“Il castello”Kafka integrale, note di Graziella Magherini pdf – György Kurtág, Kafka Fragmente

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Soltanto ora K. si accorse del silenzio che era calato nel corridoio, non solo in quella parte dove si era trattenuto con Frieda e che pareva corrispondere ai locali di servizio dell’albergo, ma anche nel lungo corridoio con le stanze prima così animate. Dunque i signori si erano finalmente addormentati. Anche K. era stanchissimo, forse proprio per la stanchezza non si era difeso contro Jeremias come avrebbe dovuto. Forse sarebbe stato più saggio imitare Jeremias che chiaramente esagerava il suo malanno – quel suo stato miserando non era dovuto al raffreddore, ma era congenito, e nessuna tisana vi avrebbe posto rimedio -, imitare in tutto Jeremias, fare anche lui un po’ di scena con la sua stanchezza che era davvero grande, lasciarsi cadere a terra lì nel corridoio, cosa che già in sé doveva fare un gran bene, sonnecchiare un momento e magari poi farsi anche curare. Ma l’esito sarebbe stato meno felice che per Jeremias, il quale, forse a buon diritto, avrebbe sicuramente vinto in questa gara per suscitare pietà, come pure, a quanto pareva, in ogni altra competizione. K. era così stanco che si chiese se non fare un tentativo di entrare in una di quelle stanze, qualcuna sicuramente vuota, e farsi una bella dormita in un letto comodo. A suo avviso questo lo avrebbe compensato di molte cose. Aveva pronta anche una bevanda per conciliare il sonno. Sul vassoio che Frieda aveva lasciato per terra c’era una piccola bottiglia di rhum. K. non esitò dinnanzi alla fatica di tornare indietro, e la vuotò.
Ora se non altro si sentiva abbastanza forte per comparire davanti a Erlanger. Cercò la porta della sua stanza, ma poiché l’inserviente e Gerstäcker non si vedevano più e le porte erano tutte uguali, non riuscì a trovarla. Credeva però di ricordarsi in quale punto del corridoio fosse, e decise di aprire una porta che secondo lui doveva essere quella che cercava. Il tentativo non poteva presentare troppi rischi, se era la stanza di Erlanger sarebbe stato bene accolto, se quella di un altro, era pur sempre possibile chieder scusa e andarsene, se poi l’ospite dormiva, ed era la cosa più probabile, la visita di K. non sarebbe stata affatto notata; sarebbe stato un guaio soltanto se la stanza fosse stata vuota, perché allora K. difficilmente avrebbe saputo resistere alla tentazione di coricarsi nel letto e dormire all’infinito. Guardò ancora una volta a destra e a sinistra nel corridoio per assicurarsi che non arrivasse qualcuno che potesse dargli informazioni e rendere inutile quel gesto audace, ma il lungo corridoio era silenzioso e vuoto. Allora K. pose l’orecchio alla porta, anche lì nessun ospite. Bussò così piano che se qualcuno dormiva non si sarebbe svegliato, e poiché non accadde nulla nemmeno allora, aprì la porta con estrema cautela. Ma questa volta un leggero grido lo accolse.
Era una stanza piccola, riempita per più di metà da un gran letto, sul comodino era accesa la lampada elettrica e lì accanto era posata una borsa da viaggio. Nel letto, ma tutto nascosto sotto la coperta, qualcuno si mosse inquieto e da uno spiraglio fra la coperta e il lenzuolo sussurrò: «Chi è?». Ormai K. non poteva più andarsene come se niente fosse, guardò contrariato il letto vasto e allettante ma purtroppo non vuoto, poi si ricordò della domanda e disse il suo nome. Questo parve produrre una buona impressione, l’uomo nel letto scostò un poco la coperta dal viso, ma timorosamente, pronto a ricoprirsi subito se fuori ci fosse stato qualcosa che non andava. Ma poi buttò indietro risolutamente la coperta e si levò a sedere. Non era di certo Erlanger. Era un signore piccolo, di bell’aspetto, con qualcosa d’incongruente nel viso: le gote avevano una rotondità infantile, infantile era l’allegria degli occhi, ma la fronte alta, il naso appuntito, la bocca sottile con le labbra che non volevano restare unite, il mento quasi inesistente non erano affatto infantili, anzi tradivano un pensiero superiore. Proprio la soddisfazione di questa superiorità, la soddisfazione di se stesso, doveva aver conservato in lui un forte residuo di sana infantilità. «Conosce Friedrich?», chiese. K. rispose di no. «Lui però la conosce», disse il signore sorridendo. K. annuì; persone che lo conoscevano non mancavano di certo, anzi questo era uno dei principali ostacoli sul suo cammino. «Io sono il suo segretario», disse il signore, «mi chiamo Bürgel». «Mi scusi», disse K. allungando la mano verso la maniglia, «purtroppo ho scambiato la sua porta con un’altra. Sono stato convocato dal segretario Erlanger». «Che peccato», disse Bürgel. «Non che lei sia convocato da un’altra parte, ma che abbia sbagliato porta. Sa, una volta svegliato non mi riaddormento di certo. Be’, non se ne faccia un cruccio, è una mia personale disgrazia. Ma perché qui le porte non si possono chiudere a chiave, eh? Il motivo c’è, naturalmente. È perché secondo un’antica massima le porte dei segretari devono rimanere sempre aperte. Ma questo veramente non dovrebbe essere preso così alla lettera». Bürgel guardò K. con aria interrogativa e allegra, in contrasto con le sue lamentele pareva riposatissimo; stanco come si sentiva K. in quel momento, Bürgel non doveva esserlo mai stato. «Dove vuole andare adesso?», chiese Bürgel. «Sono le quattro. Da chiunque lei vada lo dovrebbe svegliare, non tutti hanno come me l’abitudine a essere disturbati, non tutti lo tollererebbero con tanta pazienza, i segretari sono gente nervosa. Si fermi qui un po’, dunque. Verso le cinque qui incominciano ad alzarsi, e allora per lei sarà il momento più opportuno per presentarsi alla sua convocazione. Su, lasci quella maniglia, per favore, e si sieda da qualche parte, veramente lo spazio qui è stretto, la cosa migliore è che lei si sieda qui sulla sponda del letto. Si meraviglia che io non abbia né una sedia né un tavolo? Be’, avevo la scelta, o un arredamento completo con un lettuccio stretto da albergo o questo grande letto con un lavabo e nient’altro. Ho scelto il letto grande, in una camera da letto è il letto la cosa che più conta, o no? Ah, felice chi può distendersi e dormir bene, per uno che ha il sonno buono questo letto dev’essere una cosa davvero deliziosa. Ma fa bene anche a me che sono sempre stanco senza poter dormire, ci passo gran parte della giornata, qui sbrigo tutta la corrispondenza, tengo gli interrogatori delle parti convocate. Va proprio bene. È vero che le persone convocate non sanno dove sedersi, ma si rassegnano, in fondo anche loro preferiscono rimanere in piedi e vedere ben sistemato chi stende il verbale piuttosto che starsene comodamente seduti e farsi strapazzare. Non mi rimane dunque da offrire altro posto per sedersi che la sponda del letto, ma non è un posto ufficiale e lo riservo alle conversazioni notturne. Ma come è silenzioso, signor