Ueber Anmuth und Würde – Ueber das Erhabene Schiller by Gutenberg – 1 poesia

Ueber Anmuth und Würde von Friedrich Schiller – Text im Projekt .

Ueber das Erhabene von Friedrich Schiller – Text im Projekt Gutenberg

angoscia della caducità è il vero punto di partenza di Schiller. Nulla è più terribile della rappresentazione della morte, dell’impossibilità di fissare per sempre la pienezza dell’essere. “Anche il bello deve morire! ” è la solenne esclamazione iniziale di una delle sue più compiute composizioni liriche, la Nänie. E la morte è anche il tema ricorrente di questi tre saggi sul sublime e sul patetico. Privata di questa sua tragica dimensione, la cultura estetica rischia di diventare una cultura della menzogna, un occultamento della caducità dell’esistenza e delle sue forme. Il sublime deve quindi “accompagnarsi al bello”, nel senso di esprimere la sua più profonda e tragica dimensione, rivelando il caos che si cela dietro l’armonia e la razionalità delle forme, l’orrore della caducità; mentre la cultura della mera bellezza è denunciata come mistificazione, come cultura della décadence. Il sentimento del sublime è dunque un gesto di rinuncia: di riconoscimento dei limiti della soggettività; ma è anche un gesto di utopia: di fondazione del proprio essere nel mondo. La tragicità dell’esistente, i limiti del sensibile (dell’intelletto) si rovesciano continuamente nel sentimento del sublime in valore, nella percezione dell’infinità della natura razionale dell’uomo. (Dallo scritto di Luigi Reitani)

http://www.ibs.it/code/9788884162694/schiller-friedrich/del-sublime.html

Sulla grazia / di Friedrich Schiller
sabato 8 aprile 2006, di Redazione Antenati– 5000 letture

Nella dignità… Lo spirito si comporta da padrone del corpo, perché qui esso deve affermare la sua autonomia contro l’imperioso istinto, che procede ad azioni senza di lui e vorrebbe sottrarsi al suo giogo. Nella grazia invece governa con liberalità, perché qui è lui che mette in azione la natura e non trova alcuna resistenza da vincere… La grazia sta dunque nella libertà dei moti volontari; la dignità nel dominio di quelli involontari. La grazia lascia una parvenza di spontaneità alla natura, là dove questa adempie gli ordini dello spirito; la dignità invece la sottomette allo spirito, là dove essa vorrebbe regnare. Nella dignità… ci è presentato un esempio della subordinazione dell’elemento sensibile a quello morale… Nella grazia, invece la ragione vede la propria esigenza soddisfatta nella sensibilità. […] Avendo dignità e grazia campi diversi per la loro manifestazione, non si escludono vicendevolmente nella medesima persona; …anzi soltanto dalla grazia la dignità riceve la sua convalidazione, e soltanto dalla dignità la grazia riceve il suo valore.

(Schiller, Grazia e dignità)

