A mon seul désir – Akira Kurosawa films + Le lettere nascoste: Caterina d’Aragona pdf

Le lettere nascoste: Caterina d’Aragona e le tappezzerie del liocorno

Mario Trombino

“A Mon Seul Désir”

Le immagini visive come linguaggio della filosofia

[Vedi anche le voci:  Cinema e filosofia, Pensiero per Immagini]

Al Musée de Cluny, a Parigi, si conserva una celebre serie di grandi arazzi che si è soliti chiamare de la Dame à la Licorne, per la presenza ricorrente di una Dama rinascimentale e di un Liocorno. Come sempre, l’interpretazione di queste immagini non vede concordi gli studiosi, anche se uno degli arazzi porta la inequivocabile scritta A Mon Seul Désir, richiamando in questo modo il tema della libertà come libero arbitrio e controllo di sé – un controllo che in tutti gli arazzi la Dama sembra possedere pienamente. Ma cosa stia facendo la Dama in questo arazzo è controverso perché sembra prendere, o forse posare, una collana di perle da un cofanetto [1]. La Dama e le diverse figure animali sono immerse in uno spazio astratto, ma caratterizzato da molti fiori e piante, un giardino.

A composizioni del genere si è spesso ispirato il cinema; e, ad esempio, in un film dal titolo Sogni, di Akira Kurosawa, compaiono in molte figurazioni giardini e boschetti che richiamano la pittura francese del secondo Ottocento, Van Gogh in particolare. Il richiamo al cinema si giustifica perché qualcosa di cinematografico la composizione francese in effetti ha, benché non si tratti di immagini in movimento. Ma in movimento è il nostro sguardo, richiamato dalla sequenza di immagini e dalla evidente necessità di leggerle insieme.

 

La grammatica dei linguaggi visivi fa sì che vi siano dei contatti tra le arti, e più in generale la grammatica dei linguaggi fa sì che questi contatti abbiano una estensione difficilmente definibile. In un ciclo come quello di Parigi e nel film di Kurosawa questa grammatica esprime dei concetti complessi, di natura filosofica. E’ possibile dire che si tratta di esposizioni di concetti filosofici attraverso un linguaggio diverso da quello tradizionale della parola detta o scritta?

C’è da dubitare che l’esposizione di concetti, per quanto elevati, sia al centro di queste opere. Non perché non sia vero che c’è un messaggio filosofico espresso in questo modo – c’è, ed è un messaggio consapevolmente introdotto, come in uno scritto filosofico o, per restare nel contesto di opere d’arte, come nella Commedia dantesca – ma perché la natura dell’opera è tale che, se questo messaggio viene smarrito, o rimane dubbio, la comprensione dell’opera in quanto opera d’arte non ne viene del tutto compromessa. Non che il significato iconologico non sia importante, ma l’impressione che si ricava da una visita al Musée de Cluny e dalla vista di un film come Sogni è così forte per ragioni indipendenti dal messaggio filosofico da costringere a dubitare che l’iconologia sia decisiva.

Tuttavia, non vi è alcun dubbio sul fatto che vi sia un messaggio filosofico e che questo abbia peso per la comprensione dell’opera, come ve ne è uno in opere più vicine al linguaggio della filosofia come il De Rerum Natura di Lucrezio. La filosofia può trasmettere i propri messaggi in molti modi ed è possibile accostarsi al pensiero filosofico attraverso linguaggi diversi dalla parola detta e scritta. Lo studio iconologico di un’opera è una di queste vie.

Tutto questo è ben noto e non può, del resto, destare meraviglia, se complesse ed astratte dottrine teologiche e mistiche sono sotto i nostri occhi sotto forma di opere d’arte, non solo nella tradizione occidentale, ma anche in quella orientale. Che la dimensione estetica faccia premio su quella filosofica o teologica – e che in alcuni casi accada il contrario – dipende non dall’opera in sé, ma dal modo in cui la si legge [2].

