Antonio Pietrangeli : Adua e le compagne – La Visita

Posted 08/01/2015 by Massimiliano Schiavoni

Adua e le compagne

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Per la rubrica Un Pietrangeli al mese riscopriamo stavolta Adua e le compagne. Unica occasione pietrangeliana di diretta denuncia civile, sia pure tramite un linguaggio traslato e personale. Cast ricco e internazionale, con tra gli altri Simone Signoret ed Emmanuelle Riva.

Dopo la chiusura delle case di tolleranza, quattro ex-prostitute tentano di rifarsi una vita aprendo una trattoria in società, che inizialmente dovrebbe servire da paravento per continuare a esercitare la professione. Ma le speranze di riscatto sono destinate alla sconfitta. [sinossi]

Dando per scontato il più che evidente legame esteriore con la predilezione pietrangeliana per i ritratti femminili, Adua e le compagne (1960) è innanzitutto un primo durissimo colpo affondato nel tessuto socio-culturale dell’Italia del boom. Non è esattamente il primo nella carriera di Antonio Pietrangeli, che anche nelle sue opere precedenti, persino nelle più impensabili (Lo scapolo, 1955), dà costante espressione a uno sguardo amaro e disilluso sui mutamenti sociali in corso nel nostro paese e sugli annessi dissesti identitari dell’essere umano.
Ma in Adua e le compagne tale intenzione sale platealmente alla ribalta, anzi per l’unica volta nella sua carriera Pietrangeli affronta di petto la contingenza storico-sociale, dedicandosi a un tema scottante dei suoi anni col dichiarato intento di fare polemica culturale. È la sola occasione in cui il cinema di Pietrangeli costeggia la diretta denuncia civile, sia pure tramite un linguaggio comunque traslato e ben lontano dall’approccio del film-inchiesta. A scatenare la rabbia dell’autore è l’incontro con la realtà delle prostitute lasciate a se stesse dopo la tanto dibattuta legge Merlin, che sanciva la chiusura delle case di tolleranza senza prevedere un serio piano di recupero sociale delle tante donne, giovani e meno giovani, sbalzate fuori in un mondo ribollente di moralismi e pregiudizi. Come sempre più spesso accadrà nelle sue successive opere, Pietrangeli si sofferma sui margini del boom economico, sulle ampie zone d’ombra in cui le magnifiche sorti e progressive italiane non arrivano o, come in questo caso, non sono letteralmente previste.
Schedate dalla polizia e per questo guardate con diffidenza dalle autorità per qualsiasi attività commerciale intrapresa a seguito della chiusura dei bordelli, le ex-prostitute finiscono in un vuoto sociale senza via d’uscita, in cui è a loro negata qualsiasi possibilità umana: difficile fare la madre e la moglie, difficile innamorarsi e rifarsi una vita, difficile pure lavorare. In pratica, la sbandierata rinascita italiana del boom si profila come una sorta di schiacciasassi sociale, uno spietato rullo compressore che accoglie solo chi risponde a ben precisi requisiti, stritolando nel suo ingranaggio i profili antropologici più problematici (giù nella scarpata de Il sorpasso morirà soltanto il timido Roberto Mariani).

