1Q84 – Libro 1 e 2 pdf Murakami Haruki + Dance Dance Dance , Kafka sulla spiaggia

1Q84 – Libro 1 e 2

1. Aomame

Non si lasci ingannare dalle apparenze

Nel taxi la radio trasmetteva un programma di musica classica in FM. Il brano era laSinfoniettadi Janáček. Non esattamente la musica più adatta da sentire in un taxi bloccato nel traffico. E del resto nemmeno l’autista sembrava ascoltarla con troppa attenzione. L’uomo, di mezza età, era impegnato a guardare in silenzio la fila interminabile di auto che aveva davanti, come un pescatore provetto che, ritto a prua, scruta un minaccioso gorgo di correnti. Aomame, sprofondata nel sedile posteriore, gli occhi leggermente socchiusi, ascoltava la musica.

Quante persone ci saranno al mondo che, sentendo l’attacco della Sinfonietta di Janáček, possono dire con sicurezza che si tratta proprio della

Sinfonietta di Janáček?  La risposta potrebbe variare tra «pochissimi» e «quasi nessuno». Eppure, per qualche ragione, Aomame era ingrado di riconoscerla.

Janáček aveva composto quella piccola sinfonia nel 1926. Il tema iniziale era stato scritto come fanfara per una grande manifestazione sportiva.

Aomame provò a immaginarsi la Cecoslovacchia nel 1926. I suoi abitanti,

dopo la fine della Prima guerra mondiale e la liberazione dal lungo dominio asburgico, si godevano la pace temporanea che aveva visitato l’Europa centrale, bevendo birra Pilsner nei caffè, e producendo mitragliatrici belle e potenti. Due anni prima si era spento, ignorato dal mondo, Franz Kafka. Presto, non si sa bene da dove, sarebbe comparso Hitler, e in un attimo avrebbe divorato quel paese bello e accogliente, ma allora nessuno sapeva che sarebbe accaduta una cosa tanto terribile. Forse la frase più importante che la storia insegni agli uomini è «A quel tempo nessuno sapeva ciò che sarebbe accaduto». Ascoltando la musica, Aomame immaginava il vento che attraversava dolcemente le pianure della Boemia, e pensava agli eventi della storia.

Nel 1926 era morto l’imperatore Taishō, e aveva avuto inizio l’era Shōwa. Anche in Giappone stava per cominciare una fase buia e odiosa. Finiva il breve interludio del modernismo e della democrazia, e il fascismo acquistava potere. La storia era, insieme allo sport, una delle passioni di Aomame. Leggeva pochi romanzi, ma era una lettrice vorace di libri che avessero a che

fare con la storia. Della storia le piaceva soprattutto il fatto che ogni avvenimento era fondamentalmente legato a un’era e a un luogo determinati.

Leggere Murakami. Note su 1Q84

19 aprile 2013 Pubblicato da Le parole e le cose | 2 commenti

di Niccolò Scaffai

[Questo articolo è già uscito su Between].

1. Murakami Haruki, nato a Kyoto (1949), è con ogni probabilità lo scrittore giapponese più famoso in Italia (più di Mishima e ormai anche più di Yoshimoto Banana). Tutte le sue opere vengono regolarmente tradotte e pubblicate da Einaudi, il marchio che più di ogni altro ha conservato, nel nostro panorama editoriale, la capacità di attribuire una patente di autorialità presso un pubblico di vario livello. Murakami è notissimo anche nel resto d’Europa – i suoi libri si vendono nelle edicole di stazioni e aeroporti – e negli Stati Uniti, dove ha viaggiato, vissuto e insegnato abbastanza a lungo, prima di tornare nel suo paese d’origine. Dopo aver trascorso l’adolescenza a Kobe e gli anni universitari a Tokyo, Murakami ha infatti soggiornato, tra gli anni Ottanta e i Novanta, in Italia, in Grecia, in California. Non ancora famoso, ha lavorato per un’emittente televisiva e ha aperto un jazz bar (il Peter Cat); in seguito, alla sua passione per la scrittura si è affiancata quella per la corsa: dell’attività di maratoneta ha parlato nel libro intitolato appunto L’arte di correre (2007).

Da qualche tempo è in odore di Nobel e tanto la sua figura quanto la sua opera godono di notevole fortuna anche sui mezzi di comunicazione più avanzati. Negli USA, per esempio, l’uscita del suo ultimo libro – 1Q84, il romanzo di cui parlerò in questo articolo – è stata reclamizzata da un patinato book trailer[1].

