Tragedie in due battute pdf Achille Campanile e video

Tragedie in due battute – Colle la Salle

di Achille Campanile

PREMIO LETTERARIO
Personaggi:
IL POETA – L’AMICO

La scena si svolge dove vi pare. All’alzarsi del sipario tutti i personaggi sono in scena.
IL POETA
Ho scritto nove sonetti e un’ode saffica.
L’AMICO
Cosicché, in totale, quanti componimenti poetici ci saranno nel tuo nuovo – e speriamo ultimo – volume?
IL POETA
Dieci con l’ode.
(Galoppo di cavalli in lontananza. Sipario)

AMBIGUITÀ DEL LINGUAGGIO

“La stessa frase, detta in Inghilterra significa una cosa, detta in America ne significa un’altra.”

“Tu cerchi di trarmi in inganno.”

“Te lo giuro. La frase ‘Io sto qui’ detta in Inghilterra significa “Io sto in Inghilterra”; detta in America significa “Io sto in America”.

“E’ stranissimo.”

(sipario)

LA SCOPERTA

Personaggi:

IL SERPENTE  EVA

EVA Siamo perduti! Adamo ha scoperto tutto.

IL SERPENTE Cielo! E come mai?

EVA Ha mangiato la foglia.

(sipario)

QUANDO LUCIO LASCIA L’ASCIA

Personaggi:

LUCIO – LICIO

LUCIO ha due asce, una scabra e una, invece, liscia. Il suo amico LICIO gli chiede quest’ultima in prestito, pregandolo di lasciargliela alla porta di casa. LICIO, a sua volta, ha due porte, anch’esse una scabra e una invece liscia, perciò chiede all’amico a quale delle due egli desidera che sia lasciato l’oggetto. L’altro glielo dice e in più lo prega di dargli, in quella circostanza, una lustratina alla porta. Indi brindano. Ma lasciamo ai due la parola.

LICIO  Lucio, lascia l’ascia all’uscio.

LUCIO L’ascia scabra o l’ascia liscia?

LICIO Lascia all’uscio l’ascia liscia.

LUCIO Lucio, lascio l’ascia liscia all’uscio liscio?

LICIO  Lucio, esci e lascia l’ascia liscia all’uscio liscio, liscia l’uscio e mesci!

La lunarità di Achille Campanile

«Dove vai?» «All’arcivescovado. E tu?» «Dall’arcivescovengo.»

Dario Lodi

Quella citata è sicuramente una battuta surreale, magari di quelle insopportabili per il modestissimo gioco di parole che la caratterizza, ma se si prescinde dalle frasi fatte, forse la si troverà interessante e in certo qual modo significativa. E’ una delle tante battute di Achille Campanile (1899-1977), un caso unico nella nostra letteratura.Achille Campanile era uomo dotato di grande cultura e non lasciava nulla al caso né inseguiva facili effetti. In fondo, non voleva allontanarsi troppo dalla cultura ufficiale, ma stuzzicarla sì, magari con il segreto desiderio di rinnovarla: intanto divertirsi inventando l’inosabile, quasi fosse un ragazzaccio dedito a un passatempo goliardico e in fondo innocente. Egli componeva per sorridere e se elegantemente vi cadeva un pizzico di veleno ironico tanto meglio.Tanto meglio perché il veleno ironico in questione dava consistenza alla battuta, la rendeva importante, le dava profondità e ne sollecitava altre, sempre più sofisticate, tranne che nell’enunciazione. La battuta doveva essere ridotta a poca cosa, per amore d’immediatezza ma quella poca cosa doveva contenere molto. Sarebbe bastato anche un supplemento d’ironia, un’altra stilla di veleno, con maggiore gusto e maggior sapore.Gusto e sapore dovevano essere in perfetto equilibrio: la regola gli veniva dettata da un’educazione all’ordine che un po’ era innata e molto derivava da una certa soggezione nei confronti del bon ton, quasi che Campanile volesse dimostrare il possesso di un dandismo consapevole e giustificato.

Il nostro scrittore e commediografo – ma le sue commedie vanno lette, non recitate (è assurdo recitare commedie di una sola battuta) – non aveva intenzione di denunciare chissà quale malessere intellettuale che le parole, infatti, non possono lenire, ma voleva, indirettamente, richiamare la necessità di dare un’occhiata alle convenzioni per vedere se potevano reggere ancora.

Achille Campanile non gradiva l’accostamento della sua opera con quella di Eugene Ionesco: molti lo facevano (e lo fanno tuttora) ma fra i due c’è effettivamente della differenza. Ionesco appoggia la sua opera sul nonsense e lo elegge vangelo della società moderna, cosi da evidenziare la crisi culturale e civile della società stessa, mentre Campanile agisce più in profondità, tocca problemi antropologici ed esistenziali, pur senza prendere, apparentemente, nulla sul serio.

Quando iniziò la sua carriera di scrittore, seguendo le orme del padre Gaetano, che, anche sceneggiatore di film muti, lo introdusse nel mondo del cinema, il suo modo di fare creò non poche perplessità: era un genio oppure un pazzo? Se lo chiedevano nella redazione del Travaso delle idee con una certa, comprensibile, apprensione.

A proposito di cinema, Campanile sceneggiò parecchi film, fra cui il polpettone Guai ai vinti! di Raffaele Matarazzo (regista campione di melodrammi strappalacrime): qui scompare la sua vena ironica e satirica per ragioni alimentari ed emerge, senza emergere, quella di buon mestierante della parola. Dimenticato, dopo la guerra, il nostro uomo trovò il modo di riciclarsi nella nascente televisione: stranamente il simbolo piccolo-borghese per eccellenza lo lanciò e lui fu bravo a imporsi.