agrimensore!». «Sono molto stanco», disse K. che all’invito si era subito, villanamente e senza alcun riguardo, seduto sul letto e appoggiato al montante. «È naturale», disse Bürgel con un sorriso, «qui sono tutti stanchi. Non è poco, per esempio, il lavoro che ho sbrigato ieri e anche oggi. È assolutamente escluso che riprenda sonno ormai, ma se dovesse accadere questa cosa improbabilissima e io mi addormentassi mentre lei è ancora qui, la prego di starsene quieto e di non aprire la porta. Ma nessuna paura, è sicuro che non mi addormenterò e semmai sarà per un paio di minuti, non di più. Vede, il fatto è che io, forse perché sono così abituato a questo genere di conversazioni, mi addormento in ogni caso più facilmente se sono in compagnia». «Dorma pure, la prego, signor segretario», disse K. rallegrato da quell’annuncio, «e, se permette, dormirò un poco anch’io». «No, no», disse Bürgel ridendo di nuovo, «purtroppo non riesco ad addormentarmi così, su semplice invito, l’occasione può nascere solo nel corso della conversazione, è questa che più aiuta a farmi assopire. Eh sì, il nostro mestiere logora i nervi. Io, per esempio, sono segretario di collegamento. Non sa che cos’è? Ebbene, costituisco il collegamento più valido», e qui si fregò svelto le mani con involontaria allegria, «tra Friedrich e il paese, costituisco il collegamento tra i suoi segretari del castello e quelli di quaggiù, risiedo per lo più in paese, ma non in permanenza; ad ogni istante devo esser pronto a salire al castello. Vede la borsa da viaggio, una vita agitata, non è fatta per chiunque. È vero, d’altra parte, che non potrei più fare a meno di un lavoro di questo genere, ogni altro lavoro mi parrebbe insulso. E che mi dice del lavoro di agrimensore?». «Non esercito quel lavoro, non vengo impiegato come agrimensore», disse K., ma la sua mente non seguiva la conversazione, a dire il vero non vedeva l’ora che Bürgel si addormentasse, anche questo però solo per un certo senso di dovere verso se stesso, nel suo intimo credeva di sapere che il momento in cui Bürgel si sarebbe addormentato era ancora di là da venire. «Mi stupisce!», disse Bürgel con uno scatto vivace del capo, e tirò fuori da sotto le coperte un taccuino per annotarsi qualcosa. «Lei è agrimensore e non fa lavori di agrimensura». K. annuì meccanicamente, aveva allungato il braccio sinistro in alto sul montante del letto e vi aveva appoggiato la testa, aveva già cercato in diversi modi di mettersi comodo, ma quella posizione era la più comoda di tutte, adesso riusciva anche a prestare un po’ più di attenzione alle parole di Bürgel. «Sono disposto», proseguì Bürgel, «a continuare a seguire questa faccenda. Da noi le cose non stanno certo così che si possa lasciare inutilizzata una capacità professionale. E anche per lei dev’essere umiliante; non ne soffre?». «Ne soffro», disse K. adagio, e sorrise fra sé perché proprio in quel momento non ne soffriva minimamente. L’offerta di Bürgel poi gli faceva poca impressione. Era dilettantismo bell’e buono. Senza assolutamente conoscere le circostanze della nomina di K., le difficoltà che essa incontrava in paese e al castello, le complicazioni che erano già sorte o si erano profilate per l’avvenire durante il suo soggiorno in paese, senza conoscere nulla di tutto questo, anzi senza mostrare di averne almeno un sentore come ci si doveva normalmente aspettare da un segretario, egli si offriva, con l’aiuto del suo taccuino, di sistemare la faccenda su al castello, come fosse un giochetto. «Si direbbe che lei abbia già avuto qualche delusione», disse Bürgel dimostrando di nuovo una certa conoscenza dell’animo umano; del resto K., dal momento in cui era entrato nella stanza, raccomandava di tanto in tanto a se stesso di non sottovalutare Bürgel, ma nello stato in cui si trovava era difficile giudicare lucidamente qualsiasi altra cosa che non la propria stanchezza. «No», disse Bürgel come se rispondesse a un pensiero di K. e volesse premurosamente risparmiargli la fatica di formularlo. «Non deve lasciarsi scoraggiare dalle delusioni. Certe cose qui paiono studiate apposta per scoraggiare, e quando si è nuovi del posto, gli ostacoli sembrano addirittura insormontabili. Non voglio indagare le ragioni di fondo, forse l’apparenza corrisponde effettivamente alla realtà, nella mia posizione manca la distanza necessaria per stabilirlo, ma badi bene, a volte si danno occasioni che non concordano quasi con la situazione generale, occasioni in cui con un parola, uno sguardo, un cenno confidenziale si può ottenere di più che con una vita di sforzi estenuanti. È così, certo. Vero è che allora, queste occasioni concordano di nuovo con la situazione generale in quanto non vengono mai sfruttate. Ma perché non vengono sfruttate, mi chiedo sempre». K. non lo sapeva; si rendeva conto che quello di cui parlava Bürgel probabilmente lo riguardava molto da vicino, ma in quel momento provava una forte avversione per tutte le cose che lo riguardavano, spostò un po’ la testa di lato come per lasciare via libera alle domande di Bürgel e non esserne più toccato. Bürgel si stirò le braccia, sbadigliò, cosa che contrastava in modo sconcertante con la gravità delle sue parole, e proseguì: «I segretari si lamentano in continuazione di essere costretti in paese a effettuare gl’interrogatori quasi sempre di notte. Ma perché se ne lamentano? Perché così si stancano troppo? Perché preferiscono dedicare la notte al sonno? No, non è certo di questo che si lamentano. Fra i segretari ce n’è di attivi e di meno attivi, s’intende, come dappertutto; ma nessuno di loro si lamenta di affaticarsi troppo, tanto meno pubblicamente. Non è nel nostro stile, tutto qui. Sotto questo aspetto non facciamo differenza tra tempo ordinario e tempo di lavoro. Queste distinzioni da noi non si usano. E allora perché mai i segretari protestano contro gl’interrogatori notturni? Forse per riguardo verso le parti convocate? No, no, non è nemmeno per questo. Per le parti i segretari non hanno alcun riguardo, non un pizzico di meno che per se stessi, questo è vero, ma neanche un pizzico di più. In realtà questa mancanza di riguardo non è che ferrea disciplina nell’espletamento del servizio, il massimo riguardo che le parti possano augurarsi. In fondo – un osservatore superficiale certo non se ne accorge – questo è pienamente riconosciuto; anzi, in questo caso, per esempio, proprio gl’interrogatori notturni sono graditi alle parti, nessuno se ne lamenta per principio. Perché, dunque, questa avversione dei segretari?». K. non sapeva nemmeno questo, sapeva così poco, non capiva neanche se Bürgel sollecitasse seriamente o solo in apparenza la risposta. Se mi lasci sdraiare nel tuo letto, pensava, domani a mezzogiorno, o meglio domani sera, risponderò a tutte le tue domande. Ma Bürgel non pareva badargli, lo preoccupava troppo la domanda che si era posta da sé. «A quanto capisco e a quanto io stesso so per