Non meno significativo è il fatto che “Play Store”, il negozio virtuale di Google attraverso cui si comprano brani musicali, libri e applicazioni da scaricare sugli smartphone, abbia “consigliato” per mesi l’acquisto di 1Q84 in formato e-book. Ora, certamente questo non fa automaticamente di Murakami un autore di consumo; basti pensare che, più o meno nello stesso periodo, “Play Store” invitava i suoi utenti italiani a comprare anche Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi: un libro di cui si è parlato molto, specialmente dopo l’assegnazione del Premio Strega 2012, ma che in nessun modo può essere considerato ‘letteratura di genere’ e difficilmente può incontrare il favore di un pubblico di massa. Ad accomunare i due libri, diversissimi da ogni punto di vista, è stata la provvisoria appartenenza di entrambi alla categoria del must-have book, del libro – di quel libro di cui, a un certo punto, si sente parlare – come oggetto di moda, come status symbol sociale (cioè, socializzante) prima che intellettuale.

2. Da cosa dipende la fortuna di Murakami? Direi che uno dei fattori è questo: il Giappone in cui sono ambientate le sue narrazioni non esiste. Non esiste, nel senso che non è il Giappone, ma un paese possibile, chiamato con quel nome. Potremmo dire – adattando le osservazioni di Roland Barthes sui simboli della cultura nipponica (L’empire des signes, 1970) – che il Giappone di Murakami è un “sistema” composto da un insieme di tratti realistici (in certi casi, di un realismo immediato: penso alla presenza di marchi commerciali e simboli pubblicitari, su cui tornerò) prelevati da un contesto di realtà e organizzati in funzione di un ambiente alternativo, con forti tinte fantastiche o mitiche. Il termine ‘unrealism’, usato da Charles Baxter nella recensione a 1Q84 apparsa sulla “New York Review of Books”[2] (Behind Murakami’s Mirror, in 8 dicembre 2011), esprime piuttosto bene il procedimento di selezione e ricombinazione a cui lo scrittore giapponese sottopone gli elementi di realtà. All’inizio del romanzo, per esempio, viene citato un brano musicale, la Sinfonietta di Janáček[3], che in sé non ha niente di perturbante; sennonché, la protagonista si rende conto che quella musica le è inspiegabilmente familiare:

«Ma come ho fatto a capire subito che questo brano è la Sinfonietta di Janáček? – si chiese stupita Aomame. – E come mai so con certezza che è stato composto nel 1926?» Non era appassionata di musica classica. Né aveva alcun ricordo personale collegato a Janáček. Eppure, dal momento in cui aveva sentito l’attacco dell’orchestra, le si era subito affacciata alla mente, in modo automatico, una serie di informazioni. Come se dalla finestra aperta fosse entrato uno stormo di uccelli. Tuttavia quella musica le provocò anche una strana sensazione, simile a una torsione. Nessun dolore o altri sintomi spiacevoli. Ma era come se la sua struttura fisica fosse stata sottoposta a una manipolazione piuttosto invasiva. Aomame era sconcertata. «Com’è possibile che questa Sinfonietta provochi in me una reazione così assurda?» pensò.

Lo scivolamento del segno da una dimensione per così dire diurna a una più onirica è un fenomeno talvolta latente ma comunque percepibile anche nelle opere di Murakami in cui, diversamente da 1Q84, non c’è la componente del meraviglioso (è il caso di Tokyo Blues-Norwegian Wood, uno dei suoi romanzi più famosi, pubblicato nel 1987). Il massimo grado d’intensità, tuttavia, era stato raggiunto prima in L’uccello che girava le viti del mondo (1995); poi in Kafka sulla spiaggia (2002), il cui plot si dirama proprio intorno all’alterazione surreale di un segno, il marchio di whisky “Johnnie Walker”; infine in 1Q84, opera monstrum per dimensioni (tre libri, che nell’edizione italiana superano complessivamente le mille pagine), pubblicata tra il 2009 e il 2010, presto tradotta in molte lingue (in Italia, da uno specialista come Giorgio Amitrano, già autore del saggio The new Japanese novel: popular culture and literary tradition in the work of Murakami Haruki and Yoshimoto Banana, pubblicato dall’Istituto italiano di cultura, Scuola di studi sull’Asia Orientale di Kyoto nel 1996; per una specifica riflessione di Amitrano sui problemi della resa di 1Q84, si veda inoltre Il compito del traduttore. Murakami in italiano[4]).

