Dentro l’inferno delle prigioni di Assad Corriere.it , rapporto Amnesty International

Dentro l’inferno delle prigioni di Assad

di Eugenio Dacrema, Marta Serafini, Federico Thoman

«Sono stato arrestato il 2 marzo 2012 sul confine tra la Siria e il Libano. Mi hanno riportato a Damasco, alla sede dell’intelligence militare. La filiale 215». Inizia così la storia di Mohamed Mounir Alfakir, uno dei leader delle manifestazioni organizzate nel 2011 contro il regime siriano. Avrebbe dovuto recarsi da Beirut a Istanbul per incontrare i membri dell’opposizione in esilio. Mounir era uno dei due rappresentanti della regione di Damasco. Ma non raggiungerà mai l’aeroporto di Beirut, e nemmeno tornerà a casa. Mounir da quel giorno sparisce per due lunghi anni. Nei mesi successivi i suoi familiari e i suoi amici cercano invano informazioni su quanto gli è accaduto «in ogni ufficio del regime c’è una figura che noi chiamiamo al-miftah, la chiave, un intermediario che prende i contatti e stabilisce il prezzo per le informazioni», spiega al Corriere. I familiari di Mounir pagano, ma le informazioni non arrivano. Ma tutti sanno cosa è successo. Perché è già successo a molti dall’inizio della rivolta nel marzo 2011, e a molti altri succederà negli anni successivi.

I perduti, i desaparecidos siriani

Le chiamano «sparizioni forzate», in inglese forced disappearance.  Non sono normali rapimenti perché sono portati a termine da organi dello Stato, ma non sono nemmeno normali arresti, perché avvengono al di fuori delle ordinarie procedure legali e le vittime spariscono per mesi o anni interi senza che le famiglie vengano informate di ciò che è accaduto loro. Alcuni sono rilasciati dietro un vero e proprio riscatto, altri ricompaiono per essere processati per reati spesso confessati sotto tortura. Altri invece non torneranno mai, nonostante gli sforzi delle famiglie e le tangenti pagate ai funzionari del governo. In Sud America le vittime di tale pratica sono chiamati “desaparecidos”. In Siria sono mafqoudoun, i perduti.

Le loro storie, o meglio le testimonianze di chi è riuscito a sopravvivere, appaiono anche nel rapporto di Amnesty International pubblicato nei giorni scorsi. Attraverso 65 testimonianze – 54 uomini e 11 donne – la ong internazionale ha ricostruito le violazioni e le torture subite dai dissidenti siriani. Sono ex membri dell’esercito ma soprattutto civili: medici, elettricisti, avvocati, contabili, infermieri, giornalisti. Nei decenni precedenti al 2011, quando sono iniziate le proteste contro il governo di Assad che poi hanno portato alla guerra civile, la media di decessi riscontrati nelle carceri siriane era di 45 all’anno. Nemmeno quattro al mese. Ora si parla di dieci morti al giorno. Trecento al mese. 17.723 in oltre cinque anni. «Di padre in figlio, in Siria la tortura ha costituito da decenni a questa parte uno degli strumenti di potere e di terrore della famiglia Assad. Negli anni Ottanta, Amnesty International aveva diffuso un rapporto in cui erano descritti quasi 40 metodi di tortura», spiega Riccardo Noury portavoce di Amnesty International in Italia. Oggi chi è sospettato di essere in qualche modo legato o favorevole ai ribelli finisce in cella alla mercé pressoché assoluta dei servizi segreti (militari e civili) del regime di Assad. Secondo le decine di testimonianze raccolte da Amnesty International, gli arresti avvengono in vario modo. Su ordine diretto oppure dopo un semplice fermo, come accaduto a Mounir. Ma nessuno dei fermati  passa attraverso il normale iter giudiziario. Per mesi le vittime sono rinchiuse in prigioni militari, al di fuori di qualunque tipo di supervisione civile. Ci sono le sedi dei diversi servizi segreti, contraddistinte da un numero (215, 227, 248, 291 ecc.) o quelle delle forze speciali dell’esercito come la Quarta Divisione. «Durante le prime tre settimane mi hanno interrogato. Volevano sapere del mio ruolo nella rivolta e degli altri attivisti». Mi hanno torturato con uno strumento chiamato la «sedia tedesca» e picchiato con cavi e bastoni racconta Mounir, «alla fine ho parlato». Ottenute confessioni e informazioni i detenuti vengono lasciati ad aspettare che venga deciso il loro destino. Possono rimanere li a tempo indeterminato, o andare incontro a un processo militare. Mounir aspetta quasi sette mesi, poi lui e altri sette vengono portati davanti al tribunale militare, nonostante siano tutti civili. «Non c’è nessuna difesa per gli imputati, nessun avvocato, e nessun appello. Il nostro processo è durato in totale un quarto d’ora». Il giudice scrive la sentenza su un foglio, senza dire niente. «Ancora oggi non so cosa ci fosse scritto». A questo punto i più fortunati sono rilasciati, altri finiscono in una prigione civile, dove le condizioni sono molto più umane. Altri ancora, vanno a Sednaya.

