Una bellezza russa ed altri racconti , kafka , la boxe LUZHIN : V. Nabokov

Una bellezza russa e altri racconti – Johnstone Imaging

Una bellezza russa e altri racconti – Abifingroup

Com’è diversa dalla maliziosa Lolita la sua coetanea Nataša, con la camicetta bianca e la gonna beige costellata di bottoni su un fianco, mentre entra ed esce svolazzando dalla camera del padre malato, veglia sui suoi incubi notturni, corre in farmacia. Ma quanta voglia di evasione, abbandonandosi ai racconti esotici di Vol’f, quanta voglia di felicità nel suo sorriso malinconico. Nataša, con ogni probabilità il primo racconto scritto da Vladimir Nabokov, è pubblicato in esclusiva mondiale tradotto dal figlio Dmitri nel volume Una bellezza russa e altri racconti con cui Adelphi completa il progetto editoriale di proporre in italiano tutte le stories dell’autore.

Si tratta di cinquantacinque racconti di cui dieci scritti in inglese, uno scritto in francese, a Parigi, da cui Nabokov transitò diretto in America, e i rimanenti in russo, tra il 1920 e il 1940 a Berlino, che in quegli anni era diventata la capitale della diaspora russa. Sono racconti “scritti a matita”, per se stesso, per sua moglie, per una mezza dozzina di “cari amici defunti e ridacchianti”, senza “uno scopo”, che trovavano spazio in quotidiani émigrés come “Rul'” a Berlino o “Poslednie novosti” a Parigi, grazie a cui Nabokov arrotondava le proprie modeste entrate di precettore e maestro di tennis.
L’ambiente è tipico dell’emigrazione berlinese: alberghi, ristoranti, piccoli appartamenti in affitto, treni notturni, caffè deserti su cui immancabilmente scende il buio, mentre già “le sedie sbadigliano e vengono messe a dormire sui tavoli”. I personaggi sono flâneurs straordinariamente ricettivi, solitari, che si circondano di oggetti chiamati a raccolta dal tempo e dallo spazio: libri squinternati, ninnoli, barattolini di vetro, spessi album su cui incollano di tutto, “dai ritagli dei propri versi fino a un biglietto del tram, russo”. Non amano parlare della patria perduta, “così come persone ricche ma finite in rovina nascondono la loro miseria e diventano ancora più altere e inavvicinabili”. È una cerchia di persone “totalmente irreali”, separate dal mondo da una lastra di vetro, consapevoli di appartenere a una razza speciale di sognatori, come l’entomologo protagonista di L’aureliano, uno dei racconti più belli della raccolta: covano dentro di sé progetti che in gioventù potevano apparire deliziosamente eccitanti, ma che con il passare del tempo si trasformano in ossessioni cupe e iraconde. Formano una popolazione di espatriati, di eccentrici sradicati, il cui comportamento risente della natura provvisoria della loro cittadinanza: Aleksej L’vovič Lužin (cognome che ritroveremo in un altro futuro personaggio nabokoviano), cameriere nella carrozza ristorante di un treno tedesco, prende cocaina, non vede l’amata moglie da cinque anni e si suicida proprio sul treno su cui lei sta viaggiando; Lavrentij Ivanovič Kruževnicyn, Lik, gira la Francia con una compagnia teatrale in cui interpreta la parte di un russo in una commedia francese, è il prototipo dell’artista esiliato, condannato a vivere ai margini della vita.
