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Potenza e atto come principi dinamici della realtà

Dopo aver discusso del problema generale dell’essere e della sostanza articolandolo in quattro significati fondamentali, Aristotele dedica l’intero libro IX della Metafisica alla trattazione del quarto significato, vale a dire l’essere come potenza e come atto. Nel brano che segue (Metafisica, IX, 1, 1046 a 4 – a 16; 3, 1046 b 28 – 1047 b 3) egli introduce la nozione di “essere in potenza” e la difende contro la sua negazione da parte dei megarici che, ispirandosi all’assolutismo parmenideo, affermavano l’esistenza del solo essere in atto. È invece necessario – sostiene Aristotele – distinguere tra potenza e atto allo scopo di riconoscere entrambi gli aspetti come fattori costitutivi della sostanza. Infatti, se si ammettesse solo l’essere in potenza, ci troveremmo in un mondo eracliteo in continuo divenire, peraltro contraddetto dal fatto che ciò che è in potenza deve in qualche modo “essere”, cioè essere in atto; se invece si ammettesse, come fanno appunto i megarici, il solo essere attuale, ci troveremmo di fronte ad ancor più gravi assurdità, poiché verrebbe soppresso il divenire, cioè il movimento, la trasformazione e le forze che caratterizzano la natura.

Il significato primario di “potenza” in senso naturale come principio del mutamento sia passivo sia attivo.

«La potenza e il potere sono parole suscettibili di molti significati. Di questi molteplici significati possono essere tralasciati quelli che si esprimono per mera omonimia: alcune cose, infatti, son dette potenze solo in base ad una certa similitudine, così come in geometria diciamo che alcune cose sono in potenza o non sono in potenza certe altre, a seconda che siano o non siano in un certo modo. Invece le potenze conformi ad una stessa specie sono, tutte quante, in un certo senso principi, e sono dette potenze in relazione a quella che è potenza in senso primario e che è principio di mutamento in altra cosa o nella medesima cosa in quanto altra. Infatti, (1) c’è una potenza di patire, la quale è – nel paziente stesso – il principio di mutamento passivo ad opera di altro o di sé in quanto altro; e (2) c’è, invece, una potenza che è capacità di non subire mutamenti in peggio né distruzione ad opera di altro o di sé in quanto altro ad opera di un principio di mutamento. In tutte queste definizioni è contenuta la nozione di potenza nel senso originario. […]

Le assurdità della concezione megarica secondo cui l’essere è sempre in atto: essa nega il fatto che le cose abbiano anche delle “capacità” di essere, e non siano già attualmente.

Ci sono alcuni pensatori, come ad esempio i Megarici, i quali sostengono che c’è la potenza solamente quando c’è l’atto, e che quando non c’è l’atto non c’è neppure la potenza. Per esempio colui che non sta costruendo – secondo costoro – non ha la potenza di costruire, ma solo colui che costruisce e nel momento in cui costruisce; e cosi dicasi per tutti gli altri casi. Le assurdità che derivano da queste asserzioni sono facilmente comprensibili. (a) Infatti, è chiaro che uno non potrebbe essere costruttore se non nell’atto di costruire, mentre, in realtà, l’essere costruttore consiste nell’aver la capacità di costruire. E così dicasi per le altre arti. Ora, se è impossibile possedere queste arti senza averle imparate e apprese in un dato momento, e se non è possibile non possederle più senza averle perdute (o per averle dimenticate, o per effetto di una malattia, o per il tempo trascorso; non comunque per essersi distrutto l’oggetto dell’arte, perché questo esiste perennemente), allora, stando a quanto dicono i Megarici, quando uno avrà cessato di costruire, non possederà più l’arte, e tuttavia, poi, potrà improvvisamente riprendere a costruire; ma come può riacquistare l’arte?

Inoltre, nella concezione megarica la percezione non dipende da una “facoltà” di sentire, ma esiste solo come percezione attuale. In questo modo una condizione sostanziale viene ridotta a un semplice dato di fatto (per esempio: si è ciechi se non si vede in atto).

