“Sciuscià 70” al Festival di Lione : NEOREALISMO – Free cinema – video – post correlati

“Sciuscià 70” selezionato per il Festival di Lione

Il nuovo documentario diretto e prodotto da Mimmo Verdesca, “Sciuscià 70″, è stato selezionato per partecipare alla prossima edizione del Festival Lumiere di Lione. Realizzato in occasione dei 70 anni dall’uscita in sala del capolavoro di Vittorio De Sica (nel 1946) e unico film italiano alla kermesse, il documentario sarà presentato in anteprima mondiale il 9 ottobre presso la Ville Lumiere di Lione, alla presenza del regista, dei direttori del festival Thierry Fremaux e Bertrand Tavernier e dell’attore francese Lambert Wilson. Attraverso la viva voce dei protagonisti e con un ricco e inedito materiale d’archivio, “Sciuscià 70″ racconta nei dettagli l’avventurosa lavorazione del celebre film neorealista, ripercorrendo i luoghi romani dove la pellicola fu girata.

http://www.cine-mania.it/2016/09/22/sciuscia-70-selezionato-per-il-festival-di-lione/

NEOREALISMO

Enciclopedia del Cinema (2004)

di Lino Miccichè

Neorealismo

Composita e complessa dinamica culturale, che ha caratterizzato il cinema italiano dal dopoguerra (1945-46) sino ai primi anni Cinquanta (1953-1956), il N. è stato, sotto molti aspetti, la prima delle ‘nuove ondate’ che, innovando gli aspetti formali e narrativi del cinema, hanno puntato alla sua modernizzazione, sottraendolo alle formule realizzative, ai modi di produzione, ai canoni spettacolari, alle consuetudini linguistiche tradizionali. A livello internazionale, quando già si era conclusa la forza propulsiva del rinnovamento italiano, fecero seguito, nel corso degli anni Cinquanta, il Free Cinema inglese (1956), il cinema dell’ottobre polacco (1958), la Nouvelle vague francese (1959) e, negli anni Sessanta, l’una dopo l’altra o l’una accanto all’altra, le vagues del cinema argentino, giapponese, tedesco, cecoslovacco, brasiliano (e più in generale latinoamericano), ungherese, africano ecc., sino a quelle che si affacciarono negli anni Settanta, come la cilena, quando un ‘nuovo rinnovamento’ (quello del cinema postmoderno) prese avvio, per affermarsi negli anni Ottanta e oltre, determinato dalla grande mutazione mediologica e dagli scambi intermediologici prodotti dalle nuove tecnologie e dai nuovi canali di diffusione degli strumenti audiovisivi. Data la distanza di tali dinamiche, risulta naturale che le più tardive, quelle degli anni Sessanta, a partire dalla Nouvelle vague francese, abbiano avuto nei confronti delle più precoci ‒ come appunto il N. italiano ‒ un ambiguo rapporto di mimesi e di superamento, di dipendenza e di contrasto, di ammirazione e di avversione.

Premessa al N., inteso soprattutto come variante del realismo ‒ in primo luogo dalla critica neorealista, che si trovò nella difficile situazione di dover fare storiografia su un fenomeno coevo ‒, fu a lungo considerato quel percorso che, partendo dal realismo primitivo del suburbio portuale di Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio e dei ‘bassi’ di Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena e Francesca Bertini, si immerse come un fiume carsico nel tunnel degli anni Venti, riaffiorò con Sole (1929) di Alessandro Blasetti, riemerse ostensibilmente in 1860 (1933) e magari anche in taluni tratti di Vecchia guardia (1935), entrambi ancora di Blasetti, ebbe specifiche premesse nei volti degli attori non professionisti di La nave bianca (1941) di Roberto Rossellini (nonché in quelli degli altri due titoli della rosselliniana ‘trilogia fascista’, Un pilota ritorna, 1942, e L’uomo dalla croce, 1943) e negli ambienti popolari di Fari nella nebbia (1942) di Gianni Franciolini. Mentre i più audaci fra gli storici del fenomeno citarono anche l’eco popolare di taluni prodotti di ‘genere’ come Avanti c’è posto… (1942) e Campo de’ Fiori (1943) di Mario Bonnard e perfino L’ultima carrozzella (1943) di Mario Mattoli, nemico per eccellenza dei preneorealisti della rivista “Cinema”. Il tutto, per comune consenso, ebbe l’ultimo episodio, prima dell’event rappresentato da Roma città aperta (1945) di Rossellini, nella triade Quattro passi fra le nuvole (1942) di Blasetti, Ossessione (1943) di Luchino Visconti e I bambini ci guardano (1944) di Vittorio De Sica, registi che, ciascuno con il proprio stile ‒ e tutti in qualche modo già preneorealisti ‒, azzerarono l’immaginario del cinema italiano sotto il fascismo.

Questo percorso preneorealista, pur fondandosi sul giusto presupposto che l”ansia di realtà’ (ora per occultarla e negarla, ora per sussumerla e denunciarla fenomenologicamente) sia stata la caratteristica costante del cinema italiano, da Filoteo Alberini a Silvio Soldini, è solo parzialmente fondato. Almeno nel senso che i suoi richiami (le diverse tappe del percorso, i film che lo caratterizzarono) possono anche essere corretti, ma sono decisamente insufficienti a spiegare la modernità del N., nonché le sue caratteristiche di prima fra le vagues mondiali che puntarono al superamento del cinema ‘classico’. E soprattutto nel senso che la visione del fenomeno come punto di arrivo di una ricerca pluriennale finirebbe per circoscriverlo alla maxicategoria del ‘realismo’, all’interno della quale invece solo in parte esso si può collocare, mentre risultano fuori molte componenti essenziali e specifiche, quali la ricca e composita elaborazione zavattiniana, la problematica mediologica che il N. ha affrontato e la generale mise en question estetico-sociale che esso, esplicitamente e implicitamente, ha determinato avendo, non a caso, riscontro in una letteratura (nel senso di narrativa) e in una pittura neorealiste che, pur con un impatto minore rispetto a quello del N. cinematografico, gli furono tuttavia coeve.In questo senso, per completare il percorso preneorealistico, è importante riflettere su alcuni scritti apparsi durante gli anni Trenta e sino agli albori del decennio successivo su pubblicazioni specialistiche e non (“Architrave”, “Quadrivio”, “L’Italia letteraria”, “Novecento”, “Omnibus” e “Roma fascista”), espressione, sovente, di personalità che non necessariamente si ritrovavano nella vague neorealista; ma anche su alcune istanze emerse nei secondi anni Trenta durante gli incontri presso i Cineguf, talora riportate sui giornali dei GUF, e sugli articoli pubblicati dalla rivista “Cinema“, anni prima che della testata s’impadronisse, coperto dal nome e dalla firma direttoriale di Vittorio Mussolini, il gruppo comunista combattivo e iconoclasta degli anni 1940-1943. Nell’articolo Sorprendere la realtà apparso su “Cinema” (10 ott. 1936, 7, pp. 257-60), Leo Longanesi, anticipando Cesare Zavattini, propugna un ‘cinema del pedinamento’, che sappia “cogliere in fallo situazioni che, riportate sullo schermo, rivelano gli infiniti segreti della nostra società”, e che auspichi “un documentario sulla vita degli anonimi”, con scene reali riprese da un operatore che giri per le strade con la cinepresa a cogliere verità, “verità che nessun attore potrebbe recitare”, fatte costume dall’abitudine e dalla pratica; mentre nell’articolo L’obiettivo nomade (in “Cinema”, 25 sett. 1939, 78, pp. 195-96) Domenico Purificato si augura un modello di “cinematografia che vorremmo chiamare nomade” ‒ quale “antitesi all’altra [che] chiameremo sedentaria […] anemica cinematografia che non varca mai la soglia del teatro di posa”, perpetrando “falsi in atto pubblico” ‒ ovvero un cinema che “va in cerca di scenari che solo la natura può apprestare nel debito modo”, muovendosi “alla ricerca di naturali elementi che diano maturità all’atmosfera, verosimiglianza agli elementi, carattere alle vicende”. In altre parole, fin dagli anni Trenta vi fu un’istanza, del tutto preideologica e abbondantemente prepolitica, che portò al rifiuto del cinema delle ‘città di cartapesta’, del manierismo attoriale e dell’anonimia paesaggistica, aspirando a “un vero ancora da fare, un vero che vedremo, un vero che verrà” ed esorcizzando il “falso che vediamo, e che morirà” (L. Longanesi, Il gioiello convesso ‒ Progetto per un film) in “Cinema”, 10 sett. 1936, 5, p. 171).

