Antonio Pietrangeli: Il magnifico cornuto e Io la conoscevo bene

Il magnifico cornuto > Antonio Pietrangeli

Alessio Galbiati/07/08/2013/

Gli italiani allo specchio
a cura di Alessio Galbiati

Deliziosa commedia all’italiana sulla gelosia diretta da quel grandissimo regista che fu Antonio Pietrangeli, scomparso davvero troppo prematuramente a soli 49 anni per un tragico annegamento durante le riprese di Come, quando, perché (che uscirà postumo l’anno successivo, il ’69), sceneggiata da Ruggero Maccari, Diego Fabbri, Stefano Strucchi e Ettore Scola (suo collaboratore fisso a partire dal secondo lungometraggio, ovvero Lo scapolo del 1955). Il soggetto del film trae spunto dalla pochade Le cocu magnifique, scritta nel ’21 dal drammaturgo belga Fernand Crommelynck e portata sul grande schermo nel ’47, con il medesimo titolo, da Emile Georges de Meyst.

Protagonista della storia è Andrea Artusi (Ugo Tognazzi), ricco industriale bresciano produttore di cappelli che, in seguito a un paio di scappatelle extra coniugali, fatte più per capriccio e conformismo che per altri motivi, viene divorato da una crescente gelosia nei confronti della moglie, la (come sempre) bellissima Claudia Cardinale. La donna, che in realtà gli è devota, fedele e innamorata, inizialmente nemmeno coglie le ansie del marito, ma la gelosia dell’industriale cresce a tal punto da inquinare, irrimediabilmente, l’equilibrio del rapporto, sfibrando la fiducia che li univa. Il film si muove da un registro che sfiora il comico, per tramutarsi in tragicommedia e concludersi in farsa, ma tutti i toni sono tra loro perfettamente amalgamati con garbo e mestiere, modulati con sapienza per spiazzare le aspettative dello spettatore.

Ne Il magnifico cornuto (1964), e come sempre nel cinema di Pietrangeli, i movimenti di macchina sono incantevoli, tecnicamente complessi ma mai fini a se stessi, sospesi fra apparenza e sostanza, sempre attenti a restituire la dimensione psichica dei suoi personaggi. Ogni dettaglio è frutto di una cura meticolosa e la sua regia è, ancora oggi, in grado di elevarsi, per qualità formale, dalla media della produzione coeva, risultando intatta, a cinquant’anni dalla sua realizzazione, nella sua magistrale qualità cinematografica. Se in Io la conoscevo bene (1965), senz’ombra di dubbio il suo capolavoro (nonché uno dei migliori film italiani di sempre), ogni singolo fotogramma è ricamato attorno al precipitare della giovane Sandrelli, qui ogni aspetto della messa in scena è costruito attorno a Tognazzi, al suo punto di vista e sulla sua percezione degli sguardi altrui. Esemplare a tal proposito è la sequenza d’apertura: Antonio percorre a piedi una piazza del centro e la regia alterna fra loro soggettive e piani americani: egli guarda ed è guardato – perfetta rappresentazione del palcoscenico del quotidiano. Antonio/Tognazzi scivola però ai margini della narrazione nella parte conclusiva del film, a causa della flagellazione autoimposta da un’irrazionale gelosia irrefrenabile, lasciando il campo al furbesco trionfo edonistico della bella moglie. Pietrangeli è stato celebre per l’innovazione di porre al centro dei propri film donne emancipate dai cliché e dalle arretratezze culturali italiane, ma pure da una prassi cinematografica maschilista di un cinema edificato attorno a protagonisti maschili; nel suo cinema le donne anticipano l’epoca del femminismo, paiono affrancate da secoli di oppressione, se non addirittura già contemporanee ai giorni nostri, si pensi alla Sandrelli di Io la conoscevo bene, alla Milo de La visita (1963), alla Spaak de La Parmigiana (1963) e alla Cardinale de Il magnifico cornuto che, solo in apparenza è la classica mogliettina borghese tutta casa e salone di bellezza. Maria Grazia rappresenta, forse meglio di tutte le altre donne del cinema di Pietrangeli, il punto di svolta fra due concezioni del ruolo di moglie, in lei si ravvisa con estrema chiarezza il passaggio da essere devoto al proprio uomo, un essere fragile perché follemente ossessionato dal concetto di fedeltà e incapace di comprenderla realmente, o anche solo di ascoltarla, a quello di una furba libertina perfettamente conforme all’aria che respira fra le sue pari, nell’ambiente borghese di una città di provincia (Brescia al cinema è una vera e propria rarità; a memoria ricordo solo La polizia sta a guardare di Roberto Infascelli, 1973). All’interno del film la vediamo passare con disinvoltura da innamorata consorte a convinta adultera, preoccupata unicamente al soddisfacimento del proprio piacere, con buona pace delle manie di un alienato marito, felice e finalmente sereno grazie alle tanto desiderate corna.

Scorre ai margini del film un impietoso ritratto della ricca borghesia lombarda, sodale fra pari, sempre pronta ad aggiustare ogni questione legal-burocratica per solidarietà di casta, capace unicamente di disincanti e incapace di credere nella buona fede delle persone, fosse anche dei propri affetti. Una borghesia milionaria già tremendamente annoiata (e siamo solamente nel ’64), che si intrattiene con l’adulterio, consumato come un rituale stanco, come un passatempo, quasi più per convenzione sociale che per una reale esigenza d’evasione. Tutti tradiscono tutti, dandosi grandi pacche sulle spalle, bonariamente.