In collaborazione con www.filosofico.net

8 giugno 2007, di : Dario Romeo

Prima di arrivare alla distinzione sopra riportata tra grazia e dignità bisogna passare da distinzioni più radicali e fondanti che Schiller opera e che giustificheranno la diversità e al contempo l’affinità esistenti tra grazia e dignità. Distinguiamo il bello dal sublime (si consideri che da entrambi questi concetti se ne diramano dicotomicamente altri che non si tratteranno in questa sede). Si ha la percezione del bello quando l’oggetto è contemplato sotto la specie della libertà, quando cioè non si contempla un oggetto per comprenderne le cause o la struttura in modo da imporgli un concetto che ne giudica la perfezione (nel qual caso lo si osserverà scientificamente) , né come causa finale (nel qual caso applicheremo ad esso la nostra volizione configurandolo come morale), ma semplicemente in ciò che esso è. Il bello è la libertà. Quel concetto che kantianamente rappresenta la chiave di volta della ragion pratica, è da Schiller trasferito nel giudizio estetico: non v’è bellezza se non v’è libertà. La bellezza è la libertà nel fenomeno. Si ha l’unione spontanea di immanenza e trascendenza nell’unità del fenomeno con la libertà, la vita con la forma, il senso con la ragione. Realmente poi, contemplando un oggetto bello, diviene bella, se pure solo momentaneamente, anche l’anima di chi contempla. Così Schiller ritiene il raggiungimento dell’idealità umana essere l’unione di impulso sensibile ed impulso formale. Tale collaborazione dà origine all’impulso al gioco che non è da considerarsi un terzo impulso a metà tra due dimensioni ontologicamente non mediabili, ma l’aufhebung, la sintesi dialettica tra i due. L’anima bella sarà l’anima che ha raggiunto questa mirabile sintesi tra sensibilità e ragione. Entrambi questi impulsi devono rimanere liberi ma nello stesso tempo equilibrati. Nel caso in cui la ragione schiacci la sensibilità si ha la tirannia; nel caso la sensibilità calpesti la ragione si ha l’anarchia. Nella misura in cui l’uomo è naturalmente unione di ragione e senso, tali forze devono agire in concomitanza. Solo in tal modo l’anima umana diverrà veramente umana. Solo così l’anima diverrà bella.

Se il bello è la perfetta sintesi delle facoltà umane, il sublime, principio patetico della tragedia, è invece ciò che permette all’uomo di percepire se stesso libero come essere razionale. Nella contemplazione di un fenomeno naturale che sovrasta il senso e lo umilia, la ragione si scopre libera ed indipendente rispetto al senso. Occorre che la tecnica non inibisca il sentimento di terrore facendo percepire la possibilità al soggetto contemplante di poter controllare l’impetuosità della forza della natura, e al contempo che egli sia al riparo da tale manifestazione in modo che la sua reale sussistenza non sia messa in effettivo pericolo. Così: il bello è unione di senso e ragione rispettando la libertà del senso; il sublime è la rivelazione della libertà della ragione. Infatti per una educazione estetica dell’umanità è d’uopo che la libertà del senso nel bello sia rafforzata dalla libertà dello spirito nel sublime.