esperienza, i segretari hanno nei confronti degl’interrogatori notturni press’a poco questa riserva: la notte è meno adatta alle udienze perché di notte è difficile o addirittura impossibile preservare pienamente il carattere ufficiale delle udienze. Ciò non dipende dagli aspetti esteriori, le forme, se si vuole, possono naturalmente essere osservate con lo stesso rigore di notte come di giorno. Non è questo, è il giudizio ufficiale che risente della notte. Senza volerlo, di notte si è più inclini a giudicare le cose da un punto di vista più privato, le deposizioni della gente acquistano più peso di quanto non convenga, nel giudizio si mescolano considerazioni inopportune riguardanti la condizione privata delle parti, le loro sofferenze e preoccupazioni; la necessaria barriera tra le parti e i funzionari, anche se esteriormente si presenta intatta, cede, e dove altrimenti, come dev’essere, ci sarebbe soltanto un incrociarsi di domande e risposte, pare talvolta operarsi uno strano e del tutto improprio scambio di persone. Così almeno dicono i segretari, cioè gente che per professione è dotata di una straordinaria sensibilità per simili cose. Ma persino loro – ne abbiamo discusso spesso tra di noi – si rendono poco conto durante gl’interrogatori notturni di quegli effetti sfavorevoli; al contrario, si sforzano sin dal principio di combatterli e alla fine sono convinti di aver svolto un lavoro particolarmente buono. Ma quando poi si vanno a leggere i verbali, spesso si rimane stupiti delle loro evidenti debolezze. Si tratta di errori, e certo sempre di vantaggi a metà ingiustificati per le parti, che, almeno secondo il nostro regolamento, non si possono più correggere per le vie brevi abituali. Certamente, un giorno saranno corretti da un ufficio di controllo, ma questo gioverà solo alla giustizia, senza poter togliere nulla all’interessato. Stando così le cose, non sono forse pienamente giustificate le lamentele dei segretari?». K., che già da qualche istante era mezzo appisolato, fu di nuovo disturbato e si svegliò. Perché tutto questo? Perché? si chiedeva e da sotto le palpebre abbassate osservava Bürgel non come un funzionario che discuteva con lui questioni delicate, ma come una cosa qualsiasi che gl’impediva di dormire e della quale per il resto non riusciva a scoprire il senso. Bürgel invece, tutto preso dal suo ragionamento, sorrideva, come se fosse riuscito a fuorviare un po’ K. Ma era pronto a ricondurlo subito sulla buona strada. «Be’», disse, «non si può nemmeno dire che queste lamentele siano senz’altro giustificate. Gl’interrogatori notturni non sono espressamente prescritti da nessuna parte, dunque non si contravviene ad alcun regolamento se si cerca di evitarli, ma la situazione, l’eccesso di lavoro, il modo in cui i funzionari sono occupati al castello, il fatto che difficilmente si possa fare a meno di loro, il regolamento che vuole che l’interrogatorio dell’interessato abbia luogo solo dopo che il resto dell’inchiesta è stata completamente chiusa, però subito dopo, tutto questo e altro ancora hanno fatto degl’interrogatori notturni una necessità ineluttabile. Ma se sono diventati una necessità, dico io, anche questo, almeno indirettamente, è un risultato dei regolamenti, e contestare la natura degl’interrogatori notturni equivarrebbe quasi – esagero un po’, naturalmente, e perciò, come esagerazione, ho il diritto di dirlo -, equivarrebbe a contestare addirittura i regolamenti.
«Per contro i funzionari conserveranno la facoltà di cercare, nell’ambito del regolamento, di cautelarsi contro gl’interrogatori notturni e i loro forse solo apparenti svantaggi, nella misura del possibile. È quel che fanno, del resto, e in larghissima misura. Come argomenti d’udienza autorizzano soltanto quelli da cui, in ogni senso, c’è il meno possibile da temere, prima delle udienze fanno un accurato esame di se stessi e, se il risultato di questo esame lo esige, disdicono tutti gl’interrogatori anche all’ultimo minuto, si fortificano convocando spesso fino a dieci volte un interessato prima d’interrogarlo veramente, sono disposti a farsi sostituire da colleghi che, non essendo il caso in questione di loro competenza, possono trattarlo con maggior disinvoltura, fissano le udienze, se non altro, all’inizio o alla fine della notte evitando le ore di mezzo; misure del genere se ne possono prendere molte, non si lasciano facilmente avvicinare, i segretari, la loro resistenza è quasi pari alla loro permalosità». K. dormiva, non era però un vero sonno, udiva le parole di Bürgel forse meglio di prima quando, in veglia, sfinito com’era dalla stanchezza, le parole colpivano il suo orecchio, a una a una, ma la fastidiosa coscienza era scomparsa, si sentiva libero, non era più Bürgel che tratteneva lui, ma lui che ogni tanto cercava a tastoni Bürgel, non era ancora nelle profondità del sonno, e tuttavia vi si era già calato. Questo non glielo poteva togliere nessuno. Gli pareva con ciò di aver riportato una grossa vittoria, ed ecco che una numerosa compagnia si era radunata per festeggiarla, e lui o qualcun altro levava la coppa di champagne per brindare a quella vittoria. E perché tutti sapessero di che cosa si trattava, la lotta e la vittoria venivano ripetute, o forse non venivano affatto ripetute ma avevano luogo solo allora ed erano già state festeggiate prima e non si cessava di festeggiarle perché, fortunatamente, l’esito era già certo. Un segretario, nudo, molto somigliante alla statua di un dio greco, era incalzato nella lotta da K. Era una cosa comicissima, e K. sorrideva dolcemente nel sonno vedendo come, sotto i suoi attacchi, il segretario fosse obbligato ogni volta ad abbandonare il suo fiero atteggiamento, e dovesse usare lesto il braccio teso in alto e il pugno serrato per coprire le sue nudità, arrivando tuttavia sempre troppo tardi. La lotta non durò a lungo; un passo dopo l’altro, ed erano passi molto grandi, K. avanzava. Era davvero una lotta? Ostacoli seri non ce n’erano, solo ogni tanto uno squittìo del segretario. Questo dio greco squittiva come una ragazza a cui si fa il solletico. E alla fine scomparve, K. era solo in una grande stanza, si voltò pronto alla lotta e cercò l’avversario; ma non c’era più nessuno, anche la compagnia si era dispersa, rimaneva solo, a terra, la coppa di champagne infranta. K. finì di calpestarla. Ma i pezzi di vetro ferivano, e K. si destò di soprassalto, si sentiva male come un bambino piccolo quando viene svegliato. Tuttavia, alla vista del petto nudo di Bürgel lo sfiorò il pensiero, venuto dal sogno: eccolo il tuo dio greco! strappalo fuori dalle coperte! «Esiste però», disse Bürgel levando pensoso il viso al soffitto come se cercasse nella memoria qualche esempio, ma non riuscisse a trovarne, «esiste però per le parti, a dispetto di tutte le norme precauzionali, una possibilità di sfruttare questa debolezza notturna dei segretari, ammesso sempre che di debolezza