Tale complessa e composita istanza venne successivamente irrobustita, nel periodo 1941-1943, dall’esplicito auspicio di un ‘paesaggio italiano’ che accomunò note critiche di Giuseppe De Santis (che per questo apprezzò Piccolo mondo antico, 1941, di Mario Soldati), i progetti di Michelangelo Antonioni (Per un film sul fiume Po, in “Cinema”, 25 apr. 1939, 68, pp. 255-57, che prelude alle riprese di Gente del Po, 1943) e le lodi al cinema blasettiano (l”ispirazione più autentica’ di 1860, la ‘Maremma’ di Sole, l”agreste semplicità’ di Terra madre, 1931, l”impeto popolaresco’ di Palio, 1932). Mentre il diverso, ma concomitante, apprezzamento per il piglio documentaristico di Uomini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis e per la scrittura filmica (ma ancor prima per ‘il senso di eticità’) di La peccatrice (1940) di Amleto Palermi, fu letto, per es. da U. Casiraghi e G. Viazzi, come il sintomo di un verismo italiano da contrapporre, al realismo tedesco e francese e al naturismo nordico. A rafforzare le basi di una nuova cinematografia vi furono, da un lato, i ponderati richiami di Mario Alicata e Giuseppe De Santis, sempre su “Cinema” (10 ott. 1941, 127, pp. 216-17, e 25 nov. 1941, 130), a Giovanni Verga e a “un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera” testimoniata da una cinepresa che segue “nelle strade, nei campi, nelle fabbriche del nostro paese […] il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa”, tendenza ‒ come avrebbe chiarito anni dopo Pietro Ingrao, che del gruppo fece parte ‒ che già corrispondeva all’adozione di un cifrato linguaggio rivoluzionario. Dall’altro vi fu la trasformazione del ‘gruppo’ in una fucina che, attorno al nome di Visconti e sventolando la bandiera del verghismo, tentò di realizzare dapprima I Malavoglia (di cui Visconti fece scrivere una parafrasi a Massimo Mida), poi Jeli il pastore (di cui il regista acquistò i diritti), quindi L’amante di Gramigna (che, con un ‘basta con banditi!’ burocraticamente scritto sulla copertina del copione, la censura preventiva fascista respinse), finendo poi ‒ dopo avere accarezzato progetti anche su Il grande Meaulnes di A. Fournier, Billy Budd di H. Melville, Disordine e dolore precoce di Th. Mann e Adrienne Mesurat di J. Green ‒ per ripiegare su una rilettura di The postman always rings twice di J. Cain, intitolata Ossessione.

La rivista “Cinema” e il gruppo di giovani in fermento che la animarono costituirono indubbiamente il maggior centro propulsivo del futuro Neorealismo. Da quel gruppo e dai suoi sodali uscirono molti registi (Visconti e De Santis, ma anche Antonio Pietrangeli, Carlo Lizzani, Gianni Puccini, Antonioni, Basilio Franchina, Guido Guerrasio, Mida ecc.) e una buona parte della generazione di critici che operarono poi nell’immediato dopoguerra. Ma questi non furono gli unici. Nel 1941 Alberto Lattuada, per es., a Milano realizzò la sua vera ‘opera prima’: che non fu il lungometraggio Giacomo l’idealista (1943), tratto da E. De Marchi, che lo avrebbe reso di lì a poco regista, ma un bellissimo albo fotografico dal titolo Occhio quadrato, che il censore fascista lasciò passare, nonostante la “povera gente e [i] muri scrostati”, solo dopo avere saputo della bassa tiratura. Il primo Lattuada, fotografo e cineasta, non fu mai amato dai recensori di “Cinema”, che anzi gli rimproverarono, proprio per Occhio quadrato, ‘l’ottocentesco sguardo’ e ‘l’origine letteraria’. Ma, a parte gli eccessi stroncatori che caratterizzarono De Santis e tutto il gruppo, soprattutto nei confronti degli ‘estranei’ al gruppo stesso, quella del milanese Occhio quadrato fu invece un’esperienza di grande interesse, sia per il tipo di ‘sguardo’ che portò Lattuada a indirizzare il proprio obiettivo su realtà, umane e sociali, periferiche e degradate, elaborando, nella prefazione, una sorta di etica dello sguardo, sia per l’insistenza a “tener sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose”, per l’invito ad “abbandonare […] il lavoro della spietata analisi e delle troppo pedantesche ricerche di stile” e per l’insistita “presenza dell’uomo”. Posizioni che sembrano preludere a quelle del ‘cinema antropomorfico’ viscontiano (“Cinema”, 25 sett.-25 ott. 1943, 173-174).

Ancora più significativa fu, nell’alveo preneorealista e neorealista, la particolarissima componente dello ‘zavattinismo’, ovvero delle posizioni assunte da Zavattini, che ‒ tra la fine degli anni Trenta e la fine degli anni Settanta ‒ propose, discusse, propagandò e difese la deontologia di un cinema ‘utile all’uomo’ e per questo sottratto alle leggi del mercato, ai condizionamenti dell’industria, alla rigidità dei ruoli, alla sclerosi delle formule. A parte il soggetto di Totò il buono (mutatis mutandis, quello del futuro Miracolo a Milano, 1951, uno dei ca-polavori della coppia De Sica-Zavattini) che uscì sulla rivista “Cinema” (25 sett. 1940, 102), le prime teorizzazioni zavattiniane risalgono alla metà degli anni Trenta, quando lo sceneggiatore ‒ pur non affermando ancora, come avrebbe fatto nel dopoguerra, che “le figure dello sceneggiatore e del soggettista sarebbero dovute scomparire” ‒ a proposito della comicità, a suo parere “una comicità sottile, che dà nell’astratto e nel lirico”, deplorò “l’ossessione della trama […] l’ancora di salvezza dei film brutti”, auspicando un “film comico moderno […] privo di trama narrativa, dialogata, cronologica, consequenziale” (R. Masto, Colloquio con Zavattini. I dolori di un giovane soggettista, in “Cinema”, 25 ag. 1936, 4, pp. 152-53); pensando poi a un film, Il mio paese, privo di trama e spettacolo, con la sola idea di “cinquanta o cento ragazzi […] padroni di un paese di peccatori e di artritici”; oppure a “un film sulle donne di servizio”, realizzato in modo da “approfittare del loro angolo visuale per vedere dentro alla nostra borghesia” (C. Zavattini, Quadernetto di note, in “Cinema”, 25 marzo 1940, 90, p. 172). Già prossimo alla poetica del pedinamento, dello spettacolo che coincida con la realtà, del ‘film lampo’ che riproduca “un fatto di cronaca nei luoghi dove è realmente avvenuto” e interpreti “coloro stessi che ne sono stati i principali protagonisti”, come scrisse nel 1952, Zavattini auspicò, fin dal 1940, di “poter tornare all’uomo come all’essere tutto spettacolo […] piazzando la macchina da presa in una strada, in una camera” (I sogni migliori, in “Cinema”, 25 aprile 1940, 92, pp. 252-53).

Per fortuna a dare vita al N. non furono soltanto teorie ed enunciazioni poetiche. Proprio Zavattini, che teorizzò ‒ fino agli anni Settanta ‒ la morte del soggetto e la fine del cinema sceneggiato, partecipò con finissimo lavoro di sceneggiature alla stesura di due film come Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, e I bambini ci guardano di De Sica; il primo, aprendosi e chiudendosi sul grigiore da incubo di un’ordinaria vita familiare e racchiudendo come un sogno sospeso la ‘favola’ di un virtuale idillio agreste, e il secondo, introducendo nella secca radiografia di un gruppo familiare piccolo-borghese la duplice turbativa dell’adulterio (della moglie) e del suicidio (del marito tradito) e la conseguente precoce educazione al dolore e alla solitudine del figlioletto della coppia (Pricò), costituirono una radicale svolta rispetto all’immaginario cinematografico del cinema sotto il fascismo, dove la famiglia era vista come la cellula base dell’unità e dell’ordine esistenziali e sociali. Mentre il viscontiano Ossessione portò ancora più in là il discorso, delineando la famiglia come il luogo della su-balternità e della frustrazione femminile, nonché della irrealizzabilità del desiderio e dell’impulso vitale, delineando, come sottolineato da Pietrangeli, tutta un’umanità spoglia, scarna, avida, sensuale e accanita fatta così dalla quotidiana lotta per l’esistenza e per la soddisfazione di istinti irrefrenabili, in un torbido succedersi di eventi dove coscienze elementari palpitano di una loro dolorosa verità.

Quattro passi tra le nuvole, I bambini ci guardano e Ossessione negano più di quanto affermano e preludono al N., nella misura in cui appaiono come un ‘cartello dei no’ al cinema italiano che li aveva preceduti e li attorniava. Roma città aperta rappresentò il ’25 aprile’ di questo processo di liberazione e di rinnovamento che, al di là del cinema, fece leva sull’unità antifascista (che vide molti intellettuali, fra cui moltissimi del gruppo di “Cinema”, finire nelle prigioni della Gestapo o nei GAP e sulle montagne partigiane), sulle speranze di una palingenesi sociopolitica (per cui il cinema italiano del dopoguerra ha forti connotazioni anticonservatrici, quando non apertamente di sinistra), sulla necessità, sottolineata da Elio Vittorini nell’editoriale del primo numero di “Il Politecnico”, di un’arte e una cultura che non si fossero limitate a consolare delle sofferenze, ma avessero contribuito a eliminarle (ovvero di ‘un’etica dell’estetica’‒ perché questo fu soprattutto il N. ‒ per cui il fine dell’arte non è la “maraviglia” ma lo zavattiniano “conoscere per provvedere” o il rosselliniano “realismo” che è “la forma artistica della verità […] il film [realistico inteso come quello] che pone e si pone dei problemi” o il desichiano “rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane”).