3. La storia di 1Q84 ruota intorno a due personaggi, la trentenne Aomane, killer professionista, che uccide uomini responsabili di violenze contro le donne usando uno strumento acuminato simile a un sottile rompighiaccio; e Tengo, coetaneo di Aomane nonché suo ex compagno di scuola, che fa l’insegnante di matematica ma si dedica anche alla scrittura. L’editore Komatsu, amico di Tengo, lo ha incaricato dell’editing sul romanzo di una giovanissima autrice, Fukaeri, intitolato La crisalide d’aria; il libro parla di misteriose creature, i “Little People”, e rivelerà a poco a poco un legame con la vicenda della stessa Fukaeri. La ragazza è figlia di Tamotsu Fukada, Leader di una setta chiamata ‘Sakigake’, al cui interno si sono verificati casi di violenza sessuale di cui è accusato lo stesso Leader. È per questa ragione che ad Aomane verrà chiesto di assassinare Fukada; a commissionare l’omicidio sarà la ricca vedova Shizue Ogata, che dà protezione a donne vittime di maltrattamenti, tra cui anche la piccola Tsubasa, violentata dal Leader. Dal corpo di Tsubasa si liberano inspiegabilmente esseri minuscoli, quei “Little People” di cui parla La crisalide d’aria.

All’inizio del romanzo, Aomane si trova su un taxi che la sta portando all’hotel dove la attende una delle sue vittime, un ricco industriale del petrolio; il conducente del taxi, bloccato sulla tangenziale da un ingorgo, suggerisce ad Aomane di scendere e prendere una scala di emergenza che la porterà alla metropolitana. Da quel momento, trascinata dalle note della Sinfonietta di Janáček ascoltata alla radio del taxi, Aomane entra in una sorta di dimensione parallela, che chiama ‘1Q84’ (deformando la cifra dell’anno in cui è ambientata la storia, il 1984). Anche Tengo s’inoltrerà in un mondo parallelo, Il paese dei gatti (come il titolo di un libro che l’uomo legge al padre malato), prendendo a poco a poco coscienza del proprio desiderio nei confronti di Aomane, il cui ricordo non l’aveva mai abbandonato dagli anni dell’infanzia. I due protagonisti s’incontreranno solo alla fine della storia, ma durante tutto il romanzo restano legati da un filo invisibile, che attraversa anche altri personaggi; uno di questi, Fukaeri, sarà una sorta di medium tra i mondi e addirittura tra i corpi di Tengo e Aomane. Una notte Fukaeri, in stato di trance, fa l’amore con Tengo; più tardi Aomane, senza capire o ricordare come, scoprirà di aspettare un figlio misteriosamente concepito proprio quella notte.

4. In 1Q84, la dislocazione del segno da un contesto di partenza (dire ‘normale’ non avrebbe senso, in questo caso) a un contesto di arrivo, che ne altera e ricombina le funzioni, diventa tema e principio dell’invenzione. Non solo perché i personaggi migrano senza accorgersene da un mondo a un altro (da un ‘Giappone’ di partenza a un universo secondo e parallelo, che del primo condivide alcuni tratti, mescolandoli ad altri nuovi e spaesanti); ma soprattutto perché uno degli spunti creativi dell’opera consiste in un trasferimento: il titolo allude infatti a quello del capolavoro di George Orwell, 1984, e lo ricalcherebbe carattere per carattere se non fosse per un’unica sfasatura: la ‘Q’ al posto del ‘9’ (da notare che in giapponese la pronuncia del numero ‘9’, kyu, è pressoché identica alla pronuncia della ‘Q’ in inglese). La ‘Q’ è l’iniziale della parola question, ‘domanda’, e la sua presenza nel titolo sembra già richiamare l’enigmaticità del contenuto. Inoltre, la forma della lettera è quasi come quella della cifra ‘9’ riflessa in uno specchio: una specularità simile a quella esistente tra l’anno in cui è ambientato il romanzo di Orwell e quello in cui l’opera venne scritta, il 1948.

