Shklar, Judith N., I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte? + Cicerone post – Hamlet (1948 film)

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Shklar, Judith N., I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte?

Quando una disgrazia è il prodotto della sfortuna e quando, invece, è il frutto di un’ingiustizia perpetrata ai danni di una o più vittime? La risposta parrebbe scontata, esordisce nel suo saggio Judith N. Shklar (1928-1992), docente di Scienze politiche all’Università di Harvard. Ma non lo è affatto, ed il porsi il problema rappresenta il primo passo verso una ridefinizione del senso della legge e delle norme etiche che tenga conto del vissuto personale di chi ha subìto un atto ingiusto o, quantomeno, ritenuto tale. Già, perché i filosofi e i giuristi che nel corso dei secoli si sono misurati con il significato del termine Giustizia hanno sempre lasciato ai margini della loro riflessione la negazione di questo stesso concetto, astraendo dall’elaborazione soggettiva della vittima, dalle conseguenze sociali in cui trovano espressione il suo dolore e il suo risentimento e anche dal rifiuto di prevenire ed eventualmente mitigare gli effetti della calamità.

E’ questa lacuna che l’autrice si propone di colmare, e lo fa partendo non dalle moderne teorie del diritto (Nozick o Rawls), bensì dal pensiero classico di Platone, Aristotele ed Agostino per approdare al confronto con i dubbi di Voltaire, Rousseau e Kant: tre voci illustri che, fra l’altro, cercarono una risposta al disastro provocato dal terremoto di Lisbona del 1755; fatto che l’autrice ritiene di privilegiare fra quelli che hanno segnato la nascita dell’età moderna perché “è stata l’ultima volta che i piani di Dio sull’uomo sono stati oggetto di un dibattito pubblico generale in cui si sono impegnate le menti più notevoli del tempo” e “l’ultima significativa protesta contro l’ingiustizia divina, che di lì a poco sarebbe diventata intellettualmente irrilevante” (p. 65).

La tesi di partenza del testo, che raccoglie una serie di lezioni tenute nel 1988 alla Yale Law School, è che non è possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra sventura e ingiustizia e che, in ogni caso, un simile tentativo è ancorato ad una precisa scelta politica. Shklar considera l’alternativa più ovvia: “Se a causare l’evento infausto sono le forze esterne della natura, esso è il prodotto della sfortuna e noi non possiamo fare altro che rassegnarci al nostro dolore; se, al contrario, a causare l’evento è qualche agente male intenzionato, umano o soprannaturale, allora si tratta di un’ingiustizia a cui possiamo reagire in modo indignato e risentito”. Subito dopo aggiunge: “Ma questa distinzione, alla quale noi ci aggrappiamo con tanta forza, sovente nell’esperienza reale sembra perdere consistenza. Le ragioni di ciò risulteranno abbastanza chiare ove si pensi che spesso dipende dal livello dello sviluppo tecnologico, dall’ideologia o dall’interpretazione che certe cose siano considerate controllabili e sociali, e altre inevitabili e naturali. Al riguardo, la percezione delle vittime e quella di coloro che, sia pure remotamente, possono essere causa di sciagura, tendono a essere molto diverse. Né i fatti né il loro significato saranno vissuti nello stesso modo dalle vittime, dai puri e semplici spettatori e da coloro che avrebbero potuto scongiurare o mitigare la sofferenza. Si tratta di persone troppo diverse tra loro per vedere le cose allo stesso modo” (p. 9).