La definizione Neorealismo ha origini controverse. Il termine, per la prima volta adottato da Arnaldo Bocelli, fu applicato all’antinovecentismo e all’antirondismo di Gli indifferenti (1929) di A. Moravia e di Gente di Aspromonte (1931) di C. Alvaro (nonché successivamente ai primi romanzi di F. Jovine, C. Bernari e R. Bilenchi); fu quasi contemporaneamente ripreso da Umberto Barbaro, che lo usò anche in una sua Prefazione a Bulgakov (1931) e lo riusò, anni dopo, a proposito di Quai des brumes (1938; Il porto delle nebbie) di Marcel Carné, riferendolo al cinema francese degli anni Trenta. Probabilmente pensando al cinema francese lo adottò nel 1943 Mario Serandrei, scrivendo di Ossessione a Visconti; mentre, parlando della scuola documentaristica inglese e in particolare di John Grierson, lo aveva utilizzato, sin dal 1937, il brasiliano Alberto Cavalcanti. Riutilizzato dal 1947-48 dai francesi (André Bazin, Georges Sadoul, Felix Morlion), esso divenne per antonomasia l’etichetta non solo della dinamica postbellica del cinema italiano, ma anche della evidenza ‘realistica’ dell’architettura, della pittura, della poesia e della narrativa coeve.

Quanto alla sostanza dell’estetica neorealista, essa fu caratterizzata da una feconda pluralità di poetiche individuali, legate dal comune sentimento antifascista e rese solidali dall’esplicito impegno morale a fare un cinema utile all’uomo, dall’esigenza di conoscere, e descrivere, il reale per modificarlo. Ma esistono anche, e furono comunque da molti adottati, alcuni topoi più specificamente cinematografici: il rifiuto del teatro di posa e la scelta prevalente degli ambienti naturali, esterni e interni; l’opzione della quotidianità come il terreno dove individuare personaggi ed eventi; l’accantonamento della lingua ‘radiofonica’ e la scelta di un parlato naturale, a volte dialettale, mai da doppiaggio; la preferenza per i volti anonimi, spesso per attori non professionali (con l’eccezione dovuta a De Santis), sempre per una recitazione non teatrale; il relativo disinteresse per un cinema ‘letterario’ (anche se fonti di La terra trema e di Ladri di biciclette, entrambi del 1948, sono due romanzi, rispettivamente di G. Verga e di L. Bartolini) e sceneggiato in maniera ferrea (benché le sceneggiature zavattiniane fossero dettagliatissime); la particolare attenzione alle tematiche contemporanee, alle problematiche dell’hic et nunc, per cui anche una vicenda apparentemente ambientata in un allegorico tempo sospeso, come quella viscontiana (e verghiana) dei Valastro, si rivela in realtà collocata proprio nel 1947-48 con i muri di Aci Trezza ancora pieni di stinte scritte fasciste ma anche di segni e simboli delle campagne elettorali che si erano svolte nel 1947; una netta preferenza per i personaggi degli umiliati e offesi, degli sfruttati ed emarginati, dei poveri e vilipesi, anche quando non si è al cospetto di una visione classista del popolo.

L’opera riconosciuta come iniziatrice della corrente neorealista resta Roma città aperta, con Aldo Fabrizi e Anna Magnani, dove convivono il nuovo sguardo sulla realtà e i residui sceneggiatoriali del passato, saldati dall’afflato epico di una sentita evocazione della Resistenza antitedesca che, specie nella seconda parte del film, scabra e convulsa al tempo stesso, appare totalmente depurata di elementi fittizi, raggiungendo vertici di intenso realismo drammaturgico. Al capolavoro di Rossellini, sempre a sfondo politico, si affiancarono nello stesso anno film di montaggio e di attualità sulla Resistenza e la caduta del fascismo, come Giorni di gloria (1945) di Serandrei, cui collaborarono De Santis, Marcello Pagliero e Visconti e, in una sorta di collateralismo minore, caratterizzato da alcune componenti neorealistiche ‒ ora nello sguardo, ora nell’ambientazione popolare, ora nell’autenticità degli sfondi, ora nelle cadenze vernacolari, ora nell’ansia di liberazione ‒, Abbasso la miseria! (1945) di Gennaro Righelli, avventure di un trafficante nella borsa nera dal cuore tenero e dalla moglie volitiva (Anna Magnani). Più ricco il bilancio neorealista del 1946 con film come O sole mio di Giacomo Gentilomo, che rievoca le quattro giornate della ribellione antitedesca di Napoli; Paisà, altro capolavoro neorealista di Rossellini, che racchiude sei episodi sul passaggio al fronte e la stagione finale della guerra, dal più riflessivo, quello emiliano (tre cappellani militari, un ebreo, un protestante e un cattolico in un convento francescano) al più intensamente drammatico, quello padano (partigiani e soldati americani paracadutati lottano insieme contro i tedeschi); Sciuscià, storia di due bambini abbandonati, della loro sopravvivenza come lustrascarpe, della loro incantata amicizia per un cavallo, della loro precoce cognizione del dolore e della morte in un carcere minorile, che attesta la straordinaria sensibilità dell’autore, De Sica, e la rara consonanza del suo sceneggiatore, Zavattini. Mentre emersero altri autori come Aldo Vergano di Il sole sorge ancora, una rievocazione della Resistenza densa di memorie blasettiane, Lattuada di Il bandito, corposo racconto drammatico incentrato sul reducismo. Per non dire, in ambito del sopra citato collateralismo neorealistico, di film come Un giorno nella vita di Blasetti, che vede protagonisti soldati partigiani e tedeschi in un convento di clausura, le cui suore finiranno tutte fucilate e che segnò la volonterosa quanto esterna adesione del regista al movimento, e di Roma città libera (1946) di Pagliero, surreale incontro fra un ladro buono e un giovane inquieto sullo sfondo di una Roma neorealista. Ancora più ricca la cinematografia appartenente a questa corrente degli anni seguenti, durante i quali uscirono film come Vivere in pace (1947) di Luigi Zampa, apprezzabile bozzetto paesano, ora comico-grottesco ora melodrammatico, su due americani e un tedesco nascosti nella campagna romana, che trionfò sui mercati stranieri, specie negli Stati Uniti, e fu considerato un’emblematica espressione del Neorealismo. E si realizzarono capolavori come Germania anno zero (1948), opera nella quale attraverso il personaggio di Edmund, che dopo avere ucciso il padre ammalato, e dunque rimasto inutile bocca da sfamare, si uccide come per gioco precipitando dall’alto delle rovine di un palazzo bombardato, Rossellini radiografa, fra le macerie reali della capitale del Terzo Reich, le macerie morali di un mondo in cui gli uomini hanno abbandonato un Dio che li ha abbandonati. Vi furono inoltre esordi di rilievo come Caccia tragica (1947), primo episodio della particolarissima cinematografia neorealista di De Santis che connota di epica popolaresca, di tonalità forti e dense, di miti e riti collettivistici, l’uso assai elaborato di una cinepresa ‘hollywoodiana’ che vuole narrare il popolo come visto dal popolo. Mentre è un reduce il protagonista del secondo film di Pietro Germi Gioventù perduta (1948), ambientato nella pineta di Tombolo, fra G-Men, prostitute e contrabbandieri; e Senza pietà (realizzato nel 1947, ma uscito nel 1948) di Lattuada continua a oscillare fra “raffinato calligrafismo” ed “esasperato realismo” (Castello 1956). Oscillarono invece verso la commedia il populista L’onorevole Angelina (1947) e il caustico Anni difficili (1948), entrambi di Zampa, nonché Sotto il sole di Roma (1948) di Renato Castellani, storia di una redenzione su uno sfondo tragico temperato dall’ironia e dal sorriso. L’anno dell’acme neorealista fu proprio il 1948, se non altro perché fu l’anno di due capolavori assoluti come La terra trema, in cui Visconti rilesse con sensibilità contemporanea, sublimò in apologo esemplare, stilizzò attraverso forme neorealiste (dialetto, sfondi naturali, attori non professionisti, riprese nei luoghi autentici, sceneggiatura improvvisata sul campo, modi di produzione documentaristici ecc.) il mondo di I Malavoglia e del ‘negozio di lupini’ di Verga, nel film divenuti i Valastro, che cercano di liberarsi dai ‘padroni’ e imparano, a proprie spese, la differenza fra (la possibile) rivolta individuale contro l’ingiustizia e (l’impossibile) rivoluzione sociale; e Ladri di biciclette, dove un De Sica straordinario, basandosi su una sceneggiatura zavattiniana dai meccanismi perfetti, segue con la sua cinepresa la disperata e affannosa ricerca di una bicicletta rubata a un disoccupato: consapevole del fatto che solo ritrovandola potrà mantenere il lavoro appena trovato, egli con il figlioletto percorre la città, fra catapecchie periferiche e mense di beneficenza, case di tolleranza e quartieri suburbani, muri scrostati e pizzerie popolari, in una sorta di tacita guerra tra poveri che, nel grandioso finale, si risolve con il disperato tentativo dell’uomo di rubarne una a sua volta, fatto che suscita dapprima l’ira della folla per poi indurre una sincera solidarietà commossa non solo tra padre e figlio ma anche nella stessa gente che finisce per perdonarlo. Ma a parte queste due opere magistrali, tra i massimi capolavori del cinema di tutti tempi, il 1948 fu anche l’anno in cui esordì ottimamente Luigi Comencini con Proibito rubare, ambientato nella Napoli dei ‘bassi’ e degli scugnizzi, con un pizzico di ottimismo ma anche con un severo sguardo realistico. L’anno successivo uscì invece Riso amaro di De Santis ‒ sesso e ballo, maternità e sfruttamento, canto e protesta, il ‘buono’ destinato ad avere l’amore e il ‘cattivo’ destinato alla mala morte, il tutto tra le mondine della Padania con riprese di virtuosistica bellezza paesaggistica e un esemplare montaggio ritmico ‒ che si segnalò come uno dei maggiori successi stagionali e comunque, eccezione alla regola, come N. ad alto incasso. Quanto agli altri titoli si registrarono ancora alcuni ‘collateralismi’, come in Molti sogni per le strade (1948) di Mario Camerini (un disoccupato ruba un’automobile e rischia la prigione, ma alla fine tutto si aggiusta) o in quella sorta di ben costruito ‘western’ sulla mafia che è In nome della legge (1949) di Germi, in realtà più memore del grande regista statunitense John Ford che di Rossellini.