Nel saggio Sul bello e sul sublime, Schiller vuole unire questi due geni tenuti, al momento, distinti. Lo fa partendo dalla analisi della bellezza umana. Essa si distingue, sotto la specie della fruizione estetica, in: bellezza umana architettonica e bellezza umana mossa. Quella architettonica è direttamente derivata dalla necessità della natura. Ammirare la bellezza architettonica del corpo umano significa cogliere la bellezza che la natura stessa gli ha dato, gli ha conferito, significa ammirarne la sua struttura naturale nella sua datità immediata, nella sua passività. La bellezza umana mossa è invece il complesso di manifestazioni corporali suscitato dai moti dell’anima. Tali movimenti possono essere: volontari o involontari. Se abbiamo detto che la bellezza è libertà potrebbe risultare evidente che sarà nei movimenti volontari (che presuppongono la libertà) a risiedere la bellezza. Ma riflettiamo un attimo. Cos’è la volontà se non l’ordinamento dei nostri atti psicologici e, successivamente, fisici in vista di un fine determinato? E fa parte della contemplazione estetica configurarsi un oggetto come fine? Si era detto di no. Al massimo fa parte della moralità. I movimenti volontari non esprimono dunque la bellezza. Saranno allora i movimenti involontari ad esprimerla? Involontari vuol dire non liberi. La costrizione, la necessità è in sé completamente inconciliabile col concetto di bellezza come libertà. Anche stavolta sarà una sintesi dialettica dei due concetti a darci la spiegazione. Questa sintesi sarà un movimento volontario che rende e-vidente la Gesinnung (il sentimento costante dello spirito) e non tende alla volizione di un oggetto particolare. Questo atto volontario è volontario in quanto è conforme alla Gesinnung ma è al contempo involontario perché non è il frutto di una singola decisione della volontà (Pareyson). A questa sintesi tra volontarietà (forma, ragione, libertà) e involontarietà (materia, senso, vita, necessità) nella figura umana diamo il nome di grazia. Essa è mediazione tra tutto ciò che abbiamo or ora detto, proprio come la bellezza! E se la grazia corrisponde alla bellezza, a cosa potrà corrispondere la dignità se non al sublime? La dignità è infatti il momento in cui è più visibile l’umiliazione del senso a contrasto con la libertà della ragione. Questa situazione la reperiremo nel dolore fisico: “la calma nel dolore diventa, sebbene indirettamente, la rappresentazione dell’intelligenza dell’uomo e l’espressione della sua libertà morale” (Schiller). In ultima analisi: la bellezza sta alla grazia come il sublime sta alla dignità. L’anima bella è espressa dalla grazia, l’anima sublime dalla dignità. Nell’unione di grazia e dignità si ha per Schiller il raggiungimento del tanto agnato ideale greco così come è esposto principalmente nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Il bello e il sublime sono nella figura umana l’espressione sensibile della volontà.: “il carattere è buono quando la sua espressione è bella, cioè quando la figura umana è piena di grazia, e la volontà è libera quando la sua espressione è sublime, cioè quando la figura è piena di dignità” (Pareyson). Questo è il ritratto dell’uomo ideale schilleriano, un uomo che in quanto bello è buono e che è buono solo se vuole essere bello. La moralità schilleriana è prima di tutto estetica. Non è l’imperatività del dovere a dettare legge tirannica sulla sensibilità ontologicamente imbizzarrita ma è il libero gioco delle parti concordate tramite l’educazione estetica che forma l’armonia necessaria alla bellezza, che una volontà buona non può non volere. Il buono vuole il bello nella misura in cui il bello genera il buono. La libertà vuole la ragione per essere valorizzata, la ragione vuole la libertà per essere autenticata. La grazia vuole la dignità per essere valorizzata, la dignità vuole la grazia per essere autenticata. E tutta questa armonia è la bellezza e se la volontà è buona , ovvero se la libertà è davvero valorizzata dalla ragione, allora non può non volere l’armonia della bellezza.

http://www.girodivite.it/Sulla-grazia-di-Schiller.html

Vita e opere

Johann Christoph Friedrich Schiller, poeta annoverato fra i massimi esponenti dello Sturm und Drang, nasce nel 1759 a Marbach e nella sua formazione culturale si ispira alle speculazioni di Kant, con cui ha in comune la formazione pietistica, ma non le vicende giovanili, che lo vedono come medico militare nell’esercito del ducato (1780). Nutrito dalle letture di Lessing, Klopstock, Shakespeare e Rousseau, nel 1781 redige un dramma libertario, I masnadieri, in cui si narra la storia di un giovane diseredato, al quale un fratello crudele impedisce ogni tipo di riscatto. Lasciato il servizio militare, Schiller si sposta prima a Mannheim, poi a Lipsia e infine a Dresda dove scrive il Don Carlos, tragedia del teatro preromantico in cui la profondità psicologica si fonde con la riflessione politica. Il Don Carlos prende le mosse dal conflitto tra il re spagnolo Filippo II e suo figlio Carlos, che si contendono l’amore di Elisabetta di Valois, moglie del sovrano, e si dipana in un’aspra critica all’assolutismo.

Trasferitosi a Weimar, dove stringe amicizia con i membri dello Sturm und Drang, Schiller ottiene, grazie all’intervento di Goethe, la nomina di professore universitario: e in questa occasione tiene pubblicamente la propulsione sul tema Che cosa significa e a qual fine si studia la storia universale. In questi anni conosce Reinhold e dà inizio alla sua riflessione sull’estetica, in cui tenta di conciliare la concezione rigoristica dell’etica kantiana con il sentimentalismo di Shaftesbury. Frattanto compone Sul fondamento del piacere prodotto da oggetti tragici (1791), Sull’arte tragica (1792), Sul sublime (1793) e le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795). Nel 1799 lascerà l’insegnamento per ritirarsi definitivamente a Weimar dove lavorerà ai suoi ultimi drammi, fino al 1805, anno del decesso.