In sede di sceneggiatura Scola, Maccari, Pinelli e lo stesso Pietrangeli danno vita così a un quartetto di protagoniste fortemente esemplari, variandole per età ed esperienze di vita. Adua, leader del gruppo, la più scafata e concreta, si è fatta la guerra in Africa fungendo da diversivo per i soldati al fronte. Lolita, ingenua ed entusiasta, si lascia illudere da un impresario di varietà che a conti fatti le spilla soltanto dei soldi. Marilina ha avuto un bambino che non vede quasi mai, e ricorda più da vicino il profilo della donna di piacere che nella vita di bordello ci ha perso la testa o quasi, preda di scompensi comportamentali al limite del bipolarismo. Milly, infine, è timida e provinciale, e vedrà negate le gioie di un possibile matrimonio.
Tutte e quattro si danno anima e corpo al progetto di aprire una trattoria che serva da paravento per continuare a esercitare la professione. Poi però la trattoria ingrana davvero, e per un attimo balena per tutte l’illusione di potersi rifare una vita. Illusione che resterà tale, perché nell’Italia del boom, quella del “self-made man” mutuato dalla cultura americana, al contrario non c’è alcun posto per seconde possibilità.
Stavolta il dichiarato intento di polemica sociale irrigidisce in parte l’approccio narrativo, e qua e là i profili delle protagoniste tradiscono una programmaticità pressoché inevitabile.
La cifra più personale di Pietrangeli sta nel carattere estremamente sfuggente dei personaggi da lui evocati, tanto che il suo percorso di carriera pare allinearsi a una progressiva smaterializzazione della specificità umana nel contesto dell’Italia del benessere economico. Un inarrestabile e spietato processo di disincarnazione dell’uomo che troverà la sua naturale conclusione nell’impossibilità di narrare un’anima (Io la conoscevo bene, 1965), frantumata in mille pezzi da un mondo che non ha più strumenti per leggerla.
Per cui riscoprire in Adua e le compagne quattro robusti caratteri, che non disdegnano nemmeno tratti tipizzanti (Lolita è la “cretina” del gruppo; Milly si affida pure all’inflessione dialettale) suscita un’iniziale impressione di parziale estraneità rispetto al mondo più intimamente personale dell’autore. Ma, ribadiamo, in questa occasione Pietrangeli e i suoi sceneggiatori sono pressati da un’urgenza di presa sul reale, diretta e senza filtri, che giocoforza conduce a una maggiore esemplarità di racconto. Così, una volta avviata la trattoria le vicende delle quattro compagne alternano brani narrativi condivisi ad altri dedicati ai loro singoli destini, in cui un po’ meccanicamente si riservano a ciascuna esperienze deludenti con l’universo maschile o, in senso lato, con le prospettive future.

Tuttavia, l’approccio tipicamente pietrangeliano è rintracciabile in un pugno di sequenze che assumono i tratti di parentesi esistenziali all’interno di una stringente catena narrativa; dalla fuga di Marilina che, incapace di vivere nella trattoria, corre a rintanarsi nostalgicamente nella vecchia casa di tolleranza, al suo risveglio angosciato in cerca del figlio, che si conclude con una delle più belle panoramiche a schiaffo del nostro cinema. Ad Adua è invece riservato un breve monologo a letto in primissimo piano, in cui rievoca i tempi della guerra d’Africa, secondo una logica di “dramma-jazz” decadente che in più momenti assumerà i tratti di dominante nota espressiva di tutto il film.
In tal senso, appare altrettanto interessante il rapporto che Pietrangeli inizia a tessere già in Adua e le compagne con gli schemi collaudati del nostro cinema. Fin da Lo scapolo Pietrangeli sembra imbastire una battaglia centrifuga nei confronti della commedia all’italiana, combattuta tramite vari strumenti (la rarefazione narrativa, la smaterializzazione dei profili umani, lo svelamento del meccanismo comico – un esempio tra i tanti, il balletto di Baggini in Io la conoscevo bene). Anche in Adua e le compagne i moduli espressivi esteriori restano quelli della nostra commedia migliore, ma assumono i tratti di messe in forma svuotate della loro peculiarità.
In un dramma tanto disperato e senza via d’uscita la fa da padrone il consueto jazz di Piero Piccioni, costante contrappunto alla vicenda pure nei suoi momenti più lancinanti (la rivolta di Adua in prefinale, vestita da prostituta davanti ai clienti della trattoria per screditare il mascalzone che vorrebbe continuare a sfruttarla). Un preciso rapporto di collisione tra immagine e musica che caratterizzerà molto del cinema successivo di Pietrangeli (La visita, e ovviamente il motivetto incredibilmente scanzonato e drammatico al contempo di Io la conoscevo bene, sempre a opera di Piccioni, così come il frequente utilizzo delle canzonette), e che si delinea come uno dei tanti stratagemmi espressivi messi in atto dall’autore per svelare la natura di un genere nazionale a se stesso.
Così, il personaggio della “cretina” Lolita non assume i contorni di un’occasione comica, bensì è funzionale alla costruzione di un rapporto significativamente sadico con Marilina, che si diverte a umiliarla impedendo spesso il riso nel pubblico. Così intorno ai drammatici esiti dei tentativi di reinserimento sociale ruotano figurine tipizzate prese di peso dal nostro cinema più consueto (il frate, l’aiutante in trattoria, e in qualche modo pure il pavido sbruffone interpretato da Marcello Mastroianni).