Questo meccanismo di sostituzione e inversione da un lato corrisponde al sistema interno alla narrazione, costruita intorno a parallelismi, sdoppiamenti e, appunto, rispecchiamenti; dall’altro può essere interpretata come un correlativo del rapporto di emulazione straniante che lega il romanzo di Murakami a quello di Orwell. Non si può parlare di ‘adattamento’ in senso proprio (anche se il fenomeno, per sua natura metamorfico, sfugge alla cattura di una definizione teorica definitiva), dal momento che non si tratta di una transcodificazione ma della ricerca e della valorizzazione di un’affinità. Il nesso tra 1984 a 1Q84, infatti, non è istituito attraverso alcuno dei procedimenti illustrati da Linda Hutcheon in A Theory of Adaptation (2006): «cambio di medium (per esempio una poesia volta in film) o di genere (un poema epico in romanzo)», del punto di vista (tale da determinare un’interpretazione diversa della medesima storia) o dello «status ontologico» di un racconto da reale a finzionale. (Per contro, la tradizione dei veri e propri adattamenti letterari, cinematografici, televisivi di 1984 è tale da aver meritato una voce apposita nell’edizione in francese di Wikipedia).

Le opere di Orwell e Murakami non sono dunque l’una adattamento dell’altra; appartengono entrambe al genere ‘romanzo’ e sviluppano entrambe una trama distopica: proiettata nel futuro, nel caso di Orwell; ambientata in un vicino passato, per Murakami. Intorno a questi due nuclei di somiglianza – il tempo e la distopia – si coagulano le altre principali, e in verità un po’ generiche, analogie tra i romanzi: l’avvio del tempo della storia, in entrambi i casi collocato nel mese di aprile; la lontananza e il desiderio tra i protagonisti, un uomo e una donna, che si scontrano con un’autorità occulta; il valore positivo – di resistenza verso quell’autorità e di rivelazione – riconosciuto alla parola e più precisamente alla scrittura, anzi a un libro (1Q84 è, tra le altre cose, anche un’allegoria dell’invenzione letteraria come ri-creazione di mondi in cui l’individuo possa affermare la propria identità oltre le convenzioni): sia Tengo, sia Winston Smith – il protagonista del romanzo orwelliano – hanno il compito di correggere libri scritti da altri; e, pur nella diversità del quadro ideologico e degli esiti narrativi, le vite di entrambi hanno una svolta drammatica a causa di un libro: La crisalide d’aria per Tengo, Teoria e prassi del collettivismo oligarchico per Smith.

5. Quale funzione attribuire a una macchina allusiva tanto complessa, ma che non sembra trovare davvero nel modello il suo principale mezzo di propulsione simbolica e narrativa? Quale credito dare all’invenzione? E soprattutto: vale la pena credere in Murakami? Fin qui le reazioni della critica di fronte a domande del genere sono state opposte e radicali. Negli Stati Uniti, e in altri paesi, alcuni recensori hanno sottolineato l’erraticità della trama e una sorta di involuzione manieristica di 1Q84 rispetto ai libri precedenti (una rassegna stampa internazionale piuttosto ampia, che tiene conto di testate statunitensi, australiane, giapponesi, coreane, britanniche, tedesche e di altri paesi europei si trova qui: http://www.complete-review.com/reviews/murakamih/1Q84.htm).

In Italia, “La Lettura” del “Corriere della Sera” (11 dicembre 2011) ha ospitato e messo a confronto le impressioni divergenti di due lettori di generazioni diverse: Franco Cordelli e Tommaso Pincio. Per Cordelli, Murakami è uno scrittore furbo: la furbizia consiste nel saper intercettare i gusti midcult di un pubblico globalizzato (“dall’ammirazione e dall’interesse si passa a un senso di saturazione e infine all’odio per uno degli scrittori più furbi dei nostri anni”). Per Pincio, al contrario, 1Q84 è un “romanzo che rimane appiccicato all’anima”, proprio perché “è libero e sincero”.