Molti sognano di viaggiare, pur non abbandonando i sobborghi di Berlino, e costruiscono simbolici ponti immaginari fra la loro esistenza desolata e la visione della perfetta felicità. Una felicità commovente, lanciata come sfida nella Lettera che non raggiunse mai la Russia: “Mentre vago per le strade e le piazze e i sentieri accanto al canale, avvertendo distrattamente le labbra umide della stagione attraverso le suole consumate, porto con orgoglio la mia ineffabile felicità. I secoli trascorreranno e gli scolari sbadiglieranno sulla storia dei nostri sconvolgimenti; tutto passerà, ma la mia felicità, cara, la mia felicità rimarrà nel madido riflesso di un lampione, nel cauto svoltare dei gradini di pietra che scendono fin dentro le acque nere del canale, nei sorrisi di una coppia danzante, in tutto quello con cui Dio avvolge con tanta generosità la solitudine umana”.
La felicità è un tema che, in modo sorprendente, ricorre spesso nei racconti. “Sto così bene”, pensa Nataša e ride nel cuscino, mentre nella testa i pensieri sono come tiepide scintille che si spargono soavi all’intorno. Nel racconto In balia del caso la vecchia principessa Uchtomskij sa che “delle cose allegre si può parlare solo in modo allegro, senza crucciarsi perché non ci sono più”. Il protagonista di Dettagli di un tramonto dice a se stesso: “Come sono felice, come tutto intorno a me esalta la mia felicità”, mentre quello di Il temporale “si addormenta esausto per la felicità della giornata”. Vasilij Ivanovič di Reclutamento, vecchio e malato, abituato ormai a un vuoto plasmato a sua immagine, si domanda da dove venga questa felicità, “questa onda lunga di felicità che trasforma all’istante l’anima in qualche cosa di immenso, trasparente e prezioso”. Sorprendente è il fatto che venga da uno scrittore che ha recentemente perduto la patria, la propria fortuna e il padre, ucciso a Berlino quando Vladimir aveva ventidue anni. Ritroviamo la stessa percezione di felicità nei racconti degli anni successivi: il narratore di Ultima Thule, un frammento dell’ultima novella scritta in russo da Nabokov, rivela a un amico che “nei momenti di felicità, di estasi, quando la mia anima è nuda, sento improvvisamente che non ci si estingue al di là della tomba”. Il fascino di un possibile “aldilà”, la paura della morte, conseguenza dell'”instabilità della classe sociale” cui appartengono i personaggi, si intrecciano con la precisa anatomia del momento in cui la vita diventa morte. Quando Nina, la protagonista di Primavera a Fial’ta che ricorda la cechoviana dama con il cagnolino, si schianta con la sua auto gialla contro il camion di un circo itinerante, capiamo perché il pezzetto di carta argentata aveva luccicato in quel modo sul selciato, perché il bagliore di un vetro aveva tremato sulla tovaglia, perché il mare era tutto un luccichio: “Gradualmente, impercettibilmente, il bianco cielo sopra Fial’ta si era impregnato di sole, ne era tutto pervaso, e il bianco fulgore traboccante si dissolveva sempre più”.
Ogni racconto è una vertiginosa speculazione metafisica e una piccola storia poetica che si addentra nel labirinto dei ricordi, nutrita di riferimenti alla cultura letteraria russa. È sufficiente una fugace visione, una sensazione, un suono, il delicato, effimero chiaroscuro degli oggetti più insignificanti, le pietre sull’arenile, le more di un polveroso cespuglio, per far rivivere il passato, in una fusione di sogno e memoria. Memorabile resta l’immagine di Colette, il Primo amore di Nabokov, nato a Biarritz: i due si rivedranno a Parigi, alla fine delle vacanze, in un parco fulvo, sotto un freddo cielo azzurrino, che si dissolve in uno sbuffo di iridescenza simile alla “spirale arcobaleno di una biglia di vetro”.   Nadia Caprioglio