A scardinare ulteriormente il linguaggio della nostra commedia interviene poi il linguaggio filmico specificamente pietrangeliano, che introduce finezze espressive decisamente inconsuete per le pratiche del nostro cinema anni Cinquanta-Sessanta di largo consumo: piani-sequenza, panoramiche a schiaffo, macchina a mano, plongés e contreplongés spesso giocati intorno al tema delle scale (l’incipit del film è tutto avvitato intorno alle salite e discese delle ragazze per le scalinate dei bordelli) e una panoramica soggettiva a 360 gradi del personaggio di Ercoli che anticipa la mirabile panoramica a tutto tondo dagli occhi di Baggini in Io la conoscevo bene.
Adua e le compagne appare quindi in qualche misura un terreno di sperimentazione per forme espressive che troveranno definitiva compiutezza in alcune delle opere successive di Pietrangeli, ma già appare evidente la coerenza dell’autore nell’affrontare la via senza scampo di un’eterna schiavitù. Prendendo le mosse da uno spunto di stringente attualità, in realtà Pietrangeli dà voce a una riflessione universale sulla prigionia dell’essere umano che si regge su una spietata idea di determinismo sociale, fondato su logiche di rapporti produttivi dai quali è impossibile fuggire. L’illusione d’indipendenza delle ex-prostitute vale quanto le speranze negate della signorina Pina (La visita) o la folle gelosia possessiva di Andrea Artusi (Il magnifico cornuto). In un modo o nell’altro, al di sopra di tutti loro si erge il mostro dell’omologazione e i relativi incubi dell’uomo moderno, espropriato a se stesso e reso alieno ai suoi stessi desideri. O, rovesciando il discorso nella fattispecie di Adua e le compagne, messo in condizione di non poter desiderare alcunché.
Per Adua e le compagne Pietrangeli si trovò per la prima volta alle prese con una grossa produzione di respiro internazionale. Agli italiani Sandra Milo, Gina Rovere, Marcello Mastroianni e Claudio Gora si affiancano infatti nei due ruoli principali nientemenoché Simone Signoret (che nello stesso anno vinse l’Oscar per La strada dei quartieri alti di Jack Clayton) ed Emmanuelle Riva, appena reduce da Hiroshima mon amour e Kapò. Inutile dire che da un amalgama umano così diversificato Pietrangeli seppe trarre un’ammirevole omogeneità espressiva. E la rabbia del duro volto vecchio-giovane di Simone Signoret non si dimentica facilmente.

http://quinlan.it/2015/08/01/adua-e-le-compagne/



Posted 11/10/2014 by Massimiliano Schiavoni

La visita

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Primo capitolo della serie Un Pietrangeli al mese, attraverso cui ripercorreremo tutta la carriera del regista romano, in ordine rigorosamente anti-cronologico. Si comincia con La visita del 1963.

C’è un tratto importante del cinema italiano anni Sessanta, e in particolare della commedia, che forse non sempre è stato sottolineato a dovere: appartenere a quella generazione d’autori significava anche fare parte di una sorta di koinè creativa. Tanto forte era l’industria e tanto prolifiche erano le case di produzione che spesso i soggetti e le sceneggiature passavano di mano in mano, a volte restavano abbandonate in un cassetto e poi ripescate da tutt’altro produttore e regista, oppure addirittura finivano talvolta nello strumento buono per tutte le stagioni del film a episodi. Nessuno si offendeva, nessuno ci restava male: vigeva una diffusa idea di creatività comune e condivisa, e un senso molto pragmatico del lavoro e del mestiere. L’industria era così forte e le possibilità cinematografiche così ampie che molti autori erano pronti a girare film su commissione o accaparrati all’ultimo momento, facendoseli poi film propri, innervati coerentemente nella loro poetica.
In tal senso Antonio Pietrangeli appare uno degli esempi più pertinenti, non solo perché nella sua purtroppo breve carriera ha realizzato film di qualità profondamente diversa, ma anche perché ha visto cedere costantemente soggetti propri ad altri, e all’inverso si è trovato a realizzare film che non aveva inizialmente previsto di girare.

A scorrere la sua filmografia, le opere progettate da inizio a fine da Pietrangeli e realizzate subito al momento del progetto si contano sulle dita di una mano. Lo stesso Io la conoscevo bene (1965), universalmente osannato come il suo capolavoro più indiscusso, fu sì progettato da Pietrangeli ma rimandato per almeno un decennio, mentre uno dei suoi soggetti a cui più teneva, “Le ragazze chiacchierate”, finì poi pesantemente rimaneggiato e girato da Francesco Maselli come I delfini (1960).
Insomma, tramite un cinema inteso come nobile mestiere, e in cui a monte l’individualità dell’autore non era per forza una prerogativa, potevano comunque manifestarsi grandi personalità autoriali, quando il regista in questione si appropriava del soggetto in modo intimo e aderente al suo universo e ne faceva a tutti gli effetti un suo film.