Emarginato dallo scarso successo dei suoi pur maggiori film, colpito dalla fine dell’unità antifascista (1947-48) che era stata il suo retroterra, deplorato dagli ambienti centristi e conservatori dominanti, boicottato da banche e da distributori, interpretato dal mondo cattolico più aperto in chiave meramente solidaristica verso umiliati e offesi, privo di un proprio autonomo progetto di politica cinematografica, lontano dal disegno di ricostruzione di un’industria cinematografica nazionale che stette dietro la legge del 1949, reso sospetto dalle non poche militanze a sinistra dei suoi esponenti e dalla stessa tutela parlamentare e politica del Partito comunista e del Partito socialista, il N. ‒ dopo le due prime stagioni ‘libere’ (1945-46) ‒ visse come in stato d’assedio sulle ‘sortite’ dei singoli, le eccezionali imprese individuali (per es. le vicende produttive di La terra trema di Visconti), le aggregazioni produttive di emergenza (l’ANPI, l’Associazione nazionale Partigiani d’Italia, che produsse Caccia tragica di De Santis o la Cooperativa spettatori produttori cinematografici che produrrà Achtung! Banditi!, 1951, di Lizzani) e nel 1948-49 finì già la sua forza propulsiva. Anche se, almeno, sino all’episodio del funeralino di L’oro di Napoli (1954) di De Sica, si annoverano ancora alcuni titoli di rilievo: nel 1949, il N. cattolico di Cielo sulla palude di Augusto Genina e il N. comico di Totò cerca casa di Mario Monicelli e Steno; nel 1950 il N. bucolico dell’ultimo episodio della ‘trilogia della terra’ di De Santis, Non c’è pace tra gli ulivi, il N. evasivo di È primavera… di Castellani, il N. sentimentale di Una domenica d’agosto di Luciano Emmer, il N. teatrale di Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, mentre con Stromboli Rossellini (che realizzò sempre nel 1950 Francesco, giullare di Dio e successivamente l’intenso Europa ’51, 1952) volle sempre più allontanarsi in una coerente scelta di depurato spiritualismo; e ancora il N. itinerante di Il cammino della speranza, tra i migliori di Germi nel periodo, il N. favoloso di Miracolo a Milano di De Sica. Sempre nel 1950 esordì con Cronaca di un amore ‒ dopo alcuni bellissimi cortometraggi di esemplare N. documentaristico ‒ il ‘N. dell’anima’ di M. Antonioni, e lo sceneggiatore neorealista Federico Fellini firmò la sua prima regia con Luci del varietà, codiretto con Lattuada. Nel 1951 vanno ricordati il N. resistenziale di Achtung! Banditi! dell’esordiente Lizzani, il N. autocritico di Bellissima di Visconti, mentre Monicelli e Steno, con Guardie e ladri, aggiunsero un ulteriore capitolo al N. comico. L’anno successivo fu caratterizzato dal N. ‘rosa’ di Due soldi di speranza di Castellani (che aprì la strada, ideologicamente, al Comencini di Pane, amore e fantasia, 1953, e di Pane, amore e gelosia, 1954, dove lo sguardo neorealista esiste, ma è come rovesciato), l’ottimo Processo alla città di Zampa, il N. esemplare di Umberto D. della coppia De Sica-Zavattini, che suscitò la reazione sdegnata dell’allora sottosegretario democristiano G. Andreotti, mentre De Santis ricostruì neorealisticamente in Roma, ore 11 una vicenda di cronaca. Pochissimi titoli nel successivo biennio 1953-54: del 1953 è il N. giudiziario del poco riuscito Ai margini della metropoli di Lizzani, il N. divistico di Siamo donne di Franciolini, Alfredo Guarini, Rossellini, Visconti e Zampa, su soggetto di Zavattini, mentre un altro episodio di N. esemplare si ebbe con L’amore in città, grande iniziativa zavattiniana con i registi Antonioni, Fellini, Lizzani, Lattuada, Francesco Maselli e Dino Risi, che possedette tutto il rigore di un indiretto intervento teorico sulla poetica neorealista. Nel 1954 uscirono invece Cronache di poveri amanti di Lizzani, che cercò di dare ‘visibilità’ cinematograficamente neorealista alla pagine del romanzo di V. Pratolini, il già citato L’oro di Napoli, Senso di Visconti, Viaggio in Italia di Rossellini (che successivamente realizzò La paura, 1955), La strada di Fellini, Giulietta e Romeo di Castellani, La romana di Zampa, che attestano tutti irrevocabilmente la radicale diaspora neorealistica.Come si è visto, questi ultimi ‘sprazzi’ di N. resero possibile, ciascuno e tutti, un’ulteriore aggettivazione, una specificazione aggiuntiva alla generica etichetta di N., proprio perché la forza propulsiva del movimento, dopo le primissime stagioni neorealiste, si andò espandendo su molto, se non su tutto il cinema italiano, mutandone modalità di immaginario, opzioni tematiche, prassi d’ambientazione, tipologia della lingua parlata, scelte dei personaggi e degli eventi, ragioni drammatiche, comportamento attoriale e così via. Il N., è stato detto, ‘vince perché perde e perde perché vince’. Ovvero, come accadrà a tutte le vagues successive, l’ondata neorealista non riuscì ad affermarsi nel proprio radicalismo (quello, per intenderci, di Paisà, La terra trema, Umberto D. o di L’amore in città), che rimase eccezionale e isolato anche negli episodi meno frontalmente radicali, perché, da subito essa si scontrò con il cinema dominante, americano e italiano, con i gusti ‘evasivi’ del pubblico, con le leggi che dominavano il mercato e perse, dunque, a opera della rinascente industria cinematografica italiana che, d’altronde, dal 1945 al 1956 vide aumentare annualmente l’offerta (i film prodotti) e la domanda (i biglietti del pubblico in sala). Ma riuscì, involontariamente, a dare un contributo al risorgere di un’industria e di un mercato cinematografici italiani e, volutamente, a far tramontare irreversibilmente l’immaginario del precedente cinema nazionale, connotando tutto il cinema coevo e successivo (anche il film comico seriale, anche il cinema larmoyant, anche i prodotti di genere, anche i filoni ‘di profondità’) di topoi caratterizzati dallo sguardo neorealista, magari di segno rovesciato, come nel cosiddetto N. rosa, ma inimmaginabili nel prebellico cinema incentrato sulle vicende di timide e intraprendenti educande principi consorti e milionari affetti dal tedium vitae; e vinse, dunque, riuscendo a codeterminare il nuovo cinema nazionale che pure lo emarginò e lo schiacciò, ponendo fine in poche stagioni all”etica dell’estetica’ neorealista.Naturalmente tutto questo è apparso chiaro solo molti anni dopo, con un’analisi a posteriori. I neorealisti, quando già la stagione d’oro si era conclusa, continuarono a definirsi tali e a volere il proseguimento del movimento, pur se alcuni lo dichiararono superato, in nome del ‘realismo’, da Senso nel cinema e da Metello nella letteratura. Imperterrita, anzi sempre più accalorata e piena di presaga sensibilità verso il moderno, continuò la teorizzazione zavattiniana, carica di nostalgie neorealiste, anche quando Zavattini (esclusi un paio di tardivi esperimenti collettivi nei film-inchiesta come Le italiane e l’amore, 1961, e I misteri di Roma, 1963) era divenuto ormai uno sceneggiatore di film industriali. E ininterrotta fu la discussione sul cinema italiano, sia quando il N. aveva ancora una qualche vitalità, sia quando era ormai soltanto un mitico fantasma. A Roma, presso l’Associazione culturale cinematografica italiana e poi nel Circolo romano del cinema; quindi a Perugia, al primo convegno sul N. (24-27 sett. 1949), e a Parma, al secondo convegno (3-5 dic. 1953); infine nei dibattiti che si susseguirono, anche oltre, sulla stampa d’informazione (Cinema senza formule, in “Avanti!”, luglio-agosto 1955, 13 interventi; Cinema, pubblico e critica, in “l’Unità”, novembre 1955-aprile 1956, 40 interventi) e specialistica (Sciolti dal giuramento, in “Cinema nuovo”, giugno 1956-aprile 1958, 19 interventi), si proseguì, senza soluzione di continuità, a guardare il presente del cinema italiano alla luce di quell’utopia gloriosa e poco frequentata che era stato il N., di cui frattanto si espandevano in tutto il mondo (con particolare rilievo nel cosiddetto Terzo mondo), soprattutto la lezione etico-estetica ma anche il nuovo ‘sguardo’ sulla realtà e l’inedito immaginario che ne conseguiva. Se i primi dibattiti romani avvenivano ancora a caldo, il che giustificava gli entusiasmi, l’incontro di Perugia aveva avuto luogo in un clima di già avviato riflusso, il che spiega gli appelli unitari ma non l’assenza di analisi; mentre l’incontro di Parma era avvenuto a fronte ormai disgregato, il che ha fatto apparire astratte talune tetragone resistenze a prenderne atto (Continuare il discorso, suona un editoriale di “Cinema nuovo”, 15 dic. 1952, 1, p. 7), anche se alcuni, come Luigi Chiarini, avevano preso atto della crisi e della fine del clima di solidarietà nazionale che l’aveva codeter-minata, nonché del contributo al superamento del N. che veniva dai nuovi film di alcuni grandi maestri (Rossellini, Visconti) e di alcuni più giovani (Antonioni, il cui cinema, da Cronaca di un amore a Il grido, 1957, non fu che tesaurizzazione e superamento dello sguardo neorealista, ormai trasformato in ricetta commerciale e in base del cinema di genere). Divenne quindi necessario aspettare il ‘nuovo’ cinema degli anni Sessanta per “seppellire il padre neorealistico” (Paolo e Vittorio Taviani) e gli anni Settanta (e il grande convegno sul N. promosso dalla Mostra di Pesaro nel 1974) per ripensare criticamente il fenomeno, rivedendolo in tutta la sua grandezza etico-estetica e nella sublime riuscita artistica di alcuni suoi episodi, prendendo al tempo stesso atto della sua inadeguatezza a capire, affabulare e descrivere le contraddizioni, non meno lancinanti e complesse, ma diverse, della modernità.Per approfondimenti sui singoli autori si vedano anche le relative voci biografiche. bibliografia