Chi ha ragione? Probabilmente nessuno dei due, se ci limitiamo a porre la questione nei termini assiologici di odiata furbizia e amata sincerità. 1Q84 è un ‘romanzo mondo’, nel senso che Vittorio Coletti, parlando di altri autori, ha dato alla formula nel suo recente saggio dedicato alla Letteratura nel villaggio globale (2011): ‘romanzi mondo’ sarebbero quelli “ricevibili da tutte le culture”, o addirittura “programmati per un lettore mondiale”. Ora, il criterio della ricevibilità sta proprio all’incrocio tra furbizia (perché richiede un alto grado di costruzione e di conoscenza delle tecniche di coinvolgimento del lettore) e sincerità (intesa come autentico desiderio di narrazione), superandole entrambe. Il sospetto è che dietro al pregiudizio d’inautenticità che investe l’opera di Murakami ci sia soprattutto una pretesa di autenticità che confina con l’orientalismo. Quello che i critici spesso osservano e volentieri stigmatizzano nei romanzi maggiori di Murakami come 1Q84 e Kafka sulla spiaggia, è infatti l’invadenza dei riferimenti alla cultura occidentale: quella ‘alta’ rappresentata dai nomi di scrittori, filosofi, musicisti frequentemente citati; e quella ‘popolare’, espressa attraverso i marchi e le insegne commerciali che, come accennavo, punteggiano l’orizzonte consuetudinario dei personaggi. Quei riferimenti – è vero – sono a volte ostinati e possono inceppare lo scorrimento della trama (quasi come accade nei romanzi di genere, che peccano di eccessi didascalici). Ma la questione riguarderebbe più la tecnica che l’ideologia; il vero obiettivo dei detrattori, invece, è proprio l’ideologia: troppa condiscendenza verso i simboli dell’occidente, utilizzati come ammiccamenti per sedurre il pubblico americano o europeo (in questo senso, anche l’allusione a Orwell nell’ultimo romanzo sarebbe una specie di specchietto per le allodole: una furbata, direbbe Cordelli); troppa tolleranza – ingenua o strumentale – per le dimensioni middle- e low-brow, non filtrate dal double coding postmoderno, né infiammate dal corrosivo effetto di attrito con cui altri autori maneggiano i simboli della società di massa. Ma si può rimproverare a Murakami di non essere Bret Easton Ellis, per esempio?

Questo è il genere di obiezioni che spesso vengono mosse all’opera di Murakami, specialmente in Italia – perché nelle critiche dei recensori americani prevale semmai la perplessità nei riguardi di una struttura narrativa indebolita dal suo stesso gigantismo. Beninteso: sono obiezioni che contengono una parte di verità. Innanzitutto, la trama del romanzo può in effetti apparire dispersiva e non dare sempre l’idea di essere sorretta da un piano di sviluppo preordinato (lo stesso autore ha confessato di aver inizialmente previsto una conclusione della storia alla fine del libro secondo, e di aver deciso solo in seguito di aggiungere un’altra parte).

C’è poi la questione della ‘complicità’ con gli scenari consumistici della società urbana. Di recente, Francesco Ghelli (già autore, nel 2005, di un saggio su Letteratura e pubblicità uscito da Carocci) ha spiegato la presenza della dimensione pubblicitaria nella letteratura postmoderna come conseguenza di una “formazione di compromesso con l’atteggiamento opposto e più ufficiale di critica e condanna”, attraverso cui quella letteratura sfiderebbe “proprio le convinzioni diffuse fra il suo pubblico” (Letteratura, pubblicità e ritorno del represso, intervento presentato al convegno “Figure del desiderio”, Pisa, 13-15 dicembre 2012)[5]. Se è così, Murakami sfuggirebbe completamente a una simile logica (distanziandosi, perciò, anche dal postmodernismo letterario?), sia perché la sua rappresentazione del panorama socio-simbolico contemporaneo è tratteggiata “con completa naturalezza e con semplicità minuziosa” (così Toshio Miyake nella scheda sull’autore compresa in Letteratura giapponese. II. Dalla fine dell’Ottocento all’inizio del terzo millennio, a cura di Luisa Bienati, Torino, Einaudi, 2005); sia perché i riferimenti mediatici, i marchi, gli oggetti di consumo sono investiti di una carica e di un valore simbolico che li rendono dei ‘feticci’ (nel senso positivo, creativo, autonomo dalle connotazioni più negative che il concetto ha in psicanalisi, attribuito loro da Massimo Fusillo nel suo Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Bologna, il Mulino, 2012). A quei feticci, infatti, Murakami concede la funzione di oggetto-mediatore, o di occasione epifanica che muove la trama e introduce i personaggi in un varco tra i livelli dell’esperienza. “Si tratta – scrive ancora Toshio Miyake – di una ricostruzione iperrealistica e al contempo metaforica degli oggetti comuni, i quali possono fare da surrogati dell’esperienza reale, fino a diventare in alcuni casi delle aperture per una dimensione ‘altra’”. La critica negativa sull’invadenza dei marchi consumistici va dunque disinnescata, salvando la constatazione del fenomeno, per farne tuttavia uno strumento di analisi e di comprensione, senza il quale il giudizio – di qualsiasi segno – resta puramente idiosincratico.