http://www.ibs.it/code/9788845922152/nabokov-vladimir/una-bellezza-russa.html

Kafka e Nabokov

Ragionando su “La Metamorfosi”, il famoso racconto di Franz Kafka, Vladimir Nabokov osservò che a giudicare dalla descrizione che viene fatta nel libro non si sta parlando di uno scarafaggio, ma di uno scarabeo sacro. La distinzione è importante: lo scarafaggio infatti non ha la metamorfosi completa, lo scarabeo invece sì. Lo scarabeo è un Coleottero: i coleotteri hanno il bruco come le farfalle. Lo scarafaggio è una Blatta (Blattoidei): appena nato è già molto simile all’adulto, e cresce un po’ alla volta limitandosi a cambiare pelle.

Al di là delle questioni entomologiche, che a qualcuno potranno sembrare noiose, il punto è questo: che, svegliandosi la mattina e trovandosi di punto in bianco cambiato in qualcosa di completamente diverso, Gregor Samsa non può essere uno scarafaggio: se fosse stato uno scarafaggio il cambiamento sarebbe stato graduale. E la seconda notazione è la più importante: come Scarabeo, Gregor poteva volare.
Vladimir Nabokov, da “Intransigenze” (ed. Adelphi), su Kafka, pag.117
– Quando ero suo allievo, lei non ha mai accennato ai paralleli omerici a proposito dell’Ulisse di Joyce. In compenso, nel presentare molti capolavori, ci forniva « informazioni speciali »: una carta di Dublino per l’Ulisse, la posizione delle strade e degli appartamenti per Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde, uno schema dell’interno di una carrozza dell’espresso Mosca-Pietroburgo per Anna Karenin, una piantina di casa Samsa e un disegno entomologico di Gregor per La metamorfosi. Potrebbe suggerire qualcosa di equivalente per i lettori dei suoi libri?
«Lo stesso Joyce si accorse ben presto, con sgomento, che l’insistenza su quei “parallelismi omerici”, sostanzialmente facili e grossolani, poteva solo distrarre l’attenzione dalla vera bellezza del suo libro. Non tardò ad abbandonare i pretenziosi titoli dei capitoli, che già cominciavano a “spiegare” il libro ai non-lettori. Nelle mie lezioni cercavo di fornire solo dati di fatto. Una mappa di tre tenute di campagna con un fiume serpeggiante e un’immagine della farfalla Parnassius mnemosyne in veste di amorino cartografico ornerà il risguardo della mia edizione riveduta di “Parla, memoria”.»
-Tra parentesi, recentemente un collega si è affacciato nel mio ufficio con la notizia sensazionale che Gregor non è uno scarafaggio (aveva letto un articolo in questo senso). Gli ho risposto che lo sapevo da dodici anni e ho tirato fuori i miei appunti per mostrargli un mio disegno risalente a quello che era stato, per un solo giorno, il corso « Entomologia 312 ». Insomma, che tipo di coleottero era Gregor?
«Era un coleottero tondeggiante, uno scarabeo munito di elitre; e né Gregor né il suo creatore hanno pensato che, mentre la cameriera rifaceva la camera e la finestra era aperta, l’insetto sarebbe potuto volar fuori e scappare per unirsi ai felici scarabei stercorari che rotolavano le palline di sterco sui viottoli di campagna.»
(Vladimir Nabokov su Kafka, intervista del 1954, dal volume “Intransigenze”, ed. Adelphi, pag.117)

Ho ripreso in mano il racconto di Kafka, e alcune cose non mi tornano. Il ragionamento di Nabokov è molto suggestivo e apre scenari inaspettati anche a chi conosce bene Kafka; ma nel racconto, oltre alla questione della metamorfosi (che è molto importante) non ho trovato una descrizione dettagliata e precisa dell’aspetto di Gregor. Il punto in cui più ci si avvicina a una descrizione completa è l’inizio, ormai leggendario:
Quando Gregor Samsa si risvegliò una mattina da sogni tormentosi si ritrovò nel suo letto trasformato in un insetto gigantesco. Giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco il capo poteva vedere la sua pancia convessa, color marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve; sulla cima la coperta, pronta a scivolar via, si reggeva appena. Le sue numerose zampe, pietosamente esili se paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi. «Che cosa mi è successo?», pensò. Non era un sogno (…)
(Franz Kafka, La metamorfosi – Die Verwandlung, 1915)
Più avanti, a metà della prima parte, si parla di “mandibole molto forti“ come sono sicuramente quelle degli scarabei (Coleotteri) che mangiano legno nei boschi, primo fra tutti il Cervo volante (insetti a metamorfosi completa); però poi più avanti viene detto che Gregor nelle sue nuove sembianze mangiava verdure e formaggi con preferenza per quelli un po’ andati a male, e questo rientra un po’ più nelle caratteristiche dello scarafaggio (Blattoidei, senza metamorfosi).
Un’altra cosa che viene detta con chiarezza è che l’insetto si arrampica sulle pareti e sul soffitto, formando sulla tappezzeria una “gigantesca macchia marrone” (verso la fine della seconda parte). Ad arrampicarsi sulle pareti sono gli scarafaggi (Blatte), mentre sul colore si può discutere: lo Scarabeo Sacro tende al nero, ma ve ne sono diverse varietà. Anche la descrizione delle antenne, molto mobili, farebbe pensare a una Blatta.
Sempre nella terza parte del racconto, la domestica chiama Gregor con l’appellativo di “vecchio scarafaggio”: e qui bisognerebbe consultare il testo originale e non una traduzione, perché i traduttori quasi sempre non conoscono l’entomologia, per esempio traducono “bombo” con “calabrone”, eccetera.
Rileggendo il racconto, non ho trovato dunque una descrizione davvero precisa; e in ogni caso, se di metamorfosi si tratta (ma il titolo originale è differente: “Die Verwandlung” ha anche il significato di “trasformazione” e non solo di metamorfosi) nell’esaminare il testo bisognerà comunque ricordare che è lo scarabeo a fare una completa metamorfosi, mentre lo scarafaggio-blatta si limita a crescere cambiando la pelle ogni tanto.