si tratti. È una possibilità molto rara, s’intende, o meglio una possibilità che non si presenta quasi mai. Ed è che la parte si presenti nel mezzo della notte, senza essere annunciata. Forse lei si meraviglia che la cosa, benché appaia così facile, accada tanto raramente. Eh già, lei non è pratico di come vanno le cose da noi. Ma anche lei dovrebbe già aver notato la perfetta efficienza dell’organizzazione amministrativa. Ma questa efficienza fa sì che chiunque abbia una richiesta da presentare o debba essere interrogato per altre ragioni, riceve immediatamente, senza indugio, la convocazione, il più delle volte prima ancora di esservi lui stesso preparato, anzi prima ancora di esserne al corrente. Questa prima volta non viene ascoltato, di solito la faccenda non è ancora abbastanza matura, ma intanto lui ha la convocazione, non potrà più arrivare senza essere annunciato, al massimo potrà arrivare al momento sbagliato, be’, in tal caso gli si fa semplicemente notare il giorno e l’ora della convocazione e se poi ritorna a tempo opportuno, di regola viene mandato via, la cosa non crea più difficoltà; la convocazione in mano alla parte e l’annotazione inserita negli atti sono per i segretari armi di difesa solide, anche se non sempre sufficienti. Questo si riferisce però soltanto al segretario competente per la faccenda; libero chi lo volesse di avvicinare gli altri di sorpresa durante la notte. Ma ben pochi lo fanno, non ha quasi senso. Innanzi tutto sarebbe un modo d’irritare moltissimo il segretario competente, a dire il vero noi segretari non abbiamo gelosie fra di noi per quanto riguarda il lavoro, ognuno ne porta un carico fin troppo abbondante, distribuito davvero senza meschineria, ma di fronte alle parti non dobbiamo in alcun modo tollerare confusioni di competenza. Più di uno ha già perso la partita perché, credendo di non riuscire ad avanzare in luogo competente, ha cercato d’intrufolarsi in uno non competente. Simili tentativi sono del resto votati al fallimento anche perché un segretario incompetente, pur sorpreso di notte e animato dalla migliore volontà di prestare il suo aiuto, proprio per la sua incompetenza non può intervenire più di un qualunque avvocato, o, in fondo, molto meno, poiché gli manca – anche potendo di solito fare qualcosa, poiché comunque conosce le vie segrete della giustizia meglio di tutti i signori avvocati -, gli manca semplicemente il tempo per le cose che non gli competono, non può dedicarvi un solo istante. E allora chi, con queste prospettive, sprecherebbe le sue notti a fare il giro dei segretari incompetenti? D’altronde anche gl’interessati sono occupatissimi se oltre a svolgere la loro attività abituale vogliono rispondere alle convocazioni e ai cenni dei servizi competenti, “occupatissimi” certo nel senso degli interessati, il che naturalmente è di gran lunga diverso da «occupatissimi» nel senso dei segretari». K. annuì sorridendo, ora credeva di capire tutto perfettamente; non perché se ne preoccupasse, ma perché adesso era convinto che tra qualche istante si sarebbe addormentato davvero, questa volta senza sogni né interruzioni; fra i segretari competenti da una parte e quelli incompetenti dall’altra, e di fronte alla folla degli interessati occupatissimi sarebbe caduto in un sonno profondo, sfuggendo così a tutto. Alla propria voce, sommessa, paga di sé, che evidentemente lavorava invano ad addormentarlo, Bürgel si era ormai tanto abituato che gli avrebbe facilitato più che disturbato il sonno. Macina, mulino, macina, pensò, tu macini solo per me. «Dov’è dunque», disse Bürgel giocherellando con due dita sul labbro inferiore, con gli occhi spalancati e il collo teso, come se dopo un faticoso cammino si stesse avvicinando a un meraviglioso panorama, «dov’è dunque quella possibilità rara di cui si è parlato e che non si presenta quasi mai? Il segreto sta nei regolamenti sulla competenza. Non c’è, infatti, e in una grande organizzazione vivente non può esserci, un unico segretario competente per ogni caso. La verità è invece che uno solo ha la competenza principale ma molti altri hanno competenze particolari, quantunque più ristrette. Chi potrebbe da solo, fosse anche il più gran lavoratore, tenere insieme sulla sua scrivania tutti gli atti relativi anche solo al più piccolo dei casi? Persino quello che ho detto a proposito della competenza principale è esagerato. Nella competenza più ristretta non è forse già contenuta anche quella generale? L’elemento decisivo non è forse la passione con cui si affronta il caso? E questa non è sempre la stessa, sempre presente in tutta la sua forza? Ci possono essere differenze fra i segretari, in ogni cosa, e ce ne sono numerosissime, ma non nella passione; nessuno di loro potrà trattenersi, se glielo chiedono, dall’occuparsi di un caso per il quale abbia una sia pur minima competenza. Esteriormente, certo, bisogna organizzare una regolare possibilità di dibattito, quindi per ciascuna delle parti si fa avanti un determinato segretario al quale essa deve far capo ufficialmente. Ma non è nemmeno detto che sia quello con la maggiore competenza per il caso in questione, chi decide qui è l’organizzazione secondo le particolari esigenze del momento. Così stanno le cose. E ora valuti lei, signor agrimensore, la possibilità che un contendente, con l’aiuto di chissà quali circostanze, nonostante gli ostacoli che le ho appena descritti e che in generale sono ampiamente sufficienti, riesca a sorprendere nel mezzo della notte un segretario che abbia una certa competenza per il caso in questione. Lei non aveva ancora pensato a una simile possibilità, vero? Non stento a crederle. Non è nemmeno necessario pensarci, del resto, perché non si presenta quasi mai. Che strano granello, piccolo, con una forma tutta particolare, abile, dovrebbe essere quel contendente per scappar fuori da questo nostro incomparabile setaccio? Lei crede che una cosa simile non possa succedere? Ha ragione, non può succedere. Eppure, una bella notte – chi può garantire di tutto? – la cosa succede. Fra i miei conoscenti, a dire il vero, non conosco nessuno a cui sia già successo, ma questo prova ben poco, la mia cerchia di conoscenze, in rapporto alle cifre che qui entrano in considerazione, è ristretta, e inoltre non è affatto detto che un segretario al quale sia successo un fatto del genere voglia confessarlo, è pur sempre una faccenda personalissima che in certo qual modo tocca molto da vicino il pudore professionale. Comunque, la mia esperienza prova forse che si tratta di una cosa rara, che a dire il vero esiste soltanto per sentito dire e non è confermata da null’altro, quindi è del tutto esagerato averne timore. Anche se dovesse veramente accadere, si può – crederei – letteralmente renderla inoffensiva provandole, ed è facilissimo, che per essa non c’è posto in questo mondo. Ad ogni modo c’è del morboso nel nascondersi per paura sotto la coperta e non osare