(b) Lo stesso vale anche per le cose inanimate: infatti, né il freddo, né il caldo, né il dolce, né, in genere, alcun sensibile potrà esistere se non sarà attualmente percepito. Cosicché ai Megarici accadrà di sostenere la stessa dottrina di Protagora. (c) E, anzi, uno non potrà più neppure avere la facoltà di sentire, se non starà sentendo e non starà esercitando in atto questa facoltà. Allora, se cieco è chi non ha la vista – mentre per sua natura dovrebbe averla e al momento in cui per natura dovrebbe averla e nel modo in cui dovrebbe averla –, ne consegue che i medesimi animali saranno ciechi più volte al giorno, e così anche i sordi. (d) Inoltre, se impotente è ciò che è privo di potenza, ciò che non si è prodotto sarà impotente a prodursi; e mentirà colui che afferma che è o sarà ciò che è impotente a prodursi: questo, infatti, dicemmo essere il significato di impotente. Pertanto queste dottrine megariche sopprimono il movimento e il divenire: infatti, chi è in piedi dovrà stare sempre in piedi e chi è seduto dovrà stare sempre seduto; e, se sta seduto, non potrà più alzarsi in piedi: infatti, chi non ha la potenza di alzarsi non potrà alzarsi.

Occorre ammettere la distinzione, nel medesimo essere, tra potenza e atto: una cosa è in potenza non se “necessariamente” si traduce in atto, ma solo se non è impossibilitata a farlo.

Se, dunque, queste affermazioni sono assurde, è evidente che la potenza e l’atto sono diversi l’una dall’altro; quei ragionamenti, invece, riducono la potenza e l’atto alla medesima cosa, e perciò essi cercano di eliminare una differenza che è tutt’altro che di scarsa entità. Pertanto può darsi che una sostanza sia in potenza ad essere e che, tuttavia, non esista, e, anche, che una sostanza sia in potenza a non essere e che, tuttavia, esista. Lo stesso vale anche per le altre categorie: può darsi che colui che ha la capacità di camminare non cammini, e che colui che non sta camminando abbia la capacità di camminare. Una cosa è in potenza se il tradursi in atto di ciò di cui essa è detta aver potenza non implica alcuna impossibilità. Faccio un esempio: se uno è in potenza a sedersi e può sedersi, quando dovrà realmente sedersi, non avrà alcuna impossibilità a farlo. E similmente dicasi quando si tratti di potenza di essere mosso o di muovere, di star fermo o di fermare, di essere o di divenire, di non essere o non divenire.

Anche la nozione di “atto”, come quella di “potenza”, è dunque strettamente collegata alla nozione di “movimento”. Infatti il movimento viene negato solo a ciò che non esiste.

Il termine “atto”, che si collega strettamente a quello di “entelechia”, anche se si estende agli altri casi, deriva soprattutto dai movimenti: sembra, infatti, che l’atto sia principalmente il movimento. Per questa ragione alle cose che non esistono non si attribuisce il movimento, mentre si attribuiscono altri predicati: per esempio si può dire che le cose che non esistono sono pensabili e desiderabili, non, invece, che sono in movimento. E questo perché, mentre non sono in atto, dovrebbero essere in atto. Infatti, fra le cose che sono, alcune sono in potenza: tuttavia non esistono di fatto, perché appunto non sono in atto».

Aristotele, Metafisica, trad. it. di G. Reale, cit., vol. II, pp. 41-46.

http://ebook.scuola.zanichelli.it/grammatichedelpensiero/volume-1/aristotele/l-ontologia-la-teoria-della-sostanza-e-la-teologia/potenza-e-atto-come-principi-dinamici-della-realta#81