Certamente Nabokov era un entomologo più esperto di me, e anche un osservatore molto più attento, e quindi il suo parere va tenuto in grande considerazione. La mia impressione, per quel che vale, è però che Kafka sia partito da un suo sogno, o da una suggestione, che trattava proprio dello scarabeo sacro degli antichi Egizi; e che vi abbia poi aggiunto alcune osservazioni dal vero su qualche blatta-scarafaggio trovata per casa o per strada o in qualche stanza d’albergo, magari rovesciandola sulla pancia e poi cercando di descriverne il comportamento.
Io l’ho fatto ieri sera con una coccinella, parente stretta dello scarabeo (e non delle blatte): la coccinella è molto agile e ben determinata nel raddrizzarsi, forse la manovra le riesce bene anche per via delle ridotte dimensioni. Anche le cimici dei pomodori, quelle verdi che entrano nelle case in ottobre e che sono parenti strette invece delle blatte, si rialzano molto velocemente; ma qui sto sconfinando e uscendo fuori tema, meglio fermarsi tornare a leggere Kafka (e anche Nabokov, magari “La vera vita di Sebastian Knight”, un vero thriller con finale a sorpresa).
Per concludere, i significati della metamorfosi sono ovviamente molti: e ogni volta che rileggo un racconto di Kafka, questo o uno dei suoi molti altri capolavori, mi accorgo di qualcosa che non avevo notato le altre volte, e la meraviglia continua.

Le illustrazioni vengono dal quotidiano “La Repubblica” http://www.repubblica.it/  e da vari siti internet: i due disegni, magnifici, sono opera del grande naturalista svedese Carl von Linné (Linneus in latino, Linneo per gli italiani) e del grande pittore fiammingo Joris Hoefnagel (1542-1600).

http://deladelmur.blogspot.it/2011/08/kafka-e-nabokov.html

Intransigenze

Traduzione di Gaspare Bona
Biblioteca Adelphi
1994, 2ª ediz., pp. 394
isbn: 9788845911002
Temi: Letteratura nordamericana, Interviste, Critica e storia letteraria

Risvolto

Nabokov aborriva le interviste. Eppure, soprattutto quando diventò una celebrità, dovette subirne alcune. Ma il lavoro di quei malcapitati giornalisti si trasformava in puro pretesto per una strepitosa reinvenzione con cui egli si proponeva innanzitutto di cancellare «ogni traccia di spontaneità, ogni parvenza di effettiva conversazione». Il risultato fu una sorta di concrezione madreporica, dove con gli anni finirono per depositarsi, nella loro forma più scintillante e micidiale, non tanto le idee quanto le intransigenze di Nabokov, come dire le reazioni della sua fisiologia di scrittore ai grandi temi (e spesso alle grandi scemenze, come l’«impegno») che vagavano per l’aria.
Nabokov scopre le sue batterie fin dalla prima riga della Prefazione: «Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino». Ma è solo un sommesso preannuncio rispetto alle bordate che la sua artiglieria spara in tutto il libro e in tutte le direzioni: dalla letteratura all’arte, dalla politica alla sociologia e alla psicoanalisi. È più facile contare i pochi che si salvano, perché innumerevoli sono, per questo cacciatore di farfalle e di «false fame», i bersagli da colpire senza misericordia. Si salvano, per esempio, ma non sempre restano incolumi, James Joyce e Kafka, Pushkin, Tolstoj e Balthus, o i grandi comici quali Buster Keaton, Charlie Chaplin, i fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy; mentre sono investiti da scariche di sarcasmo Dostoevskij e Balzac, D.H. Lawrence e Sartre, il Thomas Mann di Morte a Venezia e il Pasternak del Dottor Zivago (al quale fanno compagnia altri tre dottori: Freud, Schweitzer e Fidel Castro). Visto a distanza, molto di ciò che Nabokov diceva come provocazione e insolenza (per esempio in politica) ci appare oggi chiaroveggente e preciso. Ma, anche là dove il gioco lo spinge a esasperare i termini – spesso in modo esilarante –, gli siamo grati e lo seguiamo, perché ci rivela cose che ogni visione equilibrata e contegnosa ignora. Non solo: attraverso molteplici pretesti rivela di pagina in pagina tratti e momenti di se stesso, in una sorta di capricciosa e obliqua autobiografia.