Tuttavia, in queste opere c’è spazio anche per l’argomentazione filosofica, che costituisce il nucleo di senso della filosofia se possibile più dei suoi stessi concetti? L’immagine, in sé, non sembra consentirlo, ma la sequenza delle immagini, anche in una stessa figurazione, sì. Anzi, la forza evocativa del vulcano o dei demoni di Kurosawa è così forte che costituisce in sé una argomentazione delle tesi sulla natura umana sostenute dal film da potere certamente stare alla pari con le argomentazioni di uno – o meglio di una serie – dei pensieri di un Marco Aurelio o di un Pascal, filosofi alle cui tesi sull’uomo le tesi di Kurosawa sono molto vicine. Del resto, nulla vieta l’uso della parola detta e scritta, benché negli esempi scelti se ne faccia un uso limitato [3]. Sono tuttavia queste a dare un senso unitario leggibile all’opera. In assenza, come è il caso di un’altra opera certamente ricca di contenuti filosofici, come è la Primavera di Botticelli, il senso filosofico può smarrirsi nelle incertezze dell’interpretazione. Benché, certo, questo possa dirsi anche di molte opere filosofiche tradizionali.

La filosofia può quindi esprimere tanto i suoi concetti quanto le sue argomentazioni attraverso il mondo delle immagini delle arti visive. E lo ha anche fatto episodicamente in passato, ad esempio con le celebri immagini che filosofi come Hobbes e Vico hanno voluto per i loro trattati.

C’è quindi un doppio senso di marcia tra filosofi e artisti:

  • gli artisti richiamano nelle loro opere concetti e argomentazioni filosofiche, dando loro un contenuto elevato sul piano dell’astrazione dell’intelletto (e questo accade spesso);
  • i filosofi si servono dei linguaggi visivi per esprimersi, al posto di mezzi più tradizionali (e questo è accaduto raramente in passato).

O forse dovremmo dire che la distinzione tra filosofi e artisti, come identità sociale e professionale, dipende da ragioni sociali e da ricostruzioni a posteriori (da parte degli studiosi di filosofia e di storia delle arti visive) piuttosto che da ragioni profondamente radicate nella coscienza dei filosofi e degli artisti. Dürer, nel dipingere Melancholia I, ha percezione di sé come artista e come filosofo o soltanto come artista? E’ un umanista, e nel contesto del suo tempo – in cui l’identità sia dei filosofi che degli artisti stava rapidamente mutando – la risposta non è scontata.

Ora, naturalmente, i linguaggi non sono affatto neutri nell’espressione di concetti e argomentazioni. Un carattere importante delle immagini visive, come linguaggio della filosofia, è la loro capacità di aprire a molteplici orizzonti di senso [4]. Un universo di concetti e di realtà presenti solo in modo virtuale e/o un universo di possibilità si aprono dietro ogni aspetto dell’immagine ed è dunque chiaro il principio che rende vantaggioso o svantaggioso (a seconda dei fini del filosofo) il ricorso al linguaggio delle immagini per la filosofia:

  • le immagini visive esprimono meglio concetti e argomentazioni che aprono a molteplici direzioni, che legano il particolare che rappresentano ad una universalità di enti o eventi; sono quindi vantaggiose quando è in gioco la necessità di esprimere la multiforme realtà della esperienza della vita, con i suoi legami continui e non discreti tra enti ed eventi.

Ad esempio, la nozione filosofica che lega la libertà come libero arbitrio al controllo di sé è espressa con minore forza da una trattazione in termini concettuali diretti piuttosto che dalla serie degli arazzi de la Dame à la Licorne, perché l’universo dei segni apre a indefinite situazioni della vita. La sovrana padronanza di sé della Dama, la fissità di animali, piante e fiori, la bellezza dell’insieme, richiamano esperienze concrete che, per chi osserva, sono altrettanti casi particolari (personali e singolari) dell’unico concetto universale (legame tra libero arbitrio e controllo di sé). Più facilmente ciascuno lega la vita, nella singolarità della propria esperienza, con l’astrazione del concetto. Che poi a monte sia indispensabile un universo di senso per intendere l’immagine, e quindi un universo di parole e di pensiero discorsivo tradotto in parole, ebbene questo è solo parallelo al fatto che dietro ad un testo deve essere noto un contesto. Anche nella parola detta e scritta serve un universo di senso che, in essa, non è affatto iscritto.