Anche La visita (1963), che vede la luce nella fase-zenit della carriera di Pietrangeli e di tutta la commedia all’italiana, nasce per caso. Vagamente ispirato a un racconto di Carlo Cassola, il soggetto era stato scritto da Ettore Scola e Ruggero Maccari con Giuseppe De Santis che voleva farne un film. Poi De Santis si defilò per dedicarsi a Italiani brava gente e il produttore Moris Ergas si rivolse a Pietrangeli, che accettò di buon grado sia l’incarico che pure la protagonista Sandra Milo, con cui aveva già lavorato più volte in precedenza battezzando anche il suo esordio al cinema in Lo scapolo (1955).
Come sempre la critica contemporanea fu poco benevola con il cinema di Pietrangeli, e anzi non vi furono nemmeno pesanti stroncature, bensì il generale atteggiamento di sufficienza ancor più mortificante che si riservava indistintamente alla commedia di casa nostra. Pochi si accorsero che Pietrangeli era dotato di uno sguardo ben diverso e personale, applicato sì a materiali narrativi arcinoti al nostro cinema di quegli anni nelle sue macrostrutture, ma capace di raggiungere profondità e disagi esistenziali davvero inediti per le pratiche comuni della nostra commedia.
La commedia all’italiana anni Sessanta è famosa per il suo spirito amaro e disilluso, per la sua capacità di raccontare un mondo e una società decostruendone falsi miti e dando risalto a infinite miserie umane.
Pietrangeli va oltre. Specialmente nel suo trittico in mezzo agli anni Sessanta (La parmigiana, La visita, Io la conoscevo bene) l’autore parte da situazioni narrative convenzionali e anche “carnevalizzate” nei suoi elementi costitutivi (accentuazione di trucco, acconciature, scenografie zeppe di modernariato) per ribaltare a poco a poco il discorso verso cupissime verità umane. È un cinema che nasce come sociale e tutto centrato sul racconto della neo-borghesia italiana, quindi legato a un tempo e un luogo ben precisi, ma che forse andando anche oltre alle proprie intenzioni riesce a espandere il proprio discorso verso inquietudini universali, in cui a trovarsi in scacco è il senso stesso dell’esistenza umana in un contesto di frattura interna ed esterna. È commedia, ma l’alienazione che si respira è quella che in chiavi diverse veniva raccontando in quegli stessi anni Michelangelo Antonioni. Del resto anche il Dino Risi de Il sorpasso, in cui Gassman sbeffeggiava platealmente il cinema di Antonioni, finiva per raccontare poi la stessa situazione umana nei suoi due protagonisti. Nel Risi degli anni Sessanta si tratta di un sentimento che affiora a intermittenza. Nei film migliori di Pietrangeli, invece, tale resa umana davanti al disagio e all’inadeguatezza appare la nota espressiva dominante.