http://www.adelphi.it/libro/9788845911002

Breitensträter-Paolino

Vladimir Nabokov – Traduzione di Luis E. Moriones

L’uomo gioca da quando esiste. Ci sono stati tempi – giorni di festa dell’umanità – in cui l’uomo era particolarmente appassionato ai giochi. Fu così nella Grecia antica, nell’antica Roma, ed è così nell’Europa dei nostri tempi. Un bambino sa che, per poter giocare in un modo soddisfacente, deve giocare con qualcun altro.

Tutto gioca, a questo mondo: il sangue nelle vene di un amante, il sole sull’acqua e il musicista con un violino. Tutte le cose buone nella vita – l’amore, la natura, le arti, o gli scherzi in famiglia – sono gioco. E in realtà, quando giochiamo – sia che buttiamo giù un battaglione di stagno con un pisello, sia che ci affrontiamo davanti alla rete da tennis – ciò che sentiamo nei nostri muscoli è l’essenza di quel gioco che domina il meraviglioso giocoliere, che lancia da una mano all’altra in un’ininterrotta e scintillante parabola i pianeti dell’universo.

L’uomo gioca da quando esiste. Ci sono stati tempi – giorni di festa dell’umanità – in cui l’uomo era particolarmente appassionato ai giochi. Fu così nella Grecia antica, nell’antica Roma, ed è così nell’Europa dei nostri tempi.

Un bambino sa che, per poter giocare in un modo soddisfacente, deve giocare con qualcun altro, o almeno immaginare un altro, deve diventare due. O, per dirla in altro modo, non c’è gioco senza competizione; che è poi il motivo per cui un certo tipo di giochi, come quelle esibizioni di ginnastica in cui una cinquantina di uomini e donne, muovendosi come una cosa sola, formano delle figure su un terreno da parate, ci sembra insipido, perché privo dell’unica cosa che dà al gioco il suo incanto, il suo fascino eccitante. Ed è per questo che il sistema comunista è così ridicolo, perché condanna ciascuno a fare gli stessi tediosi esercizi, non consentendo a nessuno di essere più in forma del proprio vicino.

Non per nulla Nelson disse che la battaglia di Trafalgar fu vinta nei campi di calcio e da tennis di Eton [sic]. I tedeschi stessi hanno di recente capito che con il passo dell’oca non si va lontano, e che il pugilato, il calcio e l’hockey sono molto più utili di qualsiasi altro esercizio militare e non. Il pugilato poi è particolarmente prezioso, e pochi spettacoli sono sani e belli quanto un incontro di boxe.

Un rigido gentleman, a cui non piace lavarsi nudo al mattino, incline a mostrarsi sorpreso scoprendo che un poeta che lavora per due connaisseurs e mezzo guadagna meno di un pugile che lavora per una folla di diverse migliaia di persone (una folla che, per inciso, non ha nulla a che vedere con le cosiddette masse ed è trascinata da una passione molto più pura, più sincera e benevola di quella della folla che dà il benvenuto agli eroi nazionali che ritornano a casa), questo stesso rigido gentleman proverà indignazione e disgusto nei confronti di un combattimento con i pugni, così come a Roma, molto probabilmente, c’erano persone che si accigliavano alla vista di due giganteschi gladiatori che esibivano il meglio delle arti gladiatorie, colpendosi a vicenda con tali mazzate d’acciaio da rendere inutile il pollice verso, tanto si sarebbero finiti l’un l’altro comunque.

(…). L’importante è, innanzi tutto, la bellezza dell’arte del pugilato, la precisione perfetta dell’allungo, i salti laterali, i tuffi, la gamma dei colpi – i ganci, i diretti, gli swipe – e, in secondo luogo, la fantastica emozione virile che quest’arte suscita. Molti scrittori hanno descritto la bellezza, il fascino del pugilato. (…). E ci sono rimasti dei ritratti dei pugili professionisti del XVIII e XIX secolo. I famosi Figg, Corbett, Cribb combattevano senzaguanti e combattevano magistralmente, con tenacia ed onore – molto più spesso fino al completo sfinimento, più che fino al knock-out.