G.C. Castello, Il cinema neorealistico italiano, Torino 1956.

A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, IV. Une esthétique de la réalité: le néo-réalisme, Paris 1962 (trad. it. a cura di A. Aprà, Milano 1973, 1986², pp. 273-332).

Il lungo viaggio del cinema italiano, a cura di O. Caldiron, Padova 1965.

R. Armes, Patterns of realism, London 1971.

Introduzione al neorealismo: i narratori, a cura di G.C. Ferretti, Roma 1974.

Politica e cultura nel dopoguerra. Con una cronologia 1929-1964 e una antologia, Quaderno informativo della 10a Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro 1974, 56.

Il neorealismo e la critica. Materiali per una bibliografia, Quaderno informativo della 10a Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro 1974, 57.

Il cinema italiano del dopoguerra. Leggi produzione distribuzione esercizio, Quaderno informativo della 10a Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro 1974, 58.

Sul Neorealismo. Testi e documenti 1939-1955, Quaderno informativo della 10a Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro 1974, 59.

Il neorealismo cinematografico italiano, a cura di L. Miccichè, Venezia 1975.

U. Barbaro, Neorealismo e realismo, a cura di G.P. Brunetta, 2 voll., Roma 1976.

C. Muscetta, Realismo neorealismo controrealismo, Milano 1976.

A. Canziani, Gli anni del neorealismo, Firenze 1977.

M. Verdone, Il cinema neorealista: da Rossellini a Pasolini, Trapani 1977.

C. Zavattini, Neorealismo ecc., Milano 1979.

G. De Santis, Verso il neorealismo: un critico cinematografico degli anni Quaranta, a cura di C. Cosulich, Roma 1982.

M. Marcus, Italian film in the light of Neorealism, Princeton (NJ) 1986.

Neorealismo: cinema italiano 1945-1949, a cura di A. Farassino, Torino 1989.

L. Miccichè, Visconti e il neorealismo, Venezia 1990, 1998².

G. Moneti, Neorealismo fra tradizione e rivoluzione, Siena 1999.

http://www.treccani.it/enciclopedia/neorealismo_(Enciclopedia-del-Cinema)/

ciao Sciuscià un saluto da Antoine

Cesare Zavattini – Za | controappuntoblog.org

un saluto a tutti gli ex SCIUSCIA come me e che gli altri …

Sciuscià. V. De Sica. (Estratto del film By RD)

Penyemir Sepatu (1946) 01.mp4 –

Penyemir Sepatu (1946) 03 –

Il funeralino | controappuntoblog.org

Umberto D. (1952) full at mixtaka.com – Umberto D.” Vittorio de Sica

“’Bellissima” e Spartaco di L Visconti 1951.Soggetto di C.Zavattini .

I VINTI – The Vanquished – by Michelangelo Antonioni .

“’Bellissima” e Spartaco di L Visconti 1951.Soggetto di C.Zavattini ..

La terra trema : Luchino Visconti | controappuntoblog.org

Il 13 novembre ’74 moriva Vittorio De Sica : stazione Termini, ladri di .

FREE CINEMA

Enciclopedia del Cinema (2003)
di Emanuela Martini

Free cinema

Movimento cinematografico nato in Inghilterra intorno alla metà degli anni Cinquanta. Autori di punta e ideatori ne furono Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson, che proclamavano la necessità di uno svecchiamento della cinematografia nazionale e auspicavano la nascita di un cinema libero, poetico, attento alle nuove realtà del Paese. Il F. C. fu strettamente legato al contemporaneo movimento teatrale e letterario degli Angry Young Men, che ebbe nel drammaturgo John James Osborne il suo maggiore portavoce, e alle istanze politiche della New Left e del movimento antinucleare e pacifista. Do-po diversi programmi di cortometraggi, il F. C. passò al lungometraggio nel 1959 con Look back in anger (I giovani arrabbiati) di Richardson, tratto dall’omonima commedia di Osborne. Richardson fu seguito da Reisz, Anderson e da altri autori, e l’espressione Free Cinema indicò una sorta di nouvelle vague britannica, riconoscibile per omogeneità di testi (spesso tratti dalle opere degli Angry Young Men, o da essi scritti) e di volti, e per la precisa volontà di riflettere sullo schermo una nuova immagine, scontenta, scontrosa e anticonformista, dell’Inghilterra. Nonostante la sua influenza si fosse estesa progressivamente anche ad autori e generi estranei in origine al movimento, il F. C. terminò la sua parabola con la prima metà degli anni Sessanta.

Nel febbraio 1956, al National Film Theatre di Londra venne presentato un programma di cortometraggi realizzati da giovani autori, non solo inglesi: Together di Lorenza Mazzetti, una studentessa italiana della Slade School of Fine Art di Londra, che aveva chiesto aiuto ad Anderson per terminarne il montaggio; Momma don’t allow, descrizione di una serata in un jazz club frequentato da giovani proletari, diretto da Reisz e Richardson e prodotto dal British Film Institute; O dreamland, un documentario sul luna park di Margate realizzato da Anderson nel 1953 a proprie spese e mai proiettato in pubblico. Il programma era accompagnato da una dichiarazione illustrativa, quasi la definizione di una poetica, stilata da Anderson e Reisz: “Free Cinema è il titolo complessivo scelto per un programma speciale di nuovi film che saranno proiettati al National Film Theatre per quattro giorni. Nessuno di questi film è stato prodotto nell’ambito del cinema commerciale. Momma don’t allow e Together sono stati realizzati con il supporto dell’Experimental Production Fund del British Film Institute; O dreamland è del tutto autonomo. Gli autori dei film preferiscono chiamare il loro lavoro free piuttosto che experi-mental. Infatti esso non è autocontemplativo né esoterico. E la sua preoccupazione principale non è la tecnica. Questi film sono liberi nel senso che le loro asserzioni sono del tutto personali. Anche se i loro umori e i loro soggetti sono diversi, ognuno di essi è interessato a qualche aspetto della vita, com’è vissuta, oggi, in questo paese. Un jazz club nell’area settentrionale di Londra; la strada principale della zona portuale dell’East End; un parco di divertimenti in un luogo di villeggiatura della costa meridionale… Queste ambientazioni possono essere apparse prima nel cinema britannico. Ma qui c’è lo sforzo di vederle e sentirle in maniera nuova, con amore o con rabbia, ma mai freddamente, asetticamente, convenzionalmente. In realtà, gli autori di questi film li propongono come una sfida all’ortodossia” (trad. it. in Free Cinema e dintorni, 1991, p. XIV).

Come raccontò molti anni dopo Anderson, più che di un manifesto “si trattò soltanto di una comoda etichetta. Un’idea offerta ai giornalisti perché ci scrivessero sopra. Senza quel titolo declamatorio, credo onestamente che la stampa non ci avrebbe prestato alcuna attenzione è stata una sorta di confezione culturale ben riuscita” (in Walker 1974; trad. it. in Free Cinema e dintorni, 1991, p. XIV). Ma dietro la ‘confezione culturale’ c’era non solo lo spirito dei tempi che premeva in direzione di un complessivo rinnovamento culturale, ma anche il lavoro che un gruppo di giovani critici e cineasti stava portando avanti da anni.