C’è un secondo carattere delle immagini che può renderle un linguaggio migliore di altri per la filosofia. In modo immediato, diretto, le immagini evocano emozioni, e le emozioni aprono a loro volta ad una molteplicità di vita. Quando, dunque, un universo di vita è presente nei concetti, in forma necessariamente staccata dalla vita, le immagini riescono a parlare in modo diretto, mentre il linguaggio concettuale può farlo solo in modo indiretto. E’ dunque chiaro un secondo principio che rende vantaggioso o svantaggioso (a seconda dei fini del filosofo) il ricorso al linguaggio delle immagini per la filosofia:

  • le immagini visive esprimono meglio concetti e argomentazioni che contengono rimandi alla sfera emotiva e di essa si nutrono, come è il caso di molti concetti dell’etica, dell’estetica, della politica, e in generale di ogni ambito della filosofia che implichi un tessuto d’esperienze emotivamente vissute come via per il concetto.

Ad esempio, le nozioni filosofiche di dignità della persona e di razionalità impazzita della guerra (nozioni che appartengono ad una lunga tradizione filosofica, e per le quali è possibile richiamare il nome di Kant) sono espresse con una forza che fa premio su ogni trattazione concettuale in un film come Sogni, nell’episodio intitolato Il tunnel, o in un quadro come Guernica.

Ma naturalmente se si desidera una esposizione in termini concettuali universali, le immagini possono soltanto costituire un gradino intermedio, che il passaggio al concetto deve abbandonare (o forse dovremmo dire: deve ricomprendere in sé).

La filosofia ha quindi bisogno di molti linguaggi, e quello visivo è solo uno tra altri.

Una attenzione particolare va posta, negli esempi proposti del Musée de Cluny e di Sogni, al rapporto tra parola e immagine. Prima notavamo che sono queste parole a dare un senso unitario leggibile all’opera. Ma sia negli arazzi che nel film il predominio delle immagini è assoluto. Questo non è affatto in contrasto con la decisiva importanza delle parole. La mente, infatti, lega parola e immagine in una unità di senso con tanta maggiore facilità quanto più l’essenziale è posto in evidenza con chiarezza. Ed è ciò che fanno poche parole, laddove troppe confonderebbero.

Tuttavia vi sono momenti, in Sogni, in cui la parola ha una funzione diversa, di tipo teatrale. Consente di vedere, attraverso un atto di immaginazione, immagini che non compaiono, come accadeva nel teatro greco. Ad esempio nell’episodio intitolato Fujiama in rosso sono le parole dell’ingegnere e della coppia a suggerire l’immagine della centrale nucleare esplosa e dei corpi della folla in fuga nel fondo dell’oceano.

Questa annotazione ci costringe a riflettere sul ruolo dell’immaginazione nella lettura delle immagini. Quale è lo status dell’immagine della centrale nucleare che esplode con la lava del Fujiama, immagine che non compare sullo schermo? Compare tuttavia nella mente dello spettatore e dà senso all’insieme. Dà, più esattamente, senso su due piani distinti:

  • sul piano della narrazione: se si togliesse l’audio, sarebbero comprensibili (almeno in parte) le immagini dell’eruzione, ma si perderebbe del tutto il contenuto narrativo delle scene sulla scogliera;
  • sul piano del senso della narrazione: senza le immagini – solo mentali, suggerite dalle parole – delle centrali nucleari che esplodono, la riflessione filosofica sulla natura umana, cioè il contenuto di senso di tutte le immagini dell’episodio, sarebbe incomprensibile.

Siamo dunque in presenza di due diverse forme di immagine: l’una visiva e mostrata sullo schermo, l’altra altrettanto visiva, ma non mostrata e suggerita dalle parole degli attori. Un atto della mente apprende la prima e costruisce la seconda (attraverso l’udito: suoni dotati di senso ed emozioni connesse ai suoni), le unisce e consente in questo modo all’unità del senso di comporsi. In tutto questo ha un posto non irrilevante la musica, che si incarica di costruire, in connessione con le immagini visive e le parole cariche di senso e di emozioni, uno stato emotivo che spinge con forza verso la riflessione sull’uomo.