– Io penso che non ci si possa più fidare di nessuno. A questo punto, guarda, di oneste ci sono solo le nostre madri.
– E neanche, ci sono tanti di quei figli di puttana!

Questa battuta, la prima delle due, è pronunciata niente meno che da Gian Maria Volonté (proprio nel ’64 sarà Romon Rojo nel primo elemento della trilogia del dollaro di Segio Leone – Per un pugno di dollari), nei panni di un distinto assessore trafficone, ma estremamente garbato, che nel film ha un ruolo defilato, sia in termini di minuti sullo schermo che di importanza rispetto alla trama. Un lusso che è un vero e proprio vezzo presente in molti dei film diretti da Antonio Pietrangeli, in cui le star di prima grandezza assai di frequente interpretavano ruoli minori, o secondari (meraviglioso il Tognazzi/Biagini di Io la conoscevo bene), come Salvo Randone, che ne Il magnifico cornuto veste i panni di un anziano dipendente del ricco industriale, un po’ padre e un po’ fratello maggiore che proverà, senza troppo successo, a portarlo alla ragione. Nel cast, con un ruolo davvero microscopico di giardiniere bifolco vittima sacrificale dei dubbi fedifraghi dell’industriale, c’è quel Lando Buzzanca (con Pietrangeli lavorò l’anno precedente ne La parmigiana) che nei decenni a venire sarà protagonista di un’infinità di commedie senza troppe ambizioni, ma dal successo commerciale internazionale, che avranno al centro della narrazione le “corna” in ogni loro possibile coniugazione.
Ugo Tognazzi tornerà sulla questione gelosia, da regista (una carriera, quella dietro alla macchina da presa, decisamente e immeritatamente sottovalutata dalla critica che difficilmente perdona il doppio ruolo), con il film Cattivi pensieri (1976), alle prese con un’altra bellissima moglie, Edwige Fenech. Tognazzi “ruberà” a Pietrangeli la dimensione onirica (a occhi aperti) dell’adulterio dentro alla quale fare esplodere la strabordante sensualità dell’attrice, proprio come fatto con la Cardinale nel film del ’64, che appare, nelle sequenze allucinate che danno corpo ai fantasmi dell’industriale, arditamente carnale per i canoni censori dell’epoca. È curioso notare la sincronicità di un’idea tanto audace con quanto stava provando a realizzare un altro gigante del cinema. Il ’64 è infatti l’anno della lavorazione di L’enfer, il film mai realizzato da Henri-George Clouzot, che condivide con Pietrangeli il medesimo soggetto: l’ossessione divorante di un marito per la propria bella moglie.

Anche ne Il magnifico cornuto, come nel successivo Io la conoscevo bene, Antonio Pietrangeli non manca di illustrare la sua passione per gli specchi articolando piani raffinati entro i quali gli attori moltiplicano la propria immagine in caleidoscopiche sequenze tecnicamente raffinatissime, nella loro apparente naturalezza. Lo specchio rappresenta una vera e propria marca autoriale del regista romano anche da un punto di vista più estensivo, egli li utilizza non solo come superfici riflettenti attraverso le quali moltiplicare l’immagine, i soggetti, i volti dei protagonisti, ma pure come manifesto di un cinema che è pure antropologia sociale. Il cinema di Pietrangeli vuole essere, esso stesso, specchio del proprio tempo, immagine di una porzione di reale che diviene visione d’insieme di un’intera società. Dentro a un genere apparentemente innocuo, come la commedia, incorniciato in sobrie ed eleganti ambientazioni, egli ha saputo essere uno dei più lucidi (come uno specchio?) cantori del declino morale di un paese travolto da una veloce ascesa economica. Film come Il magnifico cornuto, Io la conoscevo bene (su toni ben più drammatici), Il sorpasso di Dino Risi (1962), Signore & Signori di Pietro Germi (1966), i primi film italiani di Marco Ferreri (L’ape regina, La donna scimmia, L’uomo dei 5 palloni, Marcia nuziale) e molti altri ancora, tutti diretti da quella generazione di registi arrivati al cinema dopo l’onda neorealista dell’impegno civile, dopo il dramma del ventennio e della seconda guerra mondiale, respiravano un’aria comune e portavano sul grande schermo i semi della disillusione verso una nazione, e il suo popolo, che apparivano come smarriti di fronte al benessere e alla ricchezza. Un cinema già post ideologico, dotato di uno sguardo ferocemente cinico eppure così umano. Di quest’epoca Tognazzi fu l’incarnazione più convincente, la maschera più azzeccata che, da fascista inconsapevole a bordo di un sidecar, ne Il federale di Luciano Salce (1961), è entrato direttamente nell’epoca del boom economico, trasformandosi senza troppi cambiamenti nel cinico piccolo borghese de L’uomo dei 5 palloni di Marco Ferreri (1965) che, con una monumentale insensibilità, si lamenta perché la sua auto è stata sfondata dal corpo di un suicida gettatosi da un palazzo proprio sopra il suo bene più amato. Questo cinema, così sofisticato eppure così popolare e apprezzato dal pubblico (Il magnifico cornuto fu il decimo incasso della stagione ’64/’65), venne nominato “Commedia all’italiana” e di questo, della sua essenza, abbiamo – oggi – tremendamente bisogno. •

Alessio Galbiati

ps. Magnifica la colonna sonora, e il suo uso garbato e sempre azzeccato, di Armando Trovajoli.

http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=29226


Io la conoscevo bene – 1965

http://www.controappuntoblog.org/2013/02/23/io-la-conoscevo-bene-1965/

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