Infatti, l’espressione F. C. era stata coniata nel 1951 sulla rivista “Sequence” da Alan Cooke, per designare tutti quei film caratterizzati “dall’uso personale ed espressivo del mezzo” (Cooke 1951; trad. it. in Free Cinema e dintorni, 1991, p. XIV). “Sequence” era stata fondata nel 1946 a Oxford da John Boud e Peter Ericsson, e fin dal secondo numero comparivano tra i redattori Anderson, Penelope Houston e Gavin Lambert (cui si aggiunse in seguito Reisz). Molto aggressiva nei confronti della fiacchezza e della letterarietà del cinema nazionale, rifuggiva sia dall’intellettualismo francese sia dall’accademismo britannico, e sosteneva la libertà espressiva e la creatività pura, la poesia di cineasti come Jean Vigo, Humphrey Jennings e John Ford. Trasferitasi a Londra nel 1948, chiuse nel 1952, ma i suoi redattori continuarono la loro battaglia sulle pagine di alcuni quotidiani e della rivista “Sight and sound”. Per una volta la teoria cinematografica aveva anticipato i fermenti che a metà degli anni Cinquanta avrebbero profondamente modificato la cultura e il costume britannici.Il 1956 fu un anno chiave. Due avvenimenti sconvolsero gli equilibri politici nazionali e internazionali: la crisi di Suez e quella ungherese. L’Egitto, che aveva dichiarato la nazionalizzazione del canale di Suez, fu attaccato da Inghilterra, Francia e Israele, che furono in seguito costretti a ritirare le truppe per le forti pressioni dell’ONU; tale ritiro segnò la fine del mito del ‘leone britannico’, e costrinse la Gran Bretagna a prendere atto del proprio ruolo politico e culturale subalterno rispetto agli Stati Uniti. Dal dissenso provocato all’interno della sinistra dall’invasione sovietica dell’Ungheria nacque la New Left, che si contrapponeva sia al marxismo dogmatico del partito comunista sia ai compromessi del laburismo e che, attraverso le riviste “New reasoner” e “Universities and Left review” (fuse nel 1959 nella “New Left review”), elaborò nuove analisi di carattere politico e culturale. Nello stesso periodo molti conflitti cominciarono a manifestarsi apertamente nella società inglese: già nel 1955 si erano accese le polemiche sulla pena di morte, mentre la preoccupazione per il degrado morale della nazione indusse ad avviare un’inchiesta parlamentare, che si concretizzò nel 1957 con un rapporto su prostituzione e omosessualità non certo rivoluzionario, ma che almeno raccomandava la depenalizzazione dell’omosessualità, allora punibile con i lavori forzati. Contemporaneamente stava crescendo la tensione tra la popolazione di colore, immigrata dai Paesi del Commonwealth all’inizio del decennio su incoraggiamento delle industrie britanniche bisognose di manodopera; una tensione che culminò nel 1958 con gli scontri razziali di Nottingham e Notting Hill.In campo più specificamente culturale, il 1956 fu anche l’anno dell’esplosione della cultura giovanile, con i tumulti provocati dall’uscita del film Rock around the clock (Senza tregua il rock’n’ roll) di Fred F. Sears, con il celebre cantante statunitense Bill Haley, e soprattutto quello dell’affermazione degli Angry Young Men. Infatti, il vero evento culturale dell’anno fu la prima di Look back in anger, l’8 maggio al Royal Court Theatre, con la regia di Richardson. Con la sua ambientazione proletaria e la rabbia urlata del protagonista contro il conformismo della società britannica, la commedia portò alla luce le frustrazioni della generazione cresciuta durante la guerra e gli anni della democratizzazione laburista, e la sua disillusione per le promesse non mantenute. Il suo protagonista, Jimmy Porter, divenne il simbolo dell’insoddisfazione che attanagliava il Paese. Nacque così il mito degli Angry Young Men, anche questa niente più che un’etichetta sotto la quale la stampa accomunò i giovani scrittori e commediografi della generazione di Osborne. Come ha puntualizzato John Hill: “quello che fece il mito fu non tanto identificare un vero raggruppamento, quanto crearne uno, mettendo insieme scrittori precedenti come Kingsley Amis e John Wain, in una certa misura John Braine, e nuovi scrittori come Osborne, Colin Wilson, Stuart Holroyd, e i loro stessi personaggi (soprattutto il Jim Dixon di Lucky Jim di Amis e il Jimmy Porter di Look back in anger di Osborne)” (1986; trad. it. in Martini 1991, p. 213). E fu proprio a questi scrittori e alle loro opere (e a quelle di altri autori affermatisi negli anni immediatamente successivi, come Alan Sillitoe, Shelagh Delaney, David Storey, Stan Barstow) che si ispirarono i registi del F. C., soprat-tutto quando passarono al lungometraggio. In pratica, a metà degli anni Cinquanta salirono alla superficie sonnecchiante e tradizionalista della cultura britannica tutte le insoddisfazioni e le contraddizioni di un mondo che stava cambiando e che si contrapponeva contemporaneamente alle rigide regole della società classista e agli abbagli del nuovo consumismo. Il F. C., gli Angry Young Men e la New Left furono i ‘movimenti’ di punta di questo scossone culturale. Gli intrecci reciproci, nella seconda metà degli anni Cinquanta, furono fittissimi: Anderson e Reisz pubblicarono saggi sulla “Universities and Left review”; Richardson diresse in teatro i drammi di Osborne, e Osborne scrisse diverse sceneggiature per Richardson e Reisz; Anderson pubblicò nel 1957 Get out and push!, un articolo per la Declaration degli Angry Young Men; e il giorno di Pasqua dell’anno seguente tutti i gruppi parteciparono alla prima marcia per il di-sarmo ad Aldermaston, una cittadina a 50 miglia da Londra che ospitava uno stabilimento di ricerche nucleari. In occasione di questo avvenimento, il F. C. realizzò il suo unico documentario esplicitamente politico, March to Aldermaston (1958) di Anderson, Reisz, Stephen Peet, Derek York, Kurt Lewnhack, Derrick Knight, con un commento scritto da Anderson e letto fuori campo da Richard Burton. Ma gli incontri e gli accorpamenti furono fluttuanti e occasionali; non ci furono mai espliciti progetti e programmi comuni. Ci fu soltanto, nei tre movimenti e nei molti altri minori, la confluenza delle insoddisfazioni e delle rivendicazioni che agitavano profondamente la società britannica, che talvolta si fusero nelle medesime elaborazioni espressive, artistiche e politiche.

Il primo programma del F. C. ebbe una buona accoglienza di pubblico e di critica, e ciò consentì di organizzarne un secondo, nel settembre dello stesso anno, nel quale furono presentati tre film stranieri: On the Bowery (1956) di Lionel Rogosin, Neighbours (1952) di Norman McLaren e Le sang des bêtes (1949) di Georges Franju. Il terzo programma, invece, presentato nel giugno 1957, si intitolava Look at Britain e comprendeva due film di Anderson, Wakefield Express (1952) ed Every day except Christmas (1957), il film collettivo The singing street (1951) e Nice time (1957), il vivissimo ritratto di Piccadilly Circus realizzato da due giovani svizzeri che lavoravano al British Film Institute, Alain Tanner e Claude Goretta. La poetica dei nuovi autori era assolutamente limpida e conseguente alle analisi compiute sullo stato del cinema britannico: tornare al ‘sociale’, certo, come chiedevano tutte le correnti espressive emergenti, ma non con enfasi pedagogica e dogmatica, quanto piuttosto con uno sguardo libero, con curiosità partecipe, con la consapevolezza delle proprie radici e dei cambiamenti in atto. In questo senso, Every day except Christmas potrebbe essere assunto a ‘manifesto’ del movimento: il realismo minuzioso con cui l’autore osserva il lavoro quotidiano degli ambulanti del mercato del Covent Garden, i volti, le mani, la fatica, si allontana dalla sociologia per trasformarsi in poesia, scandita da un montaggio e da un sonoro dal vivo che diventano altrettanti elementi espressivi. Realismo, perciò, non nel senso di fotografare la realtà, ma in quello di interpretarla, di scavare sotto le sue apparenze fino a farne emergere l’anima. Tutto il F. C., anche quello dei lungometraggi, e anche negli esemplari segnati da un’esplicita rabbia, troverà le sue espressioni migliori, oltre che nella volontà di portare alla luce l’insoddisfazione crescente, in questo equilibrio tra realismo e sentimento, in questa capacità di riconoscere i valori ideali sotterranei che ancora sorreggono la vita della gente comune e il loro scontro con un mondo che a poco a poco tende a vanificarli. è in tal modo che acquista un senso il frequente richiamo dei cineasti del F. C. a J. Ford e al poeta del quotidiano H. Jennings: nel bisogno palpabile di ritornare al cuore della cultura collettiva; un cuore che il cinema inglese degli anni Cinquanta, troppo preso dalla sua vocazione moralistica e dal suo impacciato trionfalismo, aveva via via dimenticato.

Il quarto e il quinto programma del F. C. furono presentati entrambi nel settembre 1958: Polish voices, che comprendeva cortometraggi di Walerian Borowczyk, Jan Lenica e Roman Polanski, e French renewal, che presentava per la prima volta in Inghilterra Les mistons (1957; L’età difficile) di François Truffaut e Le beau Serge (1957) di Claude Chabrol. Il sesto fu presentato nel marzo 1959: interamente inglese, era composto da Food for blush di Elisabeth Russell, Refuge England del rifugiato ungherese Robert Vas, Enginemen di Michael Grisby, We are the Lambeth boys di Reisz, tutti film realizzati in quello stesso anno. Quello di Reisz fu l’ultimo documentario del F. C., e il sesto l’ultimo dei suoi programmi. Il National Film Theatre aveva esaurito la sua pazienza, il fondo del British Film Institute non era proprio florido e la Ford Motor Company, per la quale lavorava Reisz e che aveva finanziato i suoi film, non li considerava sufficientemente remunerativi sul piano pubblicitario. Ma, come scrisse nel 1977 Anderson nella presentazione di un omaggio al F. C. organizzato dal National Film Theatre, “il Free Cinema assunse, rapidamente e volutamente, il significato di un nuovo modo di fare film” (trad. it. in Free Cinema, 1981, p. 16).Nel pieno di una crisi gravissima dell’industria cinematografica britannica, uscì un film che, per quanto non ascrivibile al F. C., aveva in comune con esso gli umori, l’ambientazione, l’insofferenza del protagonista: Room at the top (1958; La strada dei quartieri alti), prodotto da una piccola compagnia indipendente, diretto dall’esordiente Jack Clayton e tratto dal romanzo omonimo di John Braine, era un melodramma con un esplicito sfondo sessuale e di classe, ambientato in una città industriale dell’Inghilterra settentrionale, nel quale il protagonista compie la propria scalata sociale utilizzando il sesso. Giudicato troppo scottante dalla commissione di censura, gli fu assegnata la classificazione X (vietato ai minori), generalmente un ostacolo enorme per la fortuna commerciale di un film: invece divenne il terzo campione d’incassi del 1959, e fu accolto con entusiasmo anche negli Stati Uniti, dove guadagnò due Oscar nel 1960. Il suo successo non fu solo un sintomo del rinnovamento dei costumi che stava dilagando in Gran Bretagna, ma aprì anche la strada alle realizzazioni immediatamente successive degli autori provenienti dal Free Cinema.