Un altro dei presunti limiti di Murakami riguarderebbe la sua rappresentazione artificiale del Giappone; in effetti, quello dei suoi romanzi è un mondo fortemente stilizzato – io stesso all’inizio dicevo che il suo Giappone, in un certo senso, non esiste. Questo però dipende da una scelta stilistica deliberata: la rarefazione del contesto e la valorizzazione del singolo segno, commerciale o culturale, sottopongono infatti la realtà a quella distorsione programmata – unrealism – che caratterizza e da cui ha origine la modalità narrativa adottata da Murakami. Il mondo in cui si muovono i suoi personaggi non è fatto per essere preso alla lettera, come potremmo essere tentati di fare in base a un concetto occidentale di realismo; lo sa bene Sam Anderson, che è andato in Giappone a intervistare Murakami per conto del “New York Times” (21 ottobre 2011) e ha raccontato ironicamente il suo spaesamento: “Under the influence of Murakami, I arrived in Tokyo expecting Barcelona or Paris or Berlin — a cosmopolitan world capital whose straight-talking citizens were fluent not only in English but also in all the nooks and crannies of Western culture: jazz, theater, literature, sitcoms, film noir, opera, rock ’n’ roll. But this, as really anyone else in the world could have told you, is not what Japan is like at all. Japan — real, actual, visitable Japan — turned out to be intensely, inflexibly, unapologetically Japanese”[6].

6. In generale, le critiche ai romanzi di Murakami mostrano due limiti: uno scarso investimento teorico-analitico e la pretesa di valutare il tasso di occidentalismo di Murakami ragionando con i criteri della cultura e della letteratura di arrivo – europea o americana che sia. Un limite, questo secondo, che implica a sua volta due difetti di prospettiva: l’astrazione di Murakami dal contesto della letteratura giapponese, dal quale discendono alcune premesse tematiche e strutturali dei suoi romanzi; e la diffidenza nei confronti di una letteratura sovranazionale, rispetto alla quale si misurano i risultati della sua narrativa.

Fermiamoci, per prima cosa, su questo doppio atteggiamento di astrazione e diffidenza. Categorie tradizionalmente valide, anche se un po’ abusate, per le letterature europee, americane o postcoloniali come ‘realismo magico’ (cfr. Matthew C. Strecher, Magical Realism and the Search for Identity in the Fiction of Murakami Haruki, in “Journal of Japanese Studies”, vol. 25, n. 2, summer 1999, pp. 263-298) e ‘fantascienza’ risultano insoddisfacenti per descrivere le costruzioni narrative dei romanzi di Murakami (l’invenzione di 1Q84, scrive giustamente Cecilia Bello Minciacchi, “non ha niente a che vedere con la fantascienza”: “Alias domenica”, 25 novembre 2012, p. 3). Questo anche perché tali costruzioni risentono di un retroterra letterario che non è europeo, né americano né propriamente postcoloniale, ma giapponese. È vero che Murakami ha più volte minimizzato l’influenza della letteratura nipponica sulla tecnica e l’invenzione della sua narrativa, preferendo indicare come punti di riferimento Stendhal e Dostoevskij, Capote e Fitzgerald, Vonnegut e Carver (assimilati anche attraverso le traduzioni dall’inglese che Murakami stesso ha compiuto per alcuni di quegli autori); deve essere vero anche, come sottolineano gli studi sull’autore, che la sua narrativa ha segnato una rottura degli assetti raggiunti nella letteratura giapponese del dopoguerra, in cui aveva resistito a lungo la separazione tra letteratura ‘alta’ o ‘pura’ (junbungaku) e letteratura ‘popolare’ (taishu bungaku): Chiyoko Kawakami, The Unfinished Cartography. Murakami Haruki and the Postmodern Cognitive Map (in “Monumenta Nipponica”, vol. 57, n. 3, 2002, pp. 309-337). Ma ciò non significa che Murakami debba essere considerato estraneo rispetto al contesto letterario del suo paese. Può essere più costruttivo ragionare in termini dialettici, considerando sì le differenze tra una generazione di scrittori fortemente occidentalizzata come quella cui appartiene Murakami e la letteratura giapponese dei decenni precedenti; ma riflettendo anche sui punti di contatto. Per esempio, i temi della doppia identità e della metamorfosi, anche riferiti simbolicamente al dualismo tra oriente e occidente, sono centrali nell’opera di un predecessore di Murakami, lo scrittore giapponese Tanizaki Jun’ichiro (1886-1965). E che dire del fatto che già l’opera più ambiziosa di Mishima Yukio, la tetralogia intitolata Il mare della fertilità, è strutturalmente impostata su incroci e distorsioni di piani temporali? E del fatto che Murakami e gli scrittori suoi coetanei hanno appreso la passione per i simboli merceologici, più che da generici modelli americani, dal loro più vicino ‘maestro’: Tanaka Yasuo, che nel 1981 pubblicò un romanzo, Quasi simile a cristallo, divenuto immediatamente libro di culto tra i giovani giapponesi? Uno dei più autorevoli scrittori nipponici contemporanei, Oe Kenzaburo, ha giudicato severamente gli esordi di Murakami Haruki, avvenuti all’insegna del romanzo generazionale alla Tanaka: ma questo non esclude, anzi conferma che la sua narrativa entra in relazione con le fratture e le contraddizioni del Giappone contemporaneo. Se Murakami è uno scrittore ‘costruito’ (e magari anche furbo), lo è perché è ‘costruita’ la cultura da cui proviene: in tal senso, forse, l’uno riflette l’altra in modo più autentico di quanto non vorremmo ammettere dalla nostra prospettiva.

