo cinese chiedono vendetta; perfino il fuoco del caminetto, sfrigolando con lunghi vocalizzi, nega il suo calore al bambino, che comincia ad aver paura, mentre i pastori e le pastorelle della tappezzeria fatta a brandelli cantano un lamentoso addio (“Adieu pastourelles”). Dalle pagine del libro strappato esce a consolarlo la Principessa, che lo rimprovera dolcemente (“Oui, c’est Elle”), intreccia con lui un tenero duetto, quasi fosse il Principe dal Cimiero color d’aurora, ma lo abbandona desolato (“Toi, le coeur de la rose”); ed ecco sopraggiungere l’aritmetica, un vecchietto con un pi greco in testa e un codazzo di numeri, che sconvolge il fanciullo poco studioso con terribili problemi. Intanto è sorta la luna, e due gatti intrecciano un buffo duetto amoroso; il bambino si trova in giardino, dove anche alberi e animali hanno sofferto i suoi dispetti e lo rimproverano: la rana, la libellula infilzata, il pipistrello si scontrano in una gazzarra frenetica, in cui uno scoiattolo viene ferito a una zampina. E il bimbo lo cura, fasciandolo con un suo nastro; gli animali, stupefatti del buon gesto (“Il a pansé la plaie”), riaccompagnano l’ enfant dalla mamma (“Il est bon, l’enfant”).

Quello che sembra aver attirato Ravel verso un’opera quasi fatta di niente, eppure di così difficile realizzazione scenica, che lasciò perplessa al suo primo apparire anche la critica, fu senza dubbio lo spirito di leggerezza e libertà ballettistica che la pervade, l’atmosfera fantastica del racconto e delle apparizioni (che esimevano Ravel da un realismo sentimentale a lui estraneo), la presenza del tenero mondo dell’infanzia (al quale egli si era già ispirato, in primo luogo traducendo sulla tastiera le fiabe di Ma Mère l’Oye , e che egli forse aveva penetrato più in profondo dell’eros femminile, come nel raro esempio della protagonista dell’ Heure espagnole ). In più, la vicenda di sogno apriva le strade a ogni forma di sperimentazione stilistica, in direzione del pastiche e del divertimento, e al tempo stesso consentiva quel sorridente e aristocratico distacco che è la sigla costante dell’operare di Ravel. Se nella commedia spagnola egli aveva adottato la prosa del libretto per uno stile recitativo spoglio, di fronte al testo di Colette si comporta diversamente: «Più che mai la melodia, il bel canto, i vocalizzi, il virtuosismo vocale sono per me una scelta precisa (…) alla fantasia lirica era necessaria la melodia, nient’altro che la melodia» – scriveva – «e l’orchestra, senza rinunciare al virtuosismo strumentale, resta tuttavia in secondo piano»; la partitura impiega infatti i fiati ‘a tre’, ma con estrema leggerezza ed economia («uno dei più straordinari esempi di ‘semplicismo’ musicale», secondo Riccardo Malipiero, ma prezioso e spiritosissimo), e non presenta cenni di un sistema di Leitmotive se non per i due accordi che annunciano la mamma; per il resto dominano le forme chiuse, intervallate da episodi di recitativo. Ma il modello del melodramma tradizionale non può non essere che lontanissimo; l’autore sembra assumere lo sguardo microscopico che il bambino presta alle cose, e queste piccole nicchie, con oggetti e animali che prendono voce e movenze umane, consentono a Ravel le più libere soluzioni e gustose stramberie. Assistiamo a casi di musica scritta ‘à la maniere de’ per il minuetto della poltrona Luigi XV, accompagnata dal piano-lutheal che deforma il timbro del clavicembalo, o per il lamento delle pastorelle – una memoria tra il rococò e il barbare , con l’accompagnamento di legni e tamburelli – o a spiritosi ammiccamenti al jazz ( fox-trot della teiera e della tazza, con strumentale da jazz band ) e alla commedia musicale americana (valzer delle libellule), o a richiami beffardi dei climi lunari debussiani, nel duetto notturno dei gatti. E l’andirivieni fra stili ed epoche diverse non ha sosta: l’acuto canto vocalizzato del fuoco scherza con i modelli brillanti dell’ opéra-comique , la marcetta dell’aritmetica gareggia con i ritmi dell’operetta, mentre il coro finale degli animali recupera (si pensi) una scrittura polifonica arcaizzante, alla maniera del Requiem di Fauré; e tutto realizzato con stili di canto variato, pieno di colore, tenero, buffo, con il gusto dell’arabesco e del décor , fino al limite del nonsense onomatopeico (i rumori misteriosi del giardino nel secondo quadro; i miagolii dei gatti, il gracidio delle rane, il canto in eco dei Numeri, tutti realizzati con sillabe d’assurda invenzione). Un gusto che investe anche l’orchestra, smagliante e sottile, con raffinati passaggi bitonali, ricchissima di ritmi moderni e d’invenzioni timbriche, ma anche sognante e soffusa (trombe in sordina, celesta, contrabbassi spinti verso l’acuto, la sequenza di quarte e quinte degli oboi per dipingere in apertura il torpore della stanza del bambino svogliato). Ma quando entra in scena la Principessa dagli occhi azzurri, e per il suo canto accompagnato dal flauto Ravel sembra ricorrere ai modi sentimentali di un Massenet, si ha la sensazione che non si tratti più di un giuoco sofisticato e un po’ snob , e che il divertimento intellettuale che pervade tutta la partitura ceda finalmente alla ‘presa diretta’, all’autenticità degli affetti; il duetto che l’ enfant méchant intreccia con la Principessa è forse la prima e unica scena d’amore firmata da Ravel, un dolce quadretto che rivela le sue qualità di cuore timido ma «appassionato» (Jankélévitch) che «nessun travestimento, nessuna forma di pudore sono riusciti a mascherare in lui del tutto» (Roland Manuel). E a conclusione di un lungo vagabondare tra stili e figure di questo poema della metamorfosi, dando voce – con modi che sfiorano la confessione personale – alle paure e ai sogni del fanciullo che è dentro di noi, Ravel ci conduce «sulla soglia del pianto, con uno scoppio di umana cordialità e un’emozione debordante» (Mantelli), nel momento in cui il bambino è accompagnato dal coro degli animali, toccante e quasi religioso, nel grembo della Mamma.

http://www.rodoni.ch/zemlinski/SECESSIONEVIENNA/enfant.html






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