Sempre nel 1959 uscì Look back in anger, prodotto dalla neonata Woodfall Film Productions, la compagnia fondata da Osborne e Richardson insieme a Harry Saltzman (uno statunitense che sarebbe diventato uno dei ‘padri’ della saga dell’agente 007): Saltzman era riuscito a ottenere un finanziamento dalla Warner Bros., sulla base della fama internazionale dell’omonima commedia e, soprattutto, dell’impegno assunto da Richard Burton, già famoso a Hollywood, a interpretare il ruolo del protagonista. Look back in anger segnò il debutto nel lungometraggio al tempo stesso di Richardson, degli Angry Young Men e del F. C., e il regista cercò di ovviare all’impianto teatrale del testo applicando le consuetudini del F. C., dalle frequenti incursioni all’aperto alla colonna sonora jazz.La buona accoglienza critica convinse Richardson e Osborne a portare sullo schermo un’altra commedia di quest’ultimo, The entertainer (1960; Gli sfasati), la storia di un anziano commediante di vaudeville nella significativa interpretazione di Laurence Olivier. Un film graffiante e straziato, che offre un ritratto agghiacciante dell’Inghilterra piccolo-borghese, e che fu un insuccesso quasi annunciato. La Woodfall, messa in difficoltà dal cattivo esito di quest’opera, proseguì ugualmente nella produzione del suo terzo progetto: tratto dal romanzo di Sillitoe, che curò la sceneggiatura, Saturday night and Sunday morning (1960; Sabato sera, domenica mattina) racconta le giornate e le nottate inquiete di un giovane tornitore di una fabbrica di Nottingham, la sua insofferenza, il suo forzato adattamento. Richardson non era interessato alla regia e tenne per sé il ruolo di produttore; il film fu l’occasione per il passaggio al lungometraggio di Reisz e per il debutto di un giovane attore già affermatosi in teatro, Albert Finney. Saturday night and Sunday morning apparentemente non possedeva elementi di richiamo per il pubblico e, quando fu terminato, venne rifiutato da tutti gli esercenti. Fu solo l’inaspettato fallimento commerciale di un film della Warner che aprì uno spazio nella programmazione della sala Warner del West End; e il film di Reisz, fin dalla prima settimana, si rivelò un successo imprevisto, trasformò Finney in una star e divenne il terzo campione d’incassi. Era nervoso, amaro, non conciliante e trasmetteva una carica di vitalità repressa che trascinò con sé tutta l’industria cinematografica britannica. Fiorirono piccole compagnie indipendenti, fondate da registi, attori e produttori, che con esiti variabili cominciarono a proporre temi e stili vicini a quelli del F. C., storie di giovani, di operai, di città e quartieri inquieti, di fughe impossibili; i nuovi divi ebbero le facce comuni di Finney, Tom Courtenay, Rita Tushingham, Alan Bates; gli studi furono drasticamente abbandonati a favore delle riprese dal vero.

Emersero nuovi autori in sintonia con il nuovo immaginario, come Bryan Forbes con The L-shaped room (1962; La stanza a forma di L), il canadese Sidney J. Furie con The leather boys (1963) e soprattutto John Schlesinger, che esordì nel lungometraggio con A kind of loving (1962; Una maniera d’amare), seguito nel 1963 da Billy liar (Billy il bugiardo), tratti rispettivamente da un romanzo di Barstow e da una commedia di Willis Hall e Keith Waterhouse, ed entrambi ambientati nell’Inghilterra industriale del Nord.

Quanto al nucleo originario del F. C., il più prolifico fu Richardson, che realizzò nel 1961 A taste of honey (Sapore di miele), tratto dalla commedia di Sh. Delaney, nel 1962 The loneliness of the long distance runner (Gioventù, amore e rabbia), dal romanzo di Sillitoe, e nel 1963 Tom Jones, tratto dal romanzo di Henry Fielding e sceneggiato da Osborne, che trasferiva nell’ambientazione settecentesca tutti gli stilemi, le dissacrazioni e la vitalità del F. C. e che ebbe un grande successo. Il 1963 fu anche l’anno in cui esordì nel lungometraggio Anderson con This sporting life (Io sono un campione), sceneggiato da Storey dal suo romanzo e interpretato da Richard Harris. Storia della disillusione scontrosa e dell’incapacità affettiva di un ex minatore diventato giocatore di rugby, rappresentò il risultato più compiuto del F. C.: con la sua struttura a flashback, riuscì a trasporre il realismo descrittivo in una dimensione drammatica interiore, a tradurre in poesia un approccio che si era esercitato soprattutto nella prosa. Segnò però anche, insieme a Tom Jones, la fine del ‘movimento’. Gli interessi del pubblico e dell’industria si stavano spostando verso l’euforia della nascente swinging London. Come scrisse Anderson nel 1983: “Noi credevamo di poter trovare un buon sostegno popolare da parte del pubblico britannico, oppure di riuscire a crearlo, per gettare le basi di una solida industria nazionale. O almeno che valesse la pena di tentare. Abbiamo avuto successo per diciotto mesi. Le nostre mete non sono state condivise, in parte perché la concezione americana del cinema come divertimento era troppo radicata, in parte perché, tra gli stessi inglesi, la resistenza al cambiamento e l’accettazione del severo conformismo sociale e artistico della classe media erano troppo marcate” (trad. it. in Martini 1991, pp. 274-75). bibliografia

A. Cooke, Free Cinema, in “Sequence”, 1951, 13.

G. Lambert, Free Cinema, in “Sight and sound”, 1956, 4 (trad. it. in Free Cinema, Torre Boldone 1981).

L. Anderson, Get out and push!, in Declaration, ed. T. Maschler, London 1957.

L. Jacobs, Free Cinema I, e R. Arnheim, Free Cinema II, in “Film culture”, 1958, 2 (trad. it. in Free Cinema e dintorni, 1991, pp. 77-82 e 83-84).

J.-P. Torök, Qu’est-ce que le Free Cinema?, in “Positif”, décembre 1962.

P. Houston, The contemporary cinema, London 1963, pp. 111-24;

G. Fink, Il cinema inglese indipendente, in “Cinestudio”, 1964, 13.

A. Walker, Hollywood, England ‒ The British film industry in the sixties, London 1974, pp. 23-177.

Free Cinema, a cura di A. Lovell, D. Ferrario, Bergamo-Modena 1981;

L. Anderson, British cinema ‒ The historical imperative, in International film guide 1983, ed. P. Cowie, London 1983; J. Hill, Sex, class and realism ‒ British cinema 1956-1963, London 1986, passim.

E. Martini, Storia del cinema inglese, Venezia 1991, pp. 212-19 e 256-75.

Free Cinema e dintorni, a cura di E. Martini, Torino 1991.

http://www.treccani.it/enciclopedia/free-cinema_(Enciclopedia-del-Cinema)/


Look Back in Anger by John Osborne

Playing at the Royal National Theatre, London through September 18

By Paul Bond
14 September 1999

The first production of John Osborne’s Look Back in Anger in 1956 provoked a major controversy. There were those, like the Observer newspaper’s influential critic Kenneth Tynan, who saw it as the first totally original play of a new generation. There were others who hated both it and the world that Osborne was showing them. But even these critics acknowledged that the play, written in just one month, marked a new voice on the British stage.

Howard Brenton, writing in the Independent newspaper at the time of Osborne’s death in 1994, said, “When somebody breaks the mould so comprehensively it’s difficult to describe what it feels like”. In the same paper, Arnold Wesker described Osborne as having “opened the doors of theatres for all the succeeding generations of writers”.

Look Back in Anger came to exemplify a reaction to the affected drawing-room comedies of Noel Coward, Terrence Rattigan and others, which dominated the West End stage in the early 1950s. Coward et al wrote about an affluent bourgeoisie at play in the drawing rooms of their country homes, or sections of the upper middle class comfortable in suburbia. Osborne and the writers who followed him were looking at the working class or the lower middle class, struggling with their existence in bedsits or terraces.

The “kitchen sink” dramatists—as their style of domestic realism became to be known—sought to convey the language of everyday speech, and to shock with its bluntness. Eric Keown, reviewing Look Back in Anger in Punch magazine at the time, wrote that Osborne “draws liberally on the vocabulary of the intestines and laces his tirades with the steamier epithets of the tripe butcher”.