7. La dialettica tra elementi autoctoni e riferimenti importati ha facilitato l’accesso di Murakami alla pratica di una letteratura sovranazionale, che non può essere valutata solo in termini eurocentrici come accadeva per la Weltliteratur ottocentesca. Murakami fa parte di una schiera di autori di successo che, pur provenendo da una nazione asiatica, hanno frequentato lingue, culture e letterature euro-americane, introiettandone temi e valori non come forma di rinnegamento ma di integrazione rispetto alla cultura d’origine (o di sostegno nel contrasto alle derive politico-ideologiche di quelle culture: su questi aspetti, rimando a quanto ho già scritto in un contributo intitolato Leggere i Classici in Oriente. Il mito della letteratura occidentale in Dai Sijie, Murakami Haruki, Azar Nafisi, apparso in Between, vol. I, n. 2: “Oriente e Occidente. Temi, generi e immagini dentro e fuori l’Europa”)[7]. L’assorbimento e la restituzione, magari invadente, di tratti culturali europei o nordamericani non sono soltanto strategie di marketing, ma fanno parte dell’identità sincretica di un autore che possiamo amare o detestare, ma non rimuovere da un canone globale medio in cui Murakami occupa un posto di rilievo.

‘Canone globale (o ‘planetario’, termine che per Spivak non avrebbe le connotazioni negative dell’altro) medio’ è una sequenza di parole intimamente contraddittoria: un canone, per definizione, è sempre selettivo e identitario: dovrebbe contribuire, cioè, alla determinazione dei valori in cui una comunità, in un periodo di tempo, si riconosce. Come può allora essere ‘planetario’, negando con ciò l’appartenenza e la validità per uno specifico gruppo? E come può essere ‘medio’, quando dovrebbe invece rappresentare e proporre a modello i vertici di una cultura?

Il punto è forse questo: cioè che, accanto ai singoli canoni letterari nazionali (non solo quelli storici e fissi, ma anche quelli più mobili in cui rientrano – magari per un tempo più limitato – autori immediatamente contemporanei), ne esiste uno sovra- o meta-nazionale, formatosi con il contributo dell’industria editoriale (che è, nonostante tutto, un soggetto culturale e svolge un’opera di mediazione intellettuale: l’édition sans éditeur, denunciata da André Schiffrin, è una condizione ormai da ripensare, specialmente nel confronto con un paradigma ‘planetario’). In questo senso, davvero il Giappone, inteso come spazio culturale chiuso entro dei confini nazionali, non esiste. Come non esistono, nella medesima prospettiva, gli Stati Uniti, la Francia o il Cile.

Questa specie di super- o meta-canone, forse provvisorio ma condiviso, accoglie, nella stessa ‘famiglia’ di Murakami, grandi scrittori (David Forster Wallace), ottimi scrittori (per esempio Franzen), buoni scrittori che hanno meritato il rilancio postumo (Bolaño), scrittori che hanno infiammato una stagione, lasciando una scia che però ora va assottigliandosi di anno in anno (Littell). Un’accoglienza che non dipende da elementi intrinseci alle opere quali lo stile, la lingua, la struttura: come ha osservato Guido Mazzoni alla fine della sua Teoria del romanzo (Bologna, il Mulino, 2012), la narrativa contemporanea procede ormai al di fuori della dinamica modernista dell’innovazione e della sperimentazione tecnica. Né dipende, prioritariamente, dal giudizio di valore (per questo ho parlato di un canone medio); non perché un giudizio e una gerarchia – io stesso ho appena provato a delinearne una, del tutto soggettiva – non siano utili, ma perché l’attenzione critica e la legittimazione diffusa hanno seguito, non preceduto l’affermazione editoriale.