guardar fuori. E anche se quella cosa assolutamente improbabile dovesse all’improvviso prender forma, forse per questo tutto sarebbe già perduto? Al contrario. Che tutto sia perduto è ancora più improbabile della cosa più improbabile. Certo, quando la parte è entrata nella stanza, la faccenda è già molto grave. Ci si sente stringere il cuore. Quanto sarai in grado di resistere? ci si chiede. Ma non ci sarà resistenza, lo si sa già. Lei deve immaginarsi bene la situazione. La parte, mai vista, sempre attesa, attesa con una vera sete e sempre a ragione considerata irraggiungibile, è lì. Già solo con la sua muta presenza invita a penetrare nella sua misera vita, a frugarvi dentro come in un possesso proprio e a soffrire con lui delle sue vane pretese. Quest’invito nel silenzio della notte è seducente. Si ubbidisce ad esso, e già si è cessato di essere un pubblico funzionario. È una situazione in cui non è più possibile respingere una domanda. Per l’esattezza si è disperati; per maggiore esattezza si è molto felici. Disperati, perché starsene lì senza potersi difendere, ad aspettare la richiesta dell’interessato sapendo che, una volta che è stata formulata, la si deve esaudire, anche se, almeno a quanto si è in grado di valutare, produrrà una lacerazione vera e propria dell’organizzazione ufficiale, è certo la cosa peggiore che ci possa capitare nell’esercizio delle nostre funzioni. Innanzi tutto – a prescindere dal resto – perché così facendo ci si arroga arbitrariamente, per un istante, un elevamento di grado gerarchico addirittura inconcepibile. La nostra posizione infatti non ci autorizza a esaudire richieste come quella di cui si tratta, ma la vicinanza dell’interessato nella notte accresce per così dire le nostre energie di funzionari, e c’impegniamo a fare cose che esulano dal nostro campo; anzi, le faremo davvero. Come il brigante nella foresta, questa persona ci estorce nella notte sacrifici di cui altrimenti non saremmo capaci; e va bene, ormai è così, finché l’interessato è ancora lì, ci fortifica e costringe e sprona, e tutto procede ancora in uno stato di semincoscienza; ma quello che avverrà dopo, quando tutto questo sarà passato, quando l’interessato, sazio e noncurante, ci lascerà e noi rimarremo lì, soli, inermi di fronte al nostro abuso di potere, è impossibile immaginare. Eppure siamo felici. Come può essere suicida la felicità! Potremmo certo sforzarci di nascondere all’interessato la vera situazione. Da solo non si accorge di niente. Stanco, deluso, incauto e indifferente per stanchezza e delusione, è convinto di essere penetrato, probabilmente per motivi indifferenti e fortuiti, in una stanza che non è quella in cui voleva entrare, e se ne sta lì ignaro, occupato a riflettere, se mai riflette, sul suo errore o sulla sua stanchezza. Non si potrebbe lasciarlo così? Non si può. Con la loquacità di chi è felice si è costretti a spiegargli tutto. Si è costretti, senza risparmio di se stessi, a spiegargli per filo e per segno quel che è successo e per quali ragioni è successo, come l’occasione che gli si offre sia straordinariamente rara e grande come nessun’altra, si è costretti a fargli capire come sia incappato in questa occasione con quella sprovvedutezza di cui per l’appunto solo una persona convocata e nessun altro è capace, ma come ora, signor agrimensore, possa, se lo vuole, prendere in mano la situazione, basta che presenti, non importa come, la propria richiesta, il cui soddisfacimento è già lì pronto, che dico, gli tende le braccia, tutto questo si è costretti a far capire; è il momento critico del funzionario. Ma una volta che si è fatto anche questo, signor agrimensore, una volta che l’essenziale è compiuto, bisogna accontentarsi e aspettare».
K. dormiva, chiuso a tutto quello che accadeva. La sua testa, che prima poggiava sul braccio sinistro allungato sul montante del letto, nel sonno era scivolata giù e ora penzolava libera, scendendo a poco a poco sempre più in basso; l’appoggio del braccio non bastava più, inconsciamente K. se ne procurò un altro puntando la mano destra sul letto, e in tal modo s’afferrò per caso al piede di Bürgel che spuntava da sotto la coperta. Bürgel diede un’occhiata e gli lasciò il piede, per quanto la cosa dovesse essere fastidiosa.
A quel punto si udì bussare alla parete divisoria con alcuni colpi energici. K. si svegliò di soprassalto e guardò il muro. «C’è l’agrimensore lì?», chiese una voce. «Sì», disse Bürgel, liberò il piede dalla stretta di K. e d’improvviso si stirò con la vivacità e la baldanza di un ragazzino. «Che si decida a venire di qui allora», disse ancora qualcuno senza alcun riguardo per Bürgel o per il fatto che Bürgel potesse avere ancora bisogno di K. «È Erlanger», disse Bürgel sottovoce; che Erlanger si trovasse nella stanza accanto non pareva sorprenderlo. «Vada subito da lui, si sta già arrabbiando, cerchi di rabbonirlo. Ha il sonno buono, ma noi abbiamo parlato troppo forte; non è possibile controllarsi e controllare la propria voce quando si parla di certe cose. Su, vada, si direbbe che lei non ce la faccia a strapparsi al sonno. Vada, cosa fa ancora qui? No, non si scusi per il sonno, perché dovrebbe? Le forze fisiche reggono fino a un certo limite; chi può farci qualcosa se proprio quel limite è significativo anche per altre cose? Nessuno. Così, nel proprio corso, il mondo corregge se stesso e conserva l’equilibrio. È un meccanismo eccellente, non ci s’immagina mai quanto sia eccellente, benché sotto un altro aspetto sia sconfortante. Su, vada, non so perché mi guarda così. Se tarda ancora, Erlanger piomberà qui da me, e vorrei proprio evitarlo. Vada dunque; chissà che cosa l’aspetta di là, qui si presentano tante di quelle occasioni. Solamente che vi sono occasioni in un certo senso troppo grandi perché uno le possa sfruttare, vi sono cose che contengono in sé la causa del proprio fallimento. Già, è sorprendente. Adesso, del resto, spero di poter dormire un po’. Veramente sono già le cinque e tra non molto incomincia il baccano. Se almeno lei si decidesse ad andarsene!».
Stordito per esser stato bruscamente risvegliato da un sonno profondo, ancora enormemente bisognoso di dormire, con il corpo tutto indolenzito a causa della posizione scomoda, per un pezzo K. non si risolse ad alzarsi, si reggeva la fronte e si guardava in grembo. Nemmeno i ripetuti tentativi di Bürgel di congedarlo avevano potuto spingerlo ad andarsene, ve lo indusse soltanto, poco alla volta, il senso dell’assoluta inutilità di trattenersi oltre in quella stanza. La stanza gli appariva indicibilmente squallida. Se fosse diventata così o lo fosse sempre stata non sapeva. Non sarebbe nemmeno più riuscito ad addormentarsi, lì dentro. Anzi, questa convinzione fu decisiva; ne sorrise leggermente, si alzò, si sostenne dovunque trovava un appoggio, al letto, alla parete, alla porta, e uscì, come se avesse preso congedo da Bürgel molto prima, senza salutare.