Le tesi e le argomentazioni espresse nel film non sono lontane da quelle che è possibile trovare in Pascal. La differenza, e quindi il vantaggio espressivo, sta nella pluralità di piani presenti nel cinema.

Ma le cose stanno proprio così? Si prenda il seguente testo di Pascal: “Ci si figurino degli uomini in catene, e tutti condannati a morte, mentre alcuni sono ogni giorno sgozzati davanti agli occhi degli altri, quelli che restano vedono la propria sorte in quella dei loro simili, e si guardano con dolore e senza speranza, aspettando il loro turno. Questa è l’immagine della condizione dell’uomo“. [199]

L’operazione richiesta da Pascal è simile a quella richiesta nella scena della scogliera in Fujiama in rosso: lì lo spettatore, qui il lettore, è chiamato (“Ci si figurino…“) a produrre nella mente, attraverso l’immaginazione, una sequenza visiva, così come nel film. Le immagini richieste sono:

  • uomini in catene, di cui si dice che si tratta di condannati a morte (dunque un’immagine connessa ad un’emozione per il richiamo alle catene e alla condanna a morte, e una spiegazione del senso narrativo dell’immagine: le catene si spiegano con la condanna a morte);
  • uomini sgozzati, altri che guardano (l’immagine è specificata, quasi come in una sceneggiatura cinematografica, da molti ed essenziali dettagli, ed è connessa ad una rete di emozioni, come il dolore, l’assenza di speranza, l’attesa del proprio turno).

Pascal conclude con la spiegazione del senso della sequenza, composta da due immagini narrative che, insieme, sono immagine della condizione umana. Qui il termine immagine, al singolare, rimanda non al senso narrativo della scena, ma al suo significato filosofico. Le immagini, ci viene detto, non costituiscono un linguaggio proprio, ma figurato. La chiave per leggerle è intenderle come metafora di un messaggio filosofico.

Ora, noi sappiamo che moltissimi filosofi hanno fatto uso di metafore in luoghi centrali della filosofia [5] e che l’uso delle immagini consente la costruzione di un universo di senso in più direzioni:

  • nella direzione delle esperienze vissute, perché le immagini sono connesse – sempre – ad emozioni, e richiedono quindi, implicitamente, una connessione con la sfera individuale del vissuto;
  • nella direzione del pensiero discorsivo, perché chiamano una molteplicità di riflessioni, di ragionamenti, di interpretazioni, per le quali è in gioco l’intelletto (che cosa significa che questi uomini – tutti gli uomini – sono condannati a morte? che cos’hanno fatto per esserlo? e se questa è la condizione umana, e quindi è indipendente dal fare, che senso ha la morte? e le catene? e cosa c’è dietro questa scena di crudeltà? e così via);
  • nella direzione di altre immagini, come in una rete (in questo caso all’immagine della caverna platonica; ma per la forza evocativa delle immagini, questa rete si prolunga oltre il testo, e per uomini del XX secolo, e del XXI, non può non richiamare orrori contemporanei, e costringe alla domanda: perché?).

Il parallelo con Fujiama in rosso è completo, perché nel film Kurosawa fa riflettere i suoi personaggi sui limiti dell’uomo, orientando quindi attraverso le parole la lettura delle immagini visive in senso filosofico (possiamo fidarci dell’uomo? la sua intelligenza è una garanzia contro quella che nel film viene definita “imbecillità”, non di alcuni uomini contro altri, ma dell’uomo come uomo?).

Dunque anche nel testo è presente, come nel film, una pluralità di piani. E’ l’immagine, non una sua versione in una forma linguistica o l’altra – visiva o letteraria -, a consentirlo.

C’è però una differenza non marginale. Nel film non si parla affatto delle immagini come “immagine” di qualcos’altro. Non si tratta di una metafora. Questo episodio di Sogni, a dispetto del carattere onirico della composizione complessiva, non parla un linguaggio figurato, ma proprio. Se utilizziamo l’antica idea che l’arte sia imitazione della realtà, anche queste scene da un film lo sono. Ma quale realtà? In questo episodio si tratta di una realtà possibile, persino contemplata, sia pure come possibilità remota, negli scenari che gli scienziati hanno certo tenuto presente per la progettazione e costruzione della centrale.