Pensiero

La maturità filosofica di Schiller si inaugura con il saggio Sulla grazia e la dignità, in cui promuove l’unità armonica tra natura e spirito, in opposizione alla concezione kantiana di una ragione contrapposta all’istinto. In particolare Schiller introduce la dottrina dell’anima bella, nella quale trionfa la dignità della legge senza che ciò vada a scapito della grazia, ossia dello sviluppo armonico e organico di ogni facoltà dell’uomo. Scrive così:

Non ho un buon concetto dell’uomo che si può così poco fidare della voce dell’istinto e che deve farlo ogni volta tacere davanti alla legge morale; e piuttosto rispetto e stimo chi si abbandona con una certa sicurezza all’istinto, senza pericolo che questo lo svii: perché ciò dimostra che in lui i due principi si trovano già in quell’armonia che è il contrassegno dell’umanità compiuta e perfetta.

La dottrina dell’anima bella riceverà successivamente una forte critica da parte di Hegel, il quale scorgerà in essa l’atteggiamento di coloro che, per timore di venire macchiati dalle azioni, piuttosto si rinchiudono nella soggettività 1.

Il tema dell’unità fra natura e spirito trova in Schiller la sua migliore espressione nelle Lettere sull’educazione estetica (1793-1795), opera in cui viene sostenuta la doppia natura dell’uomo: quella di uomo fisico, da cui deriva l’istinto sensibile che lega alla materia e al tempo; e quella di uomo morale, da cui deriva l’istinto razionale, ovvero la tendenza all’affermazione della propria libertà. Tuttavia secondo Schiller nessuno di questi due istinti deve venir sacrificato, poiché se si sacrificasse quello razionale non potrebbe esserci un “io” e l’uomo rimarrebbe disperso nella materia e nel tempo; allo stesso modo se si sacrificasse l’istinto sensibile (come vorrebbe il rigorismo kantiano) l’uomo diverrebbe pura forma senza realtà. Occorre dunque conciliare i due istinti in modo che uno limiti l’altro e dar luogo all’istinto del giuoco, che porta la forma nella materia e la realtà nella forma razionale.

A questo punto della sua riflessione, Schiller unisce etica ed estetica attraverso il concetto della bellezza: infatti è attraverso quest’ultima che la natura umana trova la sua completa attuazione nel mondo. Attraverso l’azione della bellezza l’uomo sensibile è guidato alla forma e al pensiero e l’uomo spirituale è, invece, riportato alla materia. Inoltre, la presenza di questi due istinti è ciò che permette la libertà, intesa come uno stato di indeterminazione nel quale l’uomo non si trova costretto né fisicamente né moralmente. Difatti finché l’uomo è sottoposto all’istinto sensibile non può essere libero, ma lo diventa solo nel momento in cui, affermandosi anche l’altro istinto, si giunge a una condizione di opposizione tra i due. Pertanto, il problema inerente il raggiungimento della formazione integrale della personalità umana, potrà essere risolto solamente con un’educazione estetica che permetta all’uomo di separarsi dal mondo e, attraverso il gioco,  di sviluppare la tendenza ad agire in modo libero secondo le leggi.

In un altro scritto fondamentale, Sulla poesia ingenua e sentimentale, l’autore distingue tra poesia ingenua e poesia sentimentale, dove con la prima si intende lo stato primitivo di armonia tra l’uomo e la natura,e con la seconda la moderna condizione della ricerca dell’armonia perduta come ideale irraggiungibile.