8. Accennavo anche a un altro limite nelle critiche rivolte a Murakami, vale a dire un difetto di teoria. Il riferimento a un quadro teorico può invece aiutare sia a spiegare elementi interni alle opere, sia a collocarle rispetto alle linee di sviluppo della letteratura contemporanea. Strecher e altri (per esempio Maria Flutsch, Girls and the unconscious in Murakami Haruki’s Kafka on the Shore, «Japanese Studies», Volume 26, Issue 1 May 2006, pp. 69- 79) hanno mostrato l’efficacia di una lettura delle opere di Murakami, o di alcuni suoi temi privilegiati, in chiave psicanalitica, e specificamente lacaniana. Proprio da quest’ambito, cioè dal campo delle applicazioni recenti della teoria di Lacan, possono venire ulteriori spunti per interpretare un romanzo come 1Q84 e farlo reagire con alcune dinamiche sociali, psicologiche ed etiche della contemporaneità. Mi riferisco, in particolare, ai saggi sull’epoca cosiddetta ‘ipermoderna’ di Massimo Recalcati e soprattutto al suo Cosa resta del padre? (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2011). Sviluppando la teoria lacaniana del Nome-del-Padre, Recalcati delinea e propone una figura paterna che non coincide con un ideale normativo, bensì con un resto, privato della funzione teologica e ideologica, ma investito di una responsabilità di natura etica: fornire una testimonianza – cioè una soluzione possibile, valida singolarmente e non in assoluto – per far nascere un’alleanza tra Legge e desiderio. Non entro nel merito della proposta di Recalcati, dei suoi risvolti etici, della sua applicabilità in termini sociali, del suo grado di fedeltà a Lacan. Credo però che il modello di paternità elaborato in Cosa resta del padre? possa offrire un’occasione ermeneutica utile per la lettura di 1Q84; dalla complessità della trama, riconsiderata alla luce di un confronto tra padri che incarnano istanze diverse, emergerebbe una linea di senso marcata. Se il padre di Tengo è una figura sottratta alla dimensione del desiderio (tanto che, come ho già ricordato, la scena primaria impressa nella memoria del figlio include al suo posto un altro soggetto maschile), l’altro padre dominante nel romanzo, il Leader, si colloca sul versante di un desiderio senza controllo, che si ripete uguale a se stesso, fagocitando la connotazione paterna. Il Leader incarna infatti un’immagine paterna compromessa dalla sua stessa onnipotenza autoritaria. Recalcati mette in connessione la crisi sociale della figura paterna con l’affermazione di un modello patologico compensativo, che produrrebbe forme di dispotismo e fondamentalismo; il nesso, anche in questo caso, può essere fatto reagire con i temi del romanzo, in particolare con il motivo della setta (da mettere in probabile collegamento, a sua volta, con la cronaca del Giappone contemporaneo: penso a un evento come l’attentato alla metropolitana di Tokyo del 1995, a cui Murakami ha dedicato anche un “racconto a più voci” intitolato Underground).

In 1Q84, l’unica via per spezzare la catena del godimento mortale è il sacrificio del Leader, che acconsente alla propria esecuzione, e anzi l’attende e la desidera, permettendo ad Aomane di giustiziarlo; il sacrificio ha come contropartita l’incolumità di Tengo, cui spetta, nel finale, il compito di trasmettere una testimonianza paterna grazie all’incontro con Aomane e al figlio generato insieme a lei. Nel mondo che può accogliere la loro unione, anche il marchio, il brand viene sottratto all’“astuzia fondamentale del discorso capitalista” (ancora Recalcati) e riempito di un valore autenticamente salvifico, non falsamente salvifico come vuole la logica del consumo inesauribile (e come sembra credere una parte dei critici di Murakami): «“Metti un tigre nel motore”, diceva la tigre della Esso, offrendole il profilo sinistro. Ma non era una questione di profili, andava bene lo stesso. Il sorriso spontaneo e caloroso della tigre si rivolgeva davanti a lei. – “Crederò a quel sorriso” si disse Aomame. – È importante».

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