Né fu un senso di banale umanità che portò alla comparsa dei guantoni da boxe verso la metà del secolo scorso, piuttosto il desiderio di proteggere il pugno, che altrimenti poteva troppo facilmente fratturarsi nel corso di un incontro della durata di un paio d’ore. Tutti loro sono da tempo scesi dal ring – questi grandi pugili leggendari – facendo vincere ai loro sostenitori un bel po’ di sterline.

Vissero fino a tarda età e di sera, nelle taverne, davanti a una pinta di birra, raccontarono con orgoglio le loro passate imprese. Furono seguiti da altri, i maestri dei pugili di oggi: il massiccio Sullivan, Burns, che assomigliava a un dandy londinese, e Jeffries, il figlio di un maniscalco – «la speranza bianca», come venne chiamato, da cui si comprende
come i pugili neri stessero già diventando imbattibili.

Chi sperò che Jeffries avrebbe battuto Johnson, il gigante nero, perse i suoi soldi. Le due razze seguirono da vicino questo incontro, ma nonostante la furiosa ostilità tra il gruppo dei bianchi e quello dei neri (l’incontro si svolse venticinque o più anni fa), non fu infranta una sola regola del pugilato, per quanto Jeffries, ad ogni colpo che portava, continuasse a ripetere: «Yellow dog… yellow dog».

Alla fine, dopo un lungo, splendido combattimento, l’enorme pugile nero colpì il suo avversario così forte che Jeffries volò all’indietro fuori dal tappeto, oltre le corde del ring e, si dice, «si addormentò». (…). Ho avuto la fortuna di vedere Smith, e Bombardier Wells,
e Goddard, e Wilde, e Beckett, e il miracoloso Carpentier che sconfisse Beckett.

Quel combattimento, che fece vincere cinquemila sterline al vincitore, e tremila sterline allo sfidante, durò esattamente 56 secondi, tanto che chi aveva pagato venti sterline per sedersi ebbe solo il tempo di accendersi una sigaretta e quando alzò gli occhi al ring Beckett giaceva già al tappeto nella commovente posa di un bambino che dorme.
Voglio subito dire che in un colpo di quel genere, che comporta un istantaneo black-out, non c’è nulla di grave. Al contrario.

L’ho sperimentato io stesso, e posso testimoniare che quel sonno è piuttosto piacevole. Proprio sulla punta del mento c’è un osso, come quello del gosettimana, mito che in Inghilterra viene chiamato “funny bone”, e in Germania “osso musicale”. Come tutti sanno, sbattendo forte il gomito si sente immediatamente una lieve scossa nella mano e un momentaneo intorpidimento dei muscoli. La stessa cosa avviene se si viene colpiti molto forte sulla punta del mento.

Non c’è dolore. Solo lo scampanellìo di un lieve ronzio e poi un istantaneo e piacevole sonno (il cosiddetto “knock-out”), che dura dai dieci secondi alla mezz’ora. Un pugno al plesso solare è meno piacevole, ma un buon pugile sa come tendere il suo addome, così da non batter ciglio nemmeno se un cavallo gli desse un calcio alla bocca dello stomaco.

Ho visto Carpentier questa martedì sera.

Faceva da allenatore al peso massimo Paolino e sembrava che gli spettatori non riconoscessero subito il recente campione del mondo in quel biondino dall’aria modesta. La sua gloria oggi si è offuscata. Dicono che dopo il suo terribile combattimento con Dempsey singhiozzasse come una donna.

Paolino si è presentato sul ring per primo e, come di consueto, si è seduto sullo sgabello nell’angolo. Enorme, con una testa quadrata e scura, indossava uno splendido accappatoio che gli arrivava alle caviglie: il basco sembrava un idolo orientale. Solo il ring era illuminato e, nel cono bianco della luce che calava da sopra, la piattaforma sembrava d’argento.

Questo cubo argentato – inserito in mezzo a un gigantesco ovale oscuro in cui le dense file di innumerevoli facce umane richiamavano alla mente dei chicchi di granturco
maturo sparsi su uno sfondo nero – questo cubo d’argento non sembrava illuminato dall’elettricità, ma dalla forza concentrata di tutti gli sguardi che dal buio lo fissavano.