The play

The three-act play takes place in a one-bedroom flat in the Midlands. Jimmy Porter, lower middle-class, university-educated, lives with his wife Alison, the daughter of a retired Colonel in the British Army in India. His friend Cliff Lewis, who helps Jimmy run a sweet stall, lives with them. Jimmy, intellectually restless and thwarted, reads the papers, argues and taunts his friends over their acceptance of the world around them. He rages to the point of violence, reserving much of his bile for Alison’s friends and family. The situation is exacerbated by the arrival of Helena, an actress friend of Alison’s from school. Appalled at what she finds, Helena calls Alison’s father to take her away from the flat. He arrives while Jimmy is visiting the mother of a friend and takes Alison away. As soon as she has gone, Helena moves in with Jimmy. Alison returns to visit, having lost Jimmy’s baby. Helena can no longer stand living with Jimmy and leaves. Finally Alison returns to Jimmy and his angry life.

The problem, which even a fine revival like this production has, is with the melodramatic qualities of the narrative. Osborne’s script became almost a template for the new school of writers, and it is difficult to present his work without being aware that there is a faint whiff of formula about it. But despite the plot’s shortcomings (which were recognised even by such a fierce admirer as Tynan), it still has the power to startle. There was an audible intake of breath from the audience when Jimmy fell into Helena’s arms. Thanks to a fine performance from William Gaunt the sympathy felt by Colonel Redfern, Alison’s father, for Jimmy came as a revelation, but still totally understandable within the framework of the play.

The language, too, still has the power to shock, such as when Jimmy, unaware of Alison’s pregnancy, says to her:

“If only something—something would happen to you, and wake you out of your beauty sleep! If you could have a child, and it would die. Let it grow, let a recognisable human face emerge from that little mass of India rubber and wrinkles. Please—if only I could watch you face that. I wonder if you might even become a recognisable human being yourself. But I doubt it.”

It is a tribute to Gregory Hersov’s direction and Michael Sheen’s performance as Jimmy that this does not seem overblown or ridiculous.

Some of the imagery and language doesn’t travel too well historically and reflects only the preoccupations of the era. It is difficult, for example, to imagine jazz being quite as exotic as it is for Jimmy. Or to understand the intellectual courage of saying about a gay man, “He’s like a man with a strawberry mark—he keeps thrusting it in your face because he can’t believe it doesn’t interest or horrify you particularly. As if I give a damn which way he likes his meat served up”. At the time homosexuality was still illegal in Britain.

The production stays close to Osborne’s original stage-image. This enables it to show the play as standing at a crossroads both of the British stage and also of political and historical epochs. Before the show, the title is projected onto the curtains like a jazz album cover. Between scenes, wreaths of cigarette smoke rise up the curtains. An era is evoked. Matilda Ziegler’s Helena also captures a lost period of weekly repertory theatre, of companies travelling the country with precisely the sort of play that Look Back in Anger was attacking; a world evoked with such nostalgia in The Dresser. It was a time when actors auditioned in suits or the sort of starched twin-pieces that Helena wears before she moves in with Jimmy. The admiration of William Gaunt’s Colonel Redfern for Jimmy’s principles and his amusement at Jimmy’s description of Mrs Redfern as “an overfed, overprivileged old bitch”, are set against his total lack of comprehension of what Jimmy’s life actually means. Alison says to him “You’re hurt because everything is changed. Jimmy is hurt because everything is the same. And neither of you can face it. Something’s gone wrong somewhere, hasn’t it?” Or as it was put in a Daily Express article from December 1959 which is quoted in the programme: “Out of this decade has come the Illusion of Comfort, and we have lost the sense of life’s difficulty”.

It is clear from Osborne’s script that there was no lack of a sense of life’s difficulties around at the time. But the emphasis had shifted from the martyred expressions of the British ruling class and their “white man’s burden”, as represented in Colonel Redfern, to a more serious appraisal of life for those outside that ruling class. Emma Fielding does a good job playing Alison, who has grown up with the one attitude but has been forced by her situation into the other. Fielding gives a good performance as the woman who tolerates Jimmy’s invective, living constantly with the threat of something erupting in front of her. Helena on the other hand ultimately cannot stay with Jimmy precisely because of the destruction of all her old certainties.

Perhaps the only truly sympathetic character in the play is Cliff, here excellently played by Jason Hughes. From his role as Jimmy’s foil in the early exchanges, to appearing as Alison’s real friend, to the point when he decides that he does not want to stay in the flat, Hughes gives a magnificent portrayal of solidness. Whilst Alison is forced to accept Jimmy’s rages because her family background has robbed her of any other viable option, Hughes shows us Cliff as someone who is keeping the peace by hiding his real character—by playing along with all the games.

In Jimmy Porter, Osborne created what came to be seen as a model of the “angry young man”—railing at the lack of passion of his age, entreating Alison and Cliff to show some enthusiasm. He is marvellously, unreasonably idealistic in a wildly unfocussed way. Kenneth Tynan, who described Jimmy as “the completest young pup in our literature since Hamlet”, criticised those who attacked the recklessness of Jimmy’s attacks. “Is Jimmy’s anger justified? Why doesn’t he do something? These questions might be relevant if the character had failed to come to life; in the presence of such evident and blazing vitality, I marvel at the pedantry that could ask them. Why don’t Chekhov’s people do something? Is the sun justified in scorching us?”

It is just this “evident and blazing vitality” that Michael Sheen represents so well. Spluttering with indignation, retreating into his pseudo-literary takes on vaudeville, firing off his vindictive gags almost because he can do nothing else. Osborne, throughout his work, was fascinated by end-of-pier music hall and vaudeville. In The Entertainer, one year later, he used vaudeville and its washed-up performer Archie Rice in a brilliant take on the crisis in post-war British society. Here he has Jimmy and Cliff perform a variety-style number, “Don’t be afraid to sleep with your sweetheart just because she’s better than you”, as well as trading cheap cracks in true hackneyed music hall style.

More than any other writer of his generation, Osborne was fascinated by the tragedy lurking at the heart of the light entertainment performance. Michael Sheen adds another layer to this in his spluttering soliloquies, carrying with them an echo of Tony Hancock’s ridiculous suburban pretensions. It is a fascinating comparison: Hancock, the parodist of lower-middle-class aspirations, and Jimmy Porter, the raging expression of the frustrations of the lower middle class. Sheen has a lightness of touch that suits Jimmy’s failed jokes and misplaced comments, as well as his more furious denunciations of the absence of passion.

The impact Osborne had on British theatre is incalculable. With Look Back in Anger he brought class as an issue before British audiences. Under Hersov’s direction, Sheen articulates the realisation of a man who has reached the limits of the possibilities open to him but is struggling to retain his dignity. “Why don’t we have a little game?” he asks. “Let’s pretend that we’re human beings, and that we’re actually alive”. Sheen gives a marvellous performance of a man running in circles trying to find a way out.

Osborne has often been criticised for not seeing a way out, and not explaining more carefully the crisis in which Jimmy finds himself. Robert Wright, reviewing the first production in the Star, wrote “He obviously wants to shake us into thinking but we are never quite clear what it is he wants us to think about. Is it the Class Struggle or simply sex?” This incoherence in Jimmy’s rage is both strength and a limitation to the play.

It is apparent from the text that Osborne recognised this limitation, even tacitly. Helena criticises Jimmy, saying, “There’s no place for people like that any longer—in sex, or politics, or anything. That’s why he’s so futile…. He doesn’t know where he is, or where he’s going. He’ll never do anything, and he’ll never amount to anything.” It seems almost a recognition that within his own work there are insufficient answers. This goes hand-in-hand with Jimmy’s statement that “people of our generation aren’t able to die for good causes any longer…. There aren’t any good, brave causes left.”

Such a statement could be read as the voice of pessimistic nihilism. Writing about Celine’s novel Journey to the End of Night, Trotsky described it as “a book dictated by terror in the face of life, and weariness of it, rather than by indignation. Active indignation is linked up with hope. In Celine’s book there is no hope.” That is clearly not the case here. Jimmy yearns for passion, and clings to the idea of it. When Alison returns to him he tells her “I may be a lost cause, but I thought if you loved me, it needn’t matter.” There is a vision, however confused, of the possibilities of human existence. What makes Jimmy’s statement so interesting is precisely the historical context in which it occurs.

Kenneth Tynan, who referred to the play’s “instinctive leftishness” in his Observer review, wrote in a piece on “The Angry Young Movement” that Jimmy Porter “represented the dismay of many young Britons … who came of age under a Socialist government, yet found, when they went out into the world, that the class system was still mysteriously intact.”

It is the mistaken association of the post-war Labour government with the failure of socialism per se that accounts for Porter’s frustration. Osborne, active in various protests at the time, such as the Campaign for Nuclear Disarmament, articulated his own sentiments through his lead character. In this respect, it is possible to see in the play expressions of the political impasse that had been reached in Britain during the 1950s, as a result of the domination of intellectual life by Stalinism and social democracy.

Nonetheless, it is also possible to see a challenge, albeit confused and unclear, to that impasse. There remains somewhere at the play’s core, even if it cannot be explained, hope. There remains a belief that somehow people can survive the worst and perhaps even overcome it; a belief in humanity, and the possibility of a way forward.

(All quotations from Kenneth Tynan are from Tynan on Theatre, Penguin, 1964.)

https://www.wsws.org/en/articles/1999/09/look-s14.html

Questa voce è stata pubblicata in cultura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.