Violent Rabbit Illustrations Medieval – Harvey film 1950

Violent Rabbit Illustrations Found in the Margins of Medieval Manuscriptsby Kate Sierzputowski on May 31, 2016


BL Yates Thompson 8 f. 294r (via Sexy Codicology)

The typical depiction of a rabbit, especially when used in Medieval art and literature, is an image of purity and innocence—a harmless puff of cuddly cuteness. Another common association with the rabbit is that of fertility, a sensical comparison when one is aware of the speed at which the species copulates. In some medieval illuminated manuscripts however, the illustration of a rabbit turns from harmless to violent, with several examples showcasing the formerly innocent creature in the act of decapitation and other sword-wielding wrongdoings.

A way to analyze these drolleries, or medieval margin illustrations, is to think about the violent role reversals as humorous symbolism. Because these animals were so low on the totem pole of fear, it was quite amusing to the medieval illustrator to draw them enacting a revenge—silly animals on the opposite side of the slaughtering. This was also a way for the artist to show the stupidity of the human who was the object of the rabbits’ anger, one who was foolish enough to be bludgeoned by bunny.

If all of this is hitting a little too close to Monty Python and the Holy Grail for you, read this comparison by Sexy Codicology between the historical illustrations and the film. Oh, and of course watch the killer bunny scene to see a modern day take on these vengeful rabbits. (via Jon Kaneko-James and Neatorama)

Images via Dangerous Minds

BL. Add. 49622 f. 149v. (via Sexy Codicology)

Images via Dangerous Minds

http://www.thisiscolossal.com/2016/05/violent-rabbit-illustrations-found-in-the-margins-of-medieval-manuscripts/

Harvey regia di Henry Koster

Commedia

recensione di Tomas Bonazzo

Gio­va­ne uomo di bel­l’a­spet­to, ele­gan­te nel por­ta­men­to e cor­te­se nei modi, El­wood P. Dowd, viene co­stret­to dalla so­rel­la Veta e dalla ni­po­te zi­tel­la Myr­thie a ri­co­ve­rar­si in una cli­ni­ca per ma­lat­tie men­ta­li. Il mo­ti­vo del­l’in­ter­na­men­to? Il gen­ti­le El­wood vede ed in­ter­lo­qui­sce con un Puka, un co­ni­glio alto quasi due metri, ma­li­zio­so e un po’ beone.

La po­si­ti­va pièce tea­tra­le di Mary Chase (1944) viene rea­liz­za­ta per il gran­de scher­mo dal te­de­sco Henry Ko­ster con un co­lo­ri­to grup­po di at­to­ri in cui spic­ca­no il ge­ne­ra­le James Stewart (El­wood P. Dowd) e Jo­se­phi­ne Hull (Veta Sim­mons) vin­ci­tri­ce, per l’oc­ca­sio­ne, agli Aca­da­my Awards come mi­glio­re at­tri­ce. La com­me­dia degli equi­vo­ci o, me­glio, degli in­se­gui­men­ti -per quasi 100 mi­nu­ti si cerca o in­se­gue qual­cu­no o qual­co­sa- è un inno al­l’a­mo­re in tutte le sue forme. Il per­so­nag­gio chia­ve at­tor­no a cui ruota la nar­ra­zio­ne par­reb­be Har­vey, co­ni­glio par­lan­te e in­vi­si­bi­le, ma di per­cet­ti­bi­le pre­sen­za, in­ve­ce è il fi­lo­so­fo bo­na­rio e suo amico di be­vu­te, ma­gi­stral­men­te in­ter­pre­ta­to da Stewart. Har­vey è pro­ba­bil­men­te il Ma­c­Guf­fin della vi­cen­da, è l’e­spe­dien­te che in­ne­sca il so­fi­sti­ca­to gioco di re­la­zio­ni tra i di­ver­si per­so­nag­gi, uo­mi­ni e donne soli. Poco im­por­ta se il co­ni­glio è reale o si na­scon­de nella mente del matto El­wood, ciò che im­por­ta è la le­zio­ne che si im­par­ti­sce già dalle prime bat­tu­te: un po­sti­no, fuori dal cor­ti­le di casa, af­fer­ma ba­nal­men­te: “Ma che bella gio­na­ta!”, ed El­wood: “Be’…​non v’è gior­no che non lo sia”. In un pe­rio­do in cui, nel pa­no­ra­ma ci­ne­ma­to­gra­fi­co, fioc­ca­no pel­li­co­le sui su­pe­re­roi, do­ta­ti dei più co­lo­ra­ti su­per­po­te­ri, El­wood pos­sie­de -ba­da­te bene, tutti ne ab­bia­mo le pre­mes­se- l’ar­ma più po­ten­te: il dia­lo­go. Parla e si con­fron­ta con chiun­que, non pos­sie­de pre­giu­di­zi; di­ver­sa­men­te dalla so­rel­la, co­stret­ta dalle ca­te­ne men­ta­li di una so­cie­tà bi­got­ta, dagli ob­bli­ghi, dalle eti­chet­te e dallo spet­te­go­la­re in ge­ne­re. Luogo pre­di­let­to per il con­fron­to è il bar Char­lie, pic­co­lo e ac­co­glien­te, ma, pa­ri­men­ti, po­treb­be es­ser­lo qua­lun­que luogo caldo ed ospi­ta­le in cui ci si può rap­por­ta­re con l’al­tro senza pa­ra­men­ti o scher­ma­tu­re varie; per­ché, come spie­ga El­wood ad una gio­va­ne cop­pia, tutti, at­tor­no ad un ta­vo­li­no, sor­seg­gian­do qual­che Mar­ti­ni, ini­zia­no a rac­con­ta­re per ore e ore “delle im­men­se, or­ri­bi­li cose che hanno fatto e delle im­men­se, belle cose che faranno…​tutto è im­men­so per­ché nes­sun uomo porta mai nien­te di pic­co­lo in un bar”. Le per­so­ne col matto si apro­no per­ché è lui che crea i pre­sup­po­sti, che di­spo­ne le basi per un rap­por­to, forse non du­re­vo­le, es­sen­do que­sti dei per­fet­ti sco­no­sciu­ti, ma è, co­mun­que, un rap­por­to vero. Ed ecco che i pas­seg­ge­ri, come can­ta­va Iggy Pop, che sono ar­ri­va­ti, se ne vanno, senza più farsi ri­ve­de­re, ma con il sor­ri­so. La de­li­zio­sa sce­neg­gia­tu­ra della Chase offre di­ver­si spun­ti in­te­res­san­ti a se­con­da di chi o come la si guar­da ma, con il per­mes­so o, me­glio, l’in­vi­to dello stes­so El­wood a ci­tar­lo, con­clu­dia­mo con que­sto mo­ni­to: “in que­sto mondo devi es­se­re o molto astu­to o molto ama­bi­le. Io pre­fe­ri­vo l’a­stu­zia ma con­si­glio l’a­ma­bi­li­tà”.

http://www.storiadeifilm.it/commedia/commedia/henry_koster-harvey(universal_international-1950).html


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