Il punto è che la maggior parte delle persone stenta ad accettare l’idea che il mondo in cui viviamo non sia totalmente determinato o che, per dirla con Leibniz, non sia il migliore dei mondi possibili (e quindi che anche ciò che accade di negativo abbia una sua ragion d’essere nell’economia generale della Creazione). Il caso spaventa con il suo minaccioso quoziente di imprevedibilità, perciò gli uomini tendono ad individuare quasi immediatamente un responsabile delle proprie disgrazie, qualcuno a cui si possa imputare il peso delle circostanze semplicemente sfavorevoli o addirittura nefaste loro occorse: “Un mondo arbitrario e casuale è difficile da sopportare, sicché si preferirà incominciare a guardarsi attorno, alla ricerca di qualche agente umano responsabile della cosa. Né ci vorrà molto per individuarlo, poiché di persone che hanno contribuito al verificarsi della catastrofe o a renderne più gravi le conseguenze ce ne saranno inevitabilmente molte” (p. 10). Spesso gli edifici crollano perché le imprese hanno violato le norme edilizie e corrotto i responsabili del collaudo; le autorità statali non sempre predispongono tutti i mezzi necessari per far fronte all’emergenza in maniera efficace e allora – ci si chiede – dove finiscono i soldi versati in tasse dai contribuenti? Non si tarderà a trovare una risposta plausibile (magari il Governo ha investito in qualche dispendioso programma scientifico o culturale che non è destinato ad arrecare alcun beneficio): magra consolazione, si dirà, ma sempre meglio che dover cedere alla desolante sensazione di essere colpiti dalla mala sorte, senza alcuna apparente giustificazione umana o divina che sia. Soprattutto, lo scenario ci permetterà di muoverci affinché il soggetto che ha causato il danno venga punito e sorreggerà adeguatamente l’idea del risarcimento, ovvero la pretesa che alla fine sia fatta giustizia, ricomponendo così un’armonia universale che rischiava di andare irrimediabilmente perduta.

Naturalmente, il problema è molto più complesso di quanto possa sembrare dopo una prima veloce disamina. Nel capitolo 1 (L’ingiustizia vuole la sua parte), Shklar affronta la questione della carenza di una trattazione sistematica nelle opere di filosofia morale o di filosofia politica dell’ingiustizia, la quale viene per lo più interpretata come l’assenza di giustizia. Una convinzione che non rende affatto giustizia, si perdoni il gioco di parole, del senso di perdita delle vittime, della stessa possibilità di una loro corretta identificazione e del rapporto tra ingiustizia privata e ordine pubblico. Le teorie dominanti della giustizia sono raggruppate nel cosiddetto modello normale. Esso sostiene che “ogni società politica è governata da norme: le più elementari di esse enunciano lo status e i diritti dei membri dell’assetto statale. Si tratta della giustizia distributiva, e le regole che essa propone sono giuste se corrispondono ai più fondamentali convincimenti etici della società” (p. 27). Ne discende che si può parlare di vittime dell’ingiustizia solo quando le rimostranze hanno fondamento nelle proibizioni sancite dalla norma; diversamente saremo di fronte ad una reazione soggettiva della vittima, cioè ad una congiuntura sfortunata, non ad una vera ingiustizia. (p. 28). L’autrice critica a più riprese questo modello codificato da Aristotele (che “pur senza ignorare l’ingiustizia, tende a ridurla a preludio o a rifiuto e naufragio della giustizia, quasi che l’ingiustizia fosse una curiosa anomalia”) e dichiara: “Quel che io propongo di mettere in discussione è non già il principio di legalità, bensì la compiacente visione dell’ingiustizia propria del modello normale e la sua fiducia nella capacità delle istituzioni che sostiene di avere la meglio sull’iniquità”. Del resto il paradigma era già stato sottoposto a dubbio dagli scettici, i quali “non sono certi che il modello normale offra una visione adeguatamente articolata e seria dell’ingiustizia in quanto esperienza personale e politica, nonché quale componente di tutte le società che la storia ricordi” (p. 29) e bollato anticipatamente da Platone come espressione di profonda ignoranza, uno scherzo infelice che, lungi dal modificare le persone ingiuste, si limita a suffragare le loro abitudini; per il filosofo della Repubblica e delle Leggi, l’ingiustizia è, innanzitutto, un problema cognitivo (e non un semplice prodotto dell’avidità umana, come sostiene lo Stagirita), e “la nostra incapacità di sapere tutto e di capire che cosa sia una società razionale nella totalità dei suoi aspetti e delle sue relazioni ci rende incapaci di istituire un ordine giusto” (p. 34).

Ad accrescere l’iniquità, poi, non è solo la quotidiana violazione delle norme giuridiche: fanno la loro parte anche gli individui che assistono passivamente al compiersi delle ingiustizie (ed è uno dei difetti del modello normale il non tenerne affatto conto), ignorandone le vittime reali o potenziali. Cicerone, il giurista romano maestro delle distinzioni, ha illuminato con grande efficacia l’universale prevalenza dell’ingiustizia passiva e ci ricorda che astenersi dall’intervenire non è un episodio neutro sotto il profilo dell’ethos, ma si traduce in un contributo concreto al proliferare delle ingiustizie. Ad affliggere le persone non è sempre la sfortuna: amministratori e cittadini, se hanno a cuore il mantenimento di standard elevati di correttezza ed efficienza dei servizi pubblici, possono fare molto per alleviare e impedire atti d’ingiustizia.