1 Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, scrive: “La coscienza vive nell’ansia di macchiare con l’azione e con l’esserci l’onestà del suo interno; e, per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto dell’effettualità e s’impunta nella pervicace impotenza di darsi sostanzialità, ovvero di mutare il suo pensiero in essere. Quel vuoto oggetto ch’essa si produce la riempie ora dunque della consapevolezza della vuotaggine: il suo operare è l’anelare che non fa se non perdersi nel suo divenir oggetto privo di essenza, e che ricadendo, oltre questa perdita, in se stesso, si trova soltanto come alcunché di perduto: in questa trasparente purezza di tali momenti, una infelice anima bella, come la si suol chiamare, arde in se stessa e dilegua qual vana caligine che si dissolve nell’aria”

http://www.oilproject.org/lezione/schiller-goethe-masnadieri-anima-bella-lettere-educazione-estetica-10802.html






Die Teilung der Erde von Friedrich Schiller

»Nehmt hin die Welt!« rief Zeus von seinen Höhen
Den Menschen zu. »Nehmt, sie soll euer sein!
Euch schenk ich sie zum Erb und ewgen Lehen –
Doch teilt euch brüderlich darein!«

Da eilt’, was Hände hat, sich einzurichten,
Es regte sich geschäftig jung und alt.
Der Ackermann griff nach des Feldes Früchten,
Der Junker birschte durch den Wald.

Der Kaufmann nimmt, was seine Speicher fassen,
Der Abt wählt sich den edeln Firnewein,
Der König sperrt die Brücken und die Straßen
Und sprach: »Der Zehente ist mein.«

Ganz spät, nachdem die Teilung längst geschehen,
Naht der Poet, er kam aus weiter Fern –
Ach! da war überall nichts mehr zu sehen,
Und alles hatte seinen Herrn!

»Weh mir! So soll denn ich allein von allen
Vergessen sein, ich, dein getreuster Sohn?«
So ließ er laut der Klage Ruf erschallen
Und warf sich hin vor Jovis Thron.

»Wenn du im Land der Träume dich verweilet«,
Versetzt der Gott, »so hadre nicht mit mir.
Wo warst du denn, als man die Welt geteilet?«
»Ich war«, sprach der Poet, »bei dir.«

Mein Auge hing an deinem Angesichte,
An deines Himmels Harmonie mein Ohr –
Verzeih dem Geiste, der, von deinem Lichte
Berauscht, das Irdische verlor!«

»Was tun?« spricht Zeus, »die Welt ist weggegeben,
Der Herbst, die Jagd, der Markt ist nicht mehr mein.
Willst du in meinem Himmel mit mir leben –
So oft du kommst, er soll dir offen sein.«

Prendete il mondo! Disse Zeus dalle sue cime,

Agli uomini, prendete, sarà vostro.

Ve lo dono in eredità e in legato eterno,

Spartitelo però come fratelli.

Allora ciò che ha mani si affretta a sistemarsi,

Giovani e vecchi, tutti si affaccendano.

Il contadino colse i frutti della terra,

Il gentiluomo andò a caccia nel bosco.

Prende il mercante quanto sta nei magazzini,

L’abate sceglie il vino nobile invecchiato,

Il re mette barriere a ponti e strade,

E dice: la decima è mia.

Tardissimo, da tempo ormai si era spartito,

Giunse il poeta, veniva da lontano,

Ma ovunque non c’era più nulla in vista

E tutto aveva il suo padrone.

Povero me! Così fra tutti solo io

Sarò scordato, il tuo figlio più fedele?

Così risuonò alto il suo lamento

Ed egli si prosternò al trono di Giove.

Se tu indugiasti nella terra dei sogni,

Rispose il dio, con me non lamentarti.

Dov’eri mai quando si spartì il mondo?

Con te, disse il poeta, io stavo.

Il mio occhio era attratto dal tuo volto,

Il mio orecchio dall’armonia del cielo tuo.

Perdona allo spirito che, dalla tua luce inebriato,

Smarrì ciò che è terreno!

Che fare! Disse Zeus, già preso è il mondo,

Non son più miei l’autunno, la caccia e il mercato.

Se tu con me vuoi viver nel mio cielo,

Quando verrai per te rimarrà aperto.

da Poesie filosofiche, 2005 (Traduzione di Giovanna Pinna)

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