Elegante, sicuro di sé, dotato di aria nobiliare, Achille Campanile riuscì simpatico perché fu considerato un personaggio bizzarro, una sorta di aristocratico quasi decaduto, costretto ad inventare battute per vivere. Le battute non facevano ridere particolarmente, ma l’insieme funzionava e così Campanile divenne persino popolare.

Che si equivocasse su di lui è provato dai numerosi libri che ci ha lasciato. Un bon approccio alla sua prosa è Manuale di conversazione dove in modo sulfureo, lunare, dà istruzioni di sana ipocrisia accompagnate da vie di fuga rappresentate da considerazioni sottotraccia: un divertimento assicurato e molto intelligente.

Con capacità inconsueta, si direbbe unica nel trasporto, Campanile sa dire l’essenziale dell’essenziale, sa cogliere la radice del concetto e la temuta assurdità della raccolta (salvo riderci sopra, come reazione orgogliosa allo smacco) e non vuole tenere per sé le scoperte e le invenzioni a sostegno di conclusioni che non sono per niente strampalate.

Va detto che all’epoca scienza e filosofia brigavano intorno al valore della parola e litigavano sull’attendibilità della stessa in senso assoluto: linguaggio dell’uomo uguale decrittazione del mondo. Andava più di moda la tesi per cui il linguaggio dell’uomo era limitato alla visione umana delle cose. I discorsi tradizionali, assoluti, dovevano essere rivisti.

Campanile è assai più vicino a coloro che dubitavano dell’importanza-chiave della parola per tutto (mondo metafisico compreso) senza tuttavia essere seguace di una filosofia ad hoc: non sarebbe stato capace di creare qualcosa di fisso, né ne aveva voglia, desiderio. Meglio vivere alla giornata e cercare spunti per provare ad esistere decorosamente in senso intellettuale: cosa che forse gli riuscì alla perfezione.

Dello stesso autore:

Testi di Achille Campanile

http://www.homolaicus.com/letteratura/campanile.htm

Asparagi e immortalità dell’anima


Non c’è alcun rapporto fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Quelli sono un legume appartenente alla famiglia delle asparagine, credo, ottimo lessato e condito con olio, aceto, sale e pepe. Alcuni preferiscono il limone all’aceto; anche eccellente è l’asparago cotto col burro e condito con formaggio parmigiano. Alcuni ci mettono un uovo frittellato sopra, e ci sta benissimo. L’immortalità dell’anima, invece, è una questione; questione, occorre aggiungere, che da secoli affatica le menti dei filosofi. Inoltre gli asparagi si mangiano, mentre l’immortalità dell’anima no. Questa, insomma, appartiene al mondo delle idee. Naturalmente, nel caso in esame, all’idea corrisponde un fatto. Da questo punto di vista si può dire che l’immortalità dell’anima è una qualità dell’anima, una proprietà peculiare dell’anima, un concetto insomma, il quale indica il fatto che le anime sono immortali. Siamo sempre ben lontani dagli asparagi.

Altra differenza è che sono state scritte molte più opere sull’immortalità dell’anima che sugli asparagi. Almeno credo. Ancora: non tutti credono nell’immortalità dell’anima, mentre che degli asparagi e della loro esistenza tutti sono certi, nessuno dubita. Eppure la verità è proprio l’opposto: si può dubitare dell’esistenza degli asparagi, non dell’immortalità dell’anima. Tuttavia, anche così, tra gli uni e l’altra c’è un enorme divario.

Ciò senza dire d’infinite altre differenze fra quelli e questa.

Vediamo ora se e in quali direzioni si possano ricercare punti di contatto fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Questa e quelli possono generalmente considerarsi cose gradevoli. Difatti, se l’anima non fosse immortale, nulla resterebbe di noi e questo sarebbe molto sgradevole. Di tutt’altro genere è la gradevolezza degli asparagi, che graditi sono al palato.

Mi accorgo che casualmente m’è venuta sotto la penna un’analogia del tutto accidentale fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima: m’è capitato, cioè, di dire che, se l’anima non fosse immortale, nulla resterebbe di noi; invece, essendo essa immortale, resta molto, resta la parte migliore di noi. Anche degli asparagi resta molto, purtroppo; ma al contrario di noi, non la parte migliore o più nobile. Anzi resta la peggiore, il gambo. Tuttavia, esso resta in misura considerevole, il che non sempre avviene nel caso d’altri vegetali già cotti, come, per esempio, gli spinaci, che sono interamente commestibili. Forse questo è l’unico punto di contatto fra l’immortalità dell’anima e gli asparagi e sono lieto di averlo trovato, sia pure involontariamente e per mero caso, perché questo dà un contenuto positivo all’indagine che ci eravamo proposti e ci procura dei risultati che vanno oltre le più ottimistiche previsioni. Ma, ripeto, è un contatto puramente formale ed esteriore, in quanto c’è una bella differenza fra l’anima e un gambo d’asparago! Non solo, ma questa analogia del tutto formale non è nemmeno esclusiva degli asparagi, poiché anche i carciofi si trovano nella stessa situazione, quanto a percentuale di scarto.

Per concludere e terminarla con un’indagine che la mancanza di idonei risultati rende quanto mai penosa, dobbiamo dire che, da qualunque parte si esamini la questione, non c’è nulla in comune fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima.





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