Nel capitolo 2, Shklar si sofferma a lungo sulla differenza tra sventura e ingiustizia, rimarcando che l’opportunità di tracciare un confine netto tra le due “può anche riuscire dannosa, in quanto induce spesso a fare troppo o troppo poco” (p. 69). Va da sé che troppe volte le condizioni svantaggiate, in cui sono inclusi il nascere con la pelle nera e l’essere di sesso femminile, sono state effetto di sfortuna (gli ebrei ortodossi ringraziano Dio ogni giorno nelle loro preghiere per non averli fatti nascere donna). Si deduce che il terreno d’indagine va cercato in altra direzione e che, anzi, per risultare proficuo dovrebbe tralasciare simili tentativi. Anche perché, oltre a non condurre a nessun esito positivo, non può prescindere dalla questione fondamentale, che viene così riassunta: “Il fatto che un evento sia opera della natura o di un’invisibile mano sociale non ci esime affatto dalla responsabilità di riparare al danno e, nei limiti del possibile, di prevenirne il ricorrere. […] La ricerca di responsabili tra gli uomini ha di fatto un’utilità limitata, o come preludio alla definizione del risarcimento spettante alle vittime o come possibile deterrente di imprudenze future. Quando ci troviamo al confine tra sventura e ingiustizia, dobbiamo fare il possibile per le vittime, senza stare a chiederci se il caso ricada nell’uno e nell’altro ambito” (p. 69). Questo non vuol dire che non si debba salvare la distinzione fra sventura e ingiustizia e che, per esempio, gli amministratori pubblici che non hanno fatto nulla per prevenire sciagure o incidenti né per attenuarne le conseguenze non vadano puniti, dato che la loro indifferenza e ignavia li ha resi passivamente ingiusti.

Quel che occorre, in realtà, è una dimensione nuova dell’ingiustizia. Nell’ultima sezione del libro (Il senso di ingiustizia) si chiarisce definitivamente qual è la posizione dell’autrice sull’argomento: per formulare una corretta teoria dell’ingiustizia bisogna assumere su di sé l’atteggiamento delle vittime, ascoltare il loro risentimento, lasciar risuonare la loro delusione nell’essere stati traditi o per aver visto negati i loro diritti, perché questa è la “voce del senso di ingiustizia” (p. 101). In quest’ottica l’ingiustizia diventa un’esperienza eminentemente politica e fa entrare in gioco il concetto di democrazia intesa, se non come antidoto, come “reazione adeguata alle carenze sociali non giustificate” (p. 102), come motore di una certa solidarietà morale che tende ad attenuare la gravità della condizione delle vittime. Resterebbe comunque da sciogliere il nodo principale, ossia fino a che punto l’ingiustizia è inevitabile e quando invece è legata al libero arbitrio dell’uomo, quando dobbiamo parlare di malasorte e quando ci dobbiamo rassegnare all’ingiustizia stessa. “Il mio intento – conclude Shklar – non era quello di tracciare una linea divisoria tra l’una e l’altra cosa; la tesi di questo libro, anzi, è che in generale o astrattamente tale linea non può essere tracciata. Ma, se non terremo pienamente conto del punto di vista della vittima e non daremo alla voce di quest’ultima tutto il peso che le spetta, le decisioni che prendiamo non potranno che essere ingiuste. Qualsiasi comportamento obbedisca a criteri meno elevati di questo è non solo iniquo, ma politicamente pericoloso. I cittadini democratici, pur non potendo prendere sempre le decisioni più tollerabili a causa della pervasività, della varietà e della resistenza dell’umana ingiustizia, hanno pur sempre le migliori opportunità di farlo” (p. 148).

Judith N.Shklar, nata in Lettonia nel 1928 e morta negli Stati Uniti nel 1992, è stata   docente di Scienze politiche presso l’Università di Harvard nonché presidente dell’American Political Science Association. Pensatrice originale e indipendente, schierata a favore delle minoranze povere, ha sviluppato una riflessione fortemente improntata all’impegno sociale. L’unico suo libro tradotto in italiano è Vizi comuni (Il Mulino. Bologna, 1988).

http://www.recensionifilosofiche.it/swirt/rawls/shklar.htm

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http://www.controappuntoblog.org/2012/12/10/vite-parallele-demostene-e-cicerone-plutarco-di-cheronea/

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