E quando l’avversario del basco, il campione tedesco Breitensträter, è arrivato sul ring, biondo, indossando un accappatoio color grigio-topo (e per qualche ragione dei pantaloni grigi, che si è subito tolto) quell’enorme massa oscura ha tremato con un ruggito di gioia. Il ruggito non si è spento quando i fotografi, saltando sul bordo del ring, hanno puntato le loro «monkey-boxes» (così le chiamava il mio vicino tedesco) sui pugili, sull’arbitro, sui secondi, né quando i campioni «si sono infilati i loro guantoni da boxe».

E quando i due contendenti hanno fatto scivolare l’accappatoio (non«vellutate pellicce») dalle loro spalle possenti e si sono lanciati l’uno contro l’altro nel bianco scintillante del ring, un leggero gemito ha attraversato quell’abisso oscuro, quelle file di chicchi di mais e le vaghe tribune superiori – perché tutti hanno visto che il basco era molto più grosso e massiccio del loro favorito.

Breitensträter si è lanciato per primo all’attacco, trasformando quel gemito in un rombo estatico, ma Paolino, con la testa tra le spalle, gli ha risposto con dei ganci corti da sotto e già dal primo minuto o quasi la faccia del tedesco scintillava di sangue.
Ad ogni colpo che Breitensträter subiva, il mio vicino faceva un fischio aspirato come se quei colpi li prendesse lui – e tutta la massa oscura, tutte le gradinate emettevano una sorta di enorme, soprannaturale, rauco lamento.

Al terzo round, si è fatto evidente che il tedesco si era indebolito, che i suoi pugni non potevano tener lontana quella montagna arancione protesa in avanti che avanzava verso di lui. Ha combattuto, tuttavia, con straordinario coraggio, cercando di rimediare, con la sua velocità, al maggior peso, circa sette chili, del basco. Intorno al cubo luminoso, sul quale i pugili danzavano mentre l’arbitro serpeggiava tra di loro, la massa oscura si è raggelata e nel silenzio il guantone, lucido di sudore, ha colpito con vigore il corpo nudo.

All’inizio del settimo round, Breitensträter è caduto, ma dopo cinque-sei secondi, arrancando in avanti come un cavallo sul ghiaccio stradale, si è rialzato. Il basco si è gettato subito su di lui, sapendo che in queste situazioni devi agire in modo rapido e risoluto, mettendo nei tuoi pugni tutta la tua forza, perché a volte un colpo che punzecchia ma non è deciso, invece di finire il tuo avversario indebolito, lo rianima, lo risveglia.

Il tedesco ha schivato, poi si è aggrappato al basco, cercando di guadagnare tempo, di arrivare fino alla fine del round. E quando è andato nuovamente al tappeto, il gong è stato la sua salvezza: all’ottavo secondo, si è alzato con grande difficoltà e si è trascinato fino al suo sgabello. Per una sorta di miracolo, era sopravvissuto all’ottavo round, a un fragore crescente di applausi. Ma all’inizio del nono round, Paolino, colpendolo sotto la mascella, lo ha toccato proprio dove voleva. Breitensträter è crollato. Infuriata e scontenta, la massa oscura ha ruggito. Breitensträter giaceva acciambellato come un brezel.

L’arbitro ha contato i secondi fatali, ma lui non si è rialzato. Così, il match è giunto al termine e quando siamo usciti tutti per strada, nell’azzurro ghiacciato di una notte nevosa, ho avuto la certezza che nel più fiacco padre di famiglia, nella gioventù più modesta, nelle anime e nei muscoli di tutta la folla, che all’indomani, al mattino presto, si sarebbe dispersa negli uffici, nei negozi, nelle fabbriche, ci sarebbe stato lo stesso bel sentimento, per il quale era valsa la pena di far combattere due grandi pugili: un sentimento intrepido, di forza ardente, di vitalità, di virilità, ispirato dal gioco del pugilato. E questo bel sentimento è forse più prezioso e più puro di ciò che molti chiamano i “piaceri elevati”.

La letteratura a Bordo Ring di Vladimir Nabokov

Vladimir Nabokov : LA DIFESA DI Lužin ; O Último Lance [The Luzhin

STANLEY KUBRICK – dai romanzi allo schermo, 8 euro : Kubrick

Questa voce è stata pubblicata in cultura, kafka e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.