L’inferno sulla terra, Sednaya

Sednaya è un piccolo villaggio cristiano, noto per un antico monastero e le sue reliquie. Ma per i siriani è altro. Negli anni 80 a Sednaya e Palmira il regime degli Assad ha costruito due prigioni speciali per i nemici politici: attivisti, membri delle minoranze represse come quella curda, e in seguito anche i jihadisti. Le storie su queste prigioni si diffondono velocemente col beneplacito del regime. Racconti che parlano di torture, di celle sotterranee e condizioni disumane. La prigione di Palmira è stata conquistata dall’Isis a metà 2015. I miliziani ne pubblicano le immagini e poi video della demolizione per accreditarsi agli occhi dei siriani e attrarre reclute. Ma se la prigione di Palmira non esiste più, quella di Sednaya funziona ancora. Mounir vi viene mandato dopo il processo, sette mesi dopo il suo arresto. «Quando ci dissero che saremmo andati a Sednaya cominciammo a piangere. E non smettemmo per tutto il tragitto». Appena arrivati lui e i suoi compagni sono fatti denudare e picchiati duramente. Dopodiché sono loro spiegate le poche semplici regole della prigione. «Primo non puoi alzare la testa e guardare i secondini in faccia. Pena la morte. Ho visto molta gente essere uccisa così». L´altra regola è quella del silenzio: i prigionieri non possono parlare tra loro, nemmeno sussurrare. «Per tutto il tempo che ho trascorso lì ho sentito solo silenzio». Dopo questo «benvenuto» Mounir viene rinchiuso in una cella sotterranea da nove persone, grande circa due metri quadrati. Uno dormiva, e gli altri stavano in piedi. «Tutti completamente nudi uno attaccato all’altro».  Mounir resta a Sednaya un anno intero. Ma nel frattempo succede qualcosa: dopo aver provato diverse strade e pagato diversi funzionari, la sua famiglia riesce finalmente a scoprire dove si trova e ad accordarsi sul prezzo della sua scarcerazione. «Un giorno ci hanno convocati, me e altri due, era il 22 gennaio 2012. Abbiamo pensato che ci chiamassero per giustiziarci».  Ma i tre prigionieri si sbagliavano. «Mi portarono in una stanza e mi diedero i miei averi. Poi mi dissero di sollevare la mia mano destra. Mi dissero di ringraziare il presidente Bashar Al-Assad perché mi perdonava nonostante io meritassi la mia pena. Perché è un uomo buono». Da quel momento in poi Mounir è di nuovo libero. Dopo un mese fuggirà in Giordania, e poi di nuovo in Turchia, dove oggi lavora per l’Omran Center for Strategic Studies…….

Eugenio Dacrema, ricercatore dell’Università di Trento, esperto in Medio Oriente, eugenio.dacrema@gmail.com
Marta Serafini, giornalista, mserafini@corriere.it
Federico Thoman, giornalista, fthoman@corriere.it

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