FRANZ KAFKA – IL CASTELLO – TESTO INTEGRALE

Struttura del tempo nel  Castello

“Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Oggi passeggiamo per le ampie vie della città ricostruita”. Queste parole di Kakfa sono tratte dai suoi colloqui con Gustav Janouch, che furono fatti conoscere solo molto più tardi e che sono eloquenti, di una eloquenza addirittura superiore a quella che lo scrittore si sarebbe concessa nello ‘spazio letterario’. Perché nel passo citato si parla con una chiarezza critica, quasi con una ermeneutica analitica, di due strati dell’uomo, uno strato basso di tenebra, di sudicia, vischiosa tenebra e uno strato alto, nobile, solare. L’uomo è una città, i cui bassifondi sono fogne maleodoranti, tane e rifugi osceni, percorse da schieramenti massicci di topi, di scarafaggi, da tutta la fauna degli incubi. Poi se si sale al piano superiore, si vede come uno scenario ricostruito, ma non si può dimenticare che quei cartoni da teatro poggiano su argille troppo morbide per non sprofondare un giorno o l’altro negli abissi delle cantine. Come si vede anche da una frase del dottor Kafka il lettore di oggi riceve tanto filo da costruire la serie di trame e, opposizioni psicoanalitiche fra un interno e un esterno, un dentro e un fuori, una notte e un giorno, tra il buio dell’inconscio e la luce della coscienza. E non c’è dubbio che questo intreccio analitico abbia un fondamento non ipotetico, ma nelle scritture di Kafka e nel disegno della sua vita giornaliera indirizzata al solo scopo dello “scrivere” si assiste ad una cancellazione del confine tra le due dimensioni, ad un occultamento delle tracce che separano il noto dall’ignoto, il giorno dalla notte. La dimensione, in cui il verbo di Kafka si insedia, è dunque una zona mista, alla convergenza di due fiumi, uno limaccioso e carico dei detriti più immondi e uno di acque chiare. Faremmo fatica a tradurre in termini psicologici corrispondenti; che i detriti impastino gli istinti e le forze cieche della nostra notte e le acque chiare simboleggino il corso della nostra ragione può essere anche vero, ma ciò per cui Kafka è Kafka non è nell’operazione del distinguere e del separare, quanto in quella di confondere i piani, stabilire un contatto concreto, materiale fra le varie parti della personalità.  I punti ciechi si risvegliano dal loro sonno e cominciano a rappresentarsi in movimento davanti a un Io, che avendo le regole, le leggi del giorno, vede invece annullarsi il proprio codice e animarsi al suo posto un balletto di figure scheggiate e dormienti. Un contatto lungo, rischioso, un occhieggiare là dove gli occhi si dovrebbero distogliere; un’applicazione quasi diligente a scrutare nel loro realismo le manifestazioni del sogno, del reale perduto o reificato nel passato o della realtà frammentata, che ha abbandonato la forma della consistenza per acquisire le forme della trasformazione, della dissoluzione. È stato detto che l’inconscio, su cui Kafka affonda le sonde della sua visione, è “documentato”. È un inconscio popolato di figure, un inconscio che ha una sua topografia urbana, una sua periferia; una dimensione trafficata, vociante, animata, chiassosa, lasciva, stizzosa, severa. Uno spazio su cui sembra che domini il caso, ma non il caso della libertà, ma il caso dell’arbitrio. Ma poi si scopre che è un arbitrio guidato per far male, per incrudelire contro il qualcuno che è entrato dove non poteva entrare, anche se ci è stato chiamato, convocato (è il caso di K. l’agrimensore, di cui è stata richiesta fino ad un certo punto l’opera dai Signori delCastello).