Allora in Fujiama in rosso Kurosawa ha solo dato visibilità ad un possibile, ha dato vita non ad un linguaggio figurato (metafora, allegoria, e simili), ma ad un universo parallelo. Ad un universo in cui è accaduta una cosa possibile come reale nel nostro universo.

Si tratta di una forma di argomentazione. La tesi è che nell’uomo intelligenza e stupidità sono entrambe presenti, prova ne sia il fatto che si costruiscono con il placet degli scienziati centrali nucleari vicino ai vulcani [6]. Questa forma di argomentazione – la costruzione di universi paralleli in cui accade qualcosa di significativo per l’universo reale – è ben nota in filosofia. E’ stata utilizzata moltissimo in un particolare periodo della sua storia, nel XVIII secolo in ambiente illuminista, quando si è spesso argomentato attraverso la narrazione di storie sulle quali si riflette per enunciare delle tesi filosofiche: statue che prendono vita, un bambino di nome Emilio che viene educato in un certo modo, e così via. Il genere è figlio di molti padri: il romanzo inglese e francese, la letteratura utopistica, gli esperimenti mentali di Galilei, la concezione della ragione come dotata di un potere indipendente dalla esperienza dei fatti, e così via.

La nostra tesi di fondo è che la filosofia può esprimere tanto i suoi concetti quanto le sue argomentazioni attraverso il mondo delle immagini. Che si tratti di immagini raffigurate in una arazzo, di immagini letterarie che danno luogo a metafore, di immagini cinematografiche, questo è possibile in ogni caso. Che lo si faccia con immagini visive tradizionali (arazzo) o in movimento (cinema) oppure di immagini suggerite all’immaginazione da un testo scritto o da immagini visive; che si tratti di immagini utilizzate come linguaggio proprio o come linguaggio figurato; ebbene questo dipende soltanto dalla forma che l’autore sceglie. Il mondo delle immagini è davvero un mondo, una dimensione della realtà e della mente (ogni immagine, comunque sia formata, è in ultimo un prodotto dell’immaginazione, in quanto la facciamo nostra nella mente) in cui ogni immagine si apre in molte direzioni, a rete.

In questa apertura ad un universo di senso è il vantaggio rispetto ai linguaggi tipici del pensiero discorsivo.

Ma proprio per questo assolutizzare un’immagine significa sempre tradirne il senso. Un’immagine è il nodo di una rete, la tesi filosofica che in essa si esprime è frammento di un tutto (per le filosofie sistematiche) o apre ad altre tesi che non costituiscono nel loro insieme un tutto (in molte filosofie, ad esempio quelle non sistematiche, come in Nietzsche, o quando il fine è pratico, come in Marco Aurelio, e ciò che serve non è il richiamo al tutto ma ad uno dei princìpi della scuola).

E infatti, negli esempi dati:

  • negli arazzi de la Dame à la Licorne ciascuna immagine, in sé significante, rimanda alle altre, e il senso complessivo è diverso dal senso di ciascuna secondo tutte le interpretazioni;
  • nel testo di Pascal la tesi, relativa alla miseria dell’uomo, deve essere letta in parallelo alle tesi sulla grandezza dell’uomo;
  • in Sogni, le tesi pessimistiche sull’uomo vanno lette nel contesto di un preciso messaggio positivo che molti episodi propongono.

Le immagini sono dunque uno dei linguaggi della filosofia: tanto le immagini statiche quanto le dinamiche, tanto le visive quanto le mentali. Non si tratta del linguaggio proprio di un certo tipo di filosofia, perché la struttura a rete che esse implicano non è propria di alcun modello filosofico, sia esso sistematico o non sistematico: troviamo immagini a rete nelle Meditazioni cartesiane come nello Zarathustra di Niertzsche.

Ma sempre esse aprono a molteplici universi di senso. Chiuderle in uno, significa rinunciare a una parte di quello che esse hanno da dire.

http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/immagini-2.htm



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http://www.controappuntoblog.org/2013/01/11/ran-%E4%B9%B1-caos/

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http://www.iaphitalia.org/le-filosofe-e-la-licorne/

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