Aristotele

Potenza e atto

La funzione della sostanza nel divenire conferisce alla sostanza stessa un nuovo significato. Essa acquista un valore dinamico, si identifica col fine (telos), con l’azione creatrice che forma la materia, con la realtà concreta dell’essere singolo in cui il divenire si compie. In tal senso la sostanza è atto: attività, azione, compiutezza. Aristotele identifica la materia con la potenza, la forma con l’atto. La potenza (dynamis) è in generale la possibilità di produrre un mutamento o di subirlo. C’è la potenza attiva che consiste nella capacità di produrre un mutamento in sé o in altro (come, per esempio, nel fuoco la potenza di riscaldare e nel costruttore quella di costruire); e la potenza passiva che consiste nella capacità di subire un mutamento (come, per esempio, nel legno la capacità di infiammarsi, in ciò che è fragile la capacità di andare in pezzi). La potenza passiva è propria della materia; la potenza attiva è propria del principio d’azione o causa efficiente.
L’atto (enérgheia) è invece l’esistenza stessa del l’oggetto. Esso sia alla potenza «come il costruire al saper costruire, l’esser desto al dormire, il guardare al tener chiusi gli occhi pur avendo la vista e come l’oggetto cavato dalla materia ed elaborato compiutamente sta alla materia grezza e all’oggetto non ancora finito» (Met., IX, 6, 1048 b). Alcuni atti sono movimenti (kinesis), altri sono azioni (praxis). Sono azioni quei movimenti che hanno in se stessi il loro fine. Per esempio, il vedere è un atto che ha in se stesso il suo fine e così l’intendere e il pensare; mentre l’apprendere, il camminare, il costruire hanno fuori di sé il loro fine nella cosa che si apprende, nel punto verso cui si vuole arrivare, nell’oggetto che si costruisce. Questi atti sono detti da Aristotele, non azioni, ma movimenti o movimenti incompiuti.
L’atto è prima della potenza. E prima rispetto al tempo: giacché è vero che il seme (potenza) è prima della pianta, la capacità di vedere prima dell’atto di vedere; ma il seme non può essere derivato che da una pianta e la capacità di vedere non può essere propria che di un occhio che vede. L’atto è prima anche per la sostanza, giacché quello che nel divenire è ultimo, la forma compiuta, è sostanzialmente prima: per esempio, l’adulto è anteriore al fanciullo e la pianta al seme, in quanto l’uno ha già realizzato la forma che l’altro non ha. La gallina vien prima dell’uovo, secondo Aristotele. La causa efficiente del divenire deve precedere il divenire stesso e la causa efficiente è atto. Anche dal punto di vista del valore l’atto è anteriore giacché la potenza è sempre possibilità di due contrari; per esempio, la potenza di essere sano è anche potenza di esser malato; ma l’atto di esser sano esclude la malattia. L’atto è dunque migliore della potenza.
L’azione perfetta che ha in sé il suo fine è detta da Aristotele atto finale o realizzazione finale (entelechia). Mentre il movimento è il processo che porta gradualmente all’atto ciò che prima era in potenza, l’entelechia è il termine finale (telos) del movimento, il suo completamento perfetto. Ma come tale, l’entelechia è anche la realizzazione compiuta e quindi la forma perfetta di ciò che diviene; è la specie e la sostanza. L’atto si identifica dunque in ogni caso con la forma o specie e, quando è atto perfetto o realizzazione finale, si identifica con la sostanza. Questa è la stessa realtà in atto ed il principio di essa. Di fronte ad essa, la materia considerata in sé, cioè come pura materia o materia prima, assolutamente priva di attualità o di forma, è indeterminabile e inconoscibile e non è sostanza (Met., VII, 10, 1036 a, 8; IX, 7, 1049 a, 27).
La materia prima è il limite negativo dell’essere come sostanza, il punto dove cessa insieme l’intellegibilità e la realtà dell’essere. Ma ciò che si chiama comunemente materia, per esempio il fuoco, l’acqua, il bronzo, non è materia prima, perché ha già in sé in atto una determinazione e quindi una forma; è materia, cioè potenza, rispetto alle forme che può assumere, mentre è già, come realtà determinata, forma e sostanza. Se conoscere la realtà e il perché di una cosa significa conoscerne la sostanza mediante la specie o forma (che è appunto la sostanza delle realtà composte o sinoli), la materia rappresenta il residuo irrazionale della conoscenza, così come la sostanza rappresenta il principio o la causa non solo dell’essere ma anche dell’intellegibilità dell’essere come tale.

http://www.parodos.it/filosofia/arispotenza.htm

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