In una lettera all’amico e futuro editore Max Brod del luglio 1922, Kafka parla del romanzo che sta scrivendo (e una parziale lettura sarebbe stata fatta alla presenza dello stesso Brod il 15 marzo 1922) come di una discesa all’inferno: “Questa discesa alle potenze delle tenebre, questo scatenamento di spiriti legati per natura, i problematici amplessi e tutto quanto può avvenire laggiù, di cui qua sopra non si sa nulla quando si scrivono racconti alla luce delsole”. Viene in mente un altro viaggio all’inferno, l’“Acheronta movebo” che Freud pone come epigrafe alla Interpretazione dei sogni. E quel verso era di Virgilio, di un’altra discesa alle potenze infere. Ci sarebbe da notare che nella letteratura (e per un istante mettiamo anche Freud in questa categoria) la conoscenza di sé è vincolata all’esperienza della discesa alle tenebre, come a fondamento, a pilastro dimenticato della civiltà individuale. Questa discesa è guidata (pensiamo a Virgilio per Dante, alla nuova scienza psicologica per Freud),  mentre in Kafka l’escursione in abisso è senza compagni, senza immagini solidali, senza una sapienza amica. Il suo personaggio appare all’improvviso là dove è stato chiamato, ma da quali voci o sussurri e quando resta misterioso, là dove però non è voluto: “Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello. K. si fermò a lungo sul ponte di legno che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel vuoto apparente”. I movimenti di K. sono rallentati; egli sfiora continuamente la soglia del sonno, in una alternanza di sonno cercato come rifugio, procurata cecità e forse dolcezza d’oblio; e veglia violenta e imposta. Il tempo così rallentato è quello di un dormiveglia ambascioso, nel corso del quale più volte capita di perdere e di ritrovare la strada del giorno. Guardiamo a questa sequenza, ancora nella prima pagina del Castello:“Faceva cal-do, i contadini erano silenziosi, K. li guardò ancora per qualche minuto con gli occhi stanchi, poi s’addormentò. Ma poco dopo lo svegliarono” (C43).  Ma anche i Signori del Castello, Klamm ad esempio, l’inaccessibile che può essere spiato solo da un “bucolino”, da un “piccolo foro” praticato nella porta “a scopo d’osservazione” (C74),  anche questi Signori, questo Klamm sono dormienti, sempre mezzo appisolati, quasi rapiti, sequestrati nella loro inaccessibilità, nella loro imperscrutabilità. “A che cosa pensano nel loro dormiveglia? Sono forse gli epigoni degli Atlanti che reggono il mondo sulla nuca? È forse per questo che tengono la testa ‘così profondamente abbassata sul petto che non si vede quasi nulla degli occhi’ , come il castellano nel suo ritratto o Klamm quando è solo con sé? No, non è il globo che essi portano; ma anche il lavoro più comune ha lo stesso peso…”. Si nota nella vita del Castello un ritmo alterato; ora ogni movimento è rallentato, ora sproporzionatamente accelerato; la pellicola ha tempi lunghi come “ere” e tempi raccorciati come vortici. È chiaro che lo scrittore interviene scientemente per trattare il tempo, ma questa durata non è propriamente psicologica, essa è piuttosto una durata prepsichica e quindi una ‘non durata’, una linea spezzata, una discontinuità, una non storia. Cosa intendiamo dire con ‘durata prepsichica’ (tanto varrebbe chiamarlo ‘scorrimento preistorico del tempo’)? Intendiamo, la struttura atemporale di quella zona mista, in cui la mente si specchia senza intermediazioni nella densità di un nucleo originario. Il tempo è un vettore che s’inceppa, che cade e si rialza; anche il tempo acquista una sua figura claudicante, deforme; un volto di violento chiaroscuro.

Anche il tempo si addormenta e si risveglia

Stile kafkiano: esempi di scrittura

II linguaggio di Kafka è insolitamente e apparentemente semplice, nel senso che è privo di audacie formali, di invenzioni neologistiche, di barocchismi espressionistici. Nei primi racconti come Dialogo con il devoto e con l’ubriaco e i frammenti visionari di Contemplazione, Kafka è più vicino allo stile degli espressionisti uno stile che scompone la realtà con una mobilità quasi cinematografica, ma anche uno stile che vede l’uomo alla stregua di una forma meccanica (il termine ‘robot’ viene inventato proprio in questo periodo e in un ambito di cultura letteraria tedesca). Nel Castello lo stile kafkiano si è assestato definitivamente, è diventato “uno strumento espressivo inconfondibile per la precisione e la secchezza del periodo, unito da un tono grigio, uniforme, in una compagine senza incrinature”Pur lavorando su una traduzione (quella di AnitaRho), e quindi non potendo riferire nel merito dell’originale tedesco, è possibile dare qualche esempio sia della ‘inconfondibilità’ (ciò che fa dire ‘kafkiano’ e ne estende la portata a situazioni che non sono, alla lettera, di Kafka) e della “precisione” di questo stile. L’uniformità è pure una caratteristica del Castello, mentre lo è meno di altri romanzi (America poniamo) e di altri racconti. Ma l’uniformità non è confondibile con la monotonia, è piuttosto una capacità superiore di dominare le effrazioni, il collante di una razionalità di rara potenza. Cominciamo dal II Capitolo e dall’incontro con i due aiutanti che avrebbero dovuto assistere K. nel lavoro di agrimensura. Con i due esseri, chiamati Artur e Jeremias, siamo già in una dimensione pienamente kafkiana e anche letteralmente kafkiana: “Chi siete?” domandò, e li guardò l’uno dopo l’altro. “I vostri aiutanti” risposero. “Sono gli aiutanti” confermò sommessamente l’oste. “Come?” chiese K. “Siete i miei vecchi aiutanti, quelli che ho fatto venire e che aspettavo?” Essi risposero affermativamente…” (C57). È una figura doppia, dalla vitalità incontenibile, una simbolica degli istinti, ma vediamo come Kafka ci mette di fronte non all’astrazione del simbolo, ma all’immagine concreta, realistica del doppio: Presero posto tutti e tre a un tavolino, e sedettero lì, abbastanza silenziosi, davanti ai loro boccali di birra, K. nel mezzo, a destra e a sinistra i due aiutanti. C’era un altro tavolo occupato da contadini, come la prima sera. ‘Non è facile trattare con voialtri’ disse K. confrontando i loro visi, cosa che aveva già fatto parecchie volte, ‘come faccio a distinguervi? Siete diversi soltanto di nome, per il resto vi somigliate come…’ esitò un attimo, poi continuò involontariamente ‘vi somigliatecome serpenti’. Essi sorrisero. ‘Gli altri ci sanno distinguere benissimo’ dissero per giustificarsi (C 58). Quindi la semplicità è solo di facciata, non ci sono parole difficili, né vanità espressive. L’espressione è tesa unicamente alla rappresentazione esatta di una cosa o oggetto o situazione che non appartiene alla dimensione normale. Kafka rappresenta puntigliosamente, meticolosamente, realisticamente un mondo che stride con la realtà che più di frequente conosciamo. Da qui il contrasto fra lo strumento descrittivo e la cosa descritta. Sappiamo dalla lettura degli Epistolari che Kafka aveva una grande memoria per i particolari, per i dettagli che riguardavano se stesso o le persone che lo avevano colpito. Elias Canetti, uno dei suoi più prestigiosi interpreti, a proposito della sesta lettera a Felice, una cronaca estremamente minuta del loro primo incontro, parla di Kafka come di “uno scrittore di tipo flaubertiano, che nulla ritiene triviale, purchésia esatto”. Questa mi sembra una annotazione molto pertinente anche allo stile del Castello, una precisione portata al limite della pedanteria, ma una pedanteria che ottiene un effetto di angoscia. Pensiamo al mondo dei funzionari, a quell’universo di carte, di documenti, all’arbitrio che circola in quel mondo apparentemente dominato, catalogato, ma sempre sulla soglia di esplodere in un intollerabile caos. E poi il senso del vano, dell’inutile, del perduto; della mancanza di senso Kafka è forse il più grande epico nella storia della letteratura. Leggiamo questa pagina disperante; riguarda le modalità con cui Barnabas, il messaggero che comunica a K., riceve o almeno dovrebbe ricevere gli ordini da Klamm:

Ancor più grave mi sembra il modo in cui Klamm riceve Barnabas. Barnabas me l’ha spesso descritto e persino disegnato […] Sul leggio vi sono grandi libri aperti, l’uno vicino all’altro, e ritti davanti ad essi stanno i funzionari e li compulsano. Essi non leggono sempre lo stesso libro, ma invece di scambiarsi i volumi si scambiano i posti […] Sul davanti, addossati al leggìo, ci sono tavolini bassi a cui siedono degli scrivani che scrivono sotto dettatura quando i funzionari lo desiderano. Per Barnabas è sempre oggetto di meraviglia il modo in cui questo avviene. II funzionario non dà un ordine espresso, né detta ad alta voce, ci si accorge appena che stia dettando; egli ha tutta l’aria di leggere come prima, però si mette a bisbigliare, e lo scrivano lo sente […] Certo Barnabas ha agio di fare queste osservazioni, perché nello spazio riservato al pubblico egli sosta per ore e talvolta per giornate intere prima che lo sguardo di Klamm si posi su di lui. E anche quando Klamm l’ha già visto e Barnabas s’è irrigidito sull’attenti, non v’è ancor niente di deciso, perché può darsi benissimo che Klamm torni a immergersi nel suo libro e lo dimentichi. Molto spesso è così. Ma che cos’è un servizio di messaggero che ha così poca importanza? Mi si stringe il cuore quando Barnabas al mattino dice che va al Castello. Quella strada probabilmente inutile, quella giornata probabilmente perduta, quella speranza probabilmente vana… (C 196-197)

La forza di questa scrittura è nel rapporto di necessità che vincola il senso con la sua espressione, sì che la funzione consegue una consistenza di tale densità da essere impenetrabile. Questo è un aspetto su cui conviene insistere; la chiarezza del dettato kafkiano è apparente, cioè è chiaro il senso manifesto, o meglio è chiaro l’ordine sintattico delle frasi, ma tutto il resto è enigmatico, è un punto cieco, una domanda sul nullaforse. Kafka, attraverso i personaggi, lascia cadere quasi inavvertitamente parole che hanno un peso enorme e che pure non si lasciano tradurre in alcunché di preciso, sia pure di terribile. È un terrore arcano che avvolge K. in urto con un mondo che non lo vuole. Leggiamo un brano di pag. 69, nel XI cap., dove si parla del rapporto con la famiglia di Barnabas, la cui storia sconvolgente verrà narrata per esteso nel cap. XV; La gente del paese, che lo manderà via o che aveva paura di lui, gli sembrava meno pericolosa, perché in fondo lo rinviavano soltanto a se stesso, e lo aiutavano a tener raccolte le sue forze; ma questi soccor–ritori apparenti, che grazie a una piccola mascherata invece di condurlo al Castello lo introducevano nella propria famiglia, volontariamente o no lo sviavano dal suo intento e lavoravano a distruggere lesue forze (C 69).

La pedissequa precisione dei dettagli può sembrare parodica del fatto tragico che è il senso generale che sfugge. Così l’occhio della mente indugia sui particolari, perché è l’unico appiglio nel vuoto. L’oscura minaccia che pesa su K. è appunto quella di non sapere e pertanto di muoversi in modo rischiosissimo tra le convenzioni del Castello. Riportiamo un brano del cap. IV, nel quale l’ostessa avverte minacciosamente K.della sua insipienza e della sua imprudenza: “Signor agrimensore, le do ancora un consiglio da meditar per la strada, perché, nonostante i suoi discorsi e le offese rivolte a una vecchia come me, lei è pur sempre il futuro marito di Frieda. E solo per questo motivo io le dico che lei è spaventosamente all’oscuro della situazione, vengono i sudori freddi a chi l’ascolta e confronta mentalmente ciò che lei pensa e afferma con i fatti reali. Questa sua ignoranza non si può correggere in una volta sola, e forse non si può correggere affatto, ma molte cose andrebbero meglio se lei mi credesse almeno un poco e tenesse sempre presente la sua insipienza…” (C 90) Lo stile kafkiano è anche una strategia che progressivamente assimila, all’interno di una trama quasi invincibile, la sua vittima. Ma poi questa vittima non è propriamente tale e si dibatte con le armi della ragione e della volontà; entra in collisione (si è visto nel dialogo della ostessa) con leggi ignote a lui o forse con leggi non scritte, alle quali una misteriosa alterità si attiene per oscure tradizioni. E la scrittura inesorabilmente accompagna il farsi e il disfarsi di questa tela immane, con una alternanza di razionalità esasperata e di dissoluzione nell’assurdo o nel vano di tanta prodigiosa potenza intellettuale

…….

Leggiamo ancora qualche testimonianza su Kafka negli anni del liceo: “Per lui la scuola fu sempre qualcosa che non lo toccava molto nell’intimo, ma che doveva essere fatto bene. Gli volevamo tutti bene e lo stimavamo, ma non riuscimmo mai a entrare nella sua intimità, era come se fosse sempre circondato da una parete di vetro… egli restava distante ed estraneo”.  Kafka stesso parla, come conseguenza dell’“odio”, dello sviluppo dentro di sé di una “indifferenza fredda, appena mascherata, incrollabile, infantilmente inerme, spinta fino al ridicolo, animalescamente soddisfatta di un ragazzo dalla fantasia sufficiente ma fredda”. La freddezza, quella maschera protettiva fatta di lontananza, sono le modalità che consentono di rimisurare la condizione umana. Anche per questo Kafka può scrivere nei taccuini che non ci sarà, per lui, più psicologia; l’agrimensore che nel Castello vaga alla soglia della dimora dei Signori, chiamato eppure respinto, convocato per svolgere il suo compito di misuratore, ma sospeso in una attesa limbale, è il protagonista di una parabola che sintetizza le sparse annotazioni deiDiari , così come nell’unità del protagonista K. si saldano le diverse identità che i Diari lascianFo trasparire.

Franz Kafka, il Castello – Arte e Psicologia

 



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