La visita si tiene ancora un passo indietro rispetto alla spericolata sperimentazione di Io la conoscevo bene. Nel film successivo Pietrangeli infatti adotterà una totale frammentazione del racconto del tutto inedita nel nostro cinema. Per il momento invece l’autore si pone a raccontare la tragicomica vicenda di Pina e Adolfo tramite una macrostruttura solidamente tradizionale.
I due protagonisti di La visita, entrambi non sposati sopra i 35 anni, s’incontrano tramite un annuncio sulla posta del cuore, e l’uomo, romano volgare e inacidito dalla vita, si reca a conoscere di persona la prosperosa signorina (in paese la chiamano la bella Culandrona per il suo florido lato B) nel suo paesello della Bassa ferrarese. Lungo le 24 ore dell’incontro si assisterà a un progressivo svelamento delle reciproche maschere. Entrambi desiderosi di vincere la solitudine, ma per ragioni spesso diverse (tanto spontanea, fiduciosa verso il prossimo e genuinamente solare è Pina, quanto meschino, egoista, ipocrita e arrivista è Adolfo), i due personaggi vedono a poco a poco trasformarsi le loro speranze di amore e matrimonio in desolanti illusioni, e danno vita a un progressivo oscurarsi del racconto che li narra.
Primi segnali di questo rovescio emotivo emergono tramite la tecnica del flashback, piuttosto inedita nel nostro cinema fino a quel momento e che sarà poi portata al massimo della sua espressività da Pietrangeli nel successivo Io la conoscevo bene.
In La visita invece i flashback sono cinque, ben segnalati e circoscritti nel flusso del racconto e fondati sul principio dell’associazione, talvolta in modo meccanico (per intenderci, in una sequenza Adolfo parla di camionisti, e Pina, imbarazzata e colta da improvvisa malinconia, avvia un flashback nel suo pensiero in cui ricorda la sua relazione con un camionista). I flashback intervengono con stretta funzione narrativa (ci raccontano come Pina e Adolfo siano arrivati alla decisione di affidarsi alla posta del cuore), come costante rovescio veritiero delle falsità che i due si raccontano per apparire, a se stessi e all’altro, meno tristi e disperati (le umiliazioni di entrambi sul lavoro, la solitudine di Pina nel lungo inverno ferrarese, la sua relazione senza via d’uscita col camionista sposato…), e infine fungono da cartina di tornasole emotiva.
Nell’incontro tra Pina e Adolfo, almeno fino alla metà, domina infatti un’aria trasognata e sorridente in cui anche le storture di Adolfo sono percepite dallo spettatore con un sorriso o risata indulgente: sono invece i flashback a insinuare, uno dopo l’altro, il dubbio dell’inquietudine esistenziale, della disperata solitudine a cui non pare possibile trovare una risposta. Tutto questo emerge con forza nel bel flashback del ritorno a casa di Pina durante un temporale; la donna finisce per fare compagnia a se stessa canticchiando “Io che amo solo te” di Sergio Endrigo, per rivelare poi, in un magistrale piano-sequenza, due lacrime che scendono nel buio sulla rivista che sta sfogliando alla luce di una candela.
Adolfo piega più verso gli istinti primordiali nei loro toni mostruosi quando rimanipolati in un contesto consumistico. Così, in flashback Pietrangeli ci narra degli incontri sessuali di Adolfo con una camiciaia dalle labbra sfregiate, con la quale Adolfo fa sesso senza riuscire a baciarla per il senso di repulsione per la sua bocca.

Superficialmente ritroviamo il gusto per il “mostro sociale” da boom economico anni Sessanta che già Risi veniva raccontando col sostegno della medesima coppia di sceneggiatori, Scola&Maccari. Ma se Risi sferzava, irrideva e raccontava i mostri come tali spesso tramite enormi iperboli grottesche, d’altro canto Pietrangeli spinge più a fondo il coltello nell’ambiguità emotiva, foriera di infiniti disagi per chi vede. Perché sulla solitudine piena di speranza di Pina, sia pure agghindata con le labbra a cuore e i capelli a barboncino, non riusciamo a ridere, tanto appare dominata da una disperata vitalità. Perché la mostruosità di Adolfo rischia pericolosamente di far vergognare lo spettatore, tanto è aderente alle infinite debolezze dell’essere umano. Perché, infine, nel progressivo incupirsi dei toni, Pietrangeli ci consegna una memorabile sequenza in prefinale, in cui Pina decide di far cadere le maschere tramite un’impietosa radiografia di Adolfo. Il quale (genialità narrativa) riconosce tutto con sconfinata amarezza, mettendo in scacco il pubblico e le sue percezioni.
Pietrangeli, insomma, lavora su materiali noti ma con obiettivi molto più ampi e universalizzanti. È ammirevole anzi che da una situazione di genere, e soprattutto da un racconto così “piccolo” e provinciale nelle sue coordinate, sia riuscito a narrare inquietudini esistenziali di così ampia portata.

La visita porta su di sé tutti i segni della commedia di largo consumo di quegli anni, dalla canzonetta in colonna sonora al trucco grottesco dei personaggi, dalle macchiette di contorno (lo scemo del villaggio di Mario Adorf) all’attenzione sociologica, ma per Pietrangeli si trasformano in strumenti per un discorso intorno all’essere umano, in cui la commedia e i suoi schemi fanno poco più che da veicolo.
Nelle vesti di Adolfo, François Perier ha la maschera giustamente viscida, mentre Sandra Milo si mostra nella sua prova migliore. Fisicamente funzionale, anche nelle sue radiose risate, ma capace di lancinanti toni drammatici e tenera malinconia.

http://quinlan.it/2014/11/10/visita/

Antonio Pietrangeli: Il magnifico cornuto e Io la conoscevo bene

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