F. Durrenmatt Racconti pdf free: IL VECCHIO – IL DIRETTORE DEL TEATRO da link , i fisici pdf

con il suo pappagallo Lulu, 1979, fotografia: Peterhofen/Stern

IL VECCHIO.

Le ondate dei carri armati varcarono le colline con un impeto tale da rendere

vana ogni resistenza. Eppure gli uomini combatterono ugualmente, forse perché

fidavano in un miracolo. Suddivisi in gruppi isolati, si nascosero nelle buche

del terreno. Alcuni si arresero, i più caddero, e solo pochi fuggirono nei

boschi. Poi la battaglia cessò, improvvisa, come talora fanno i temporali. Chi

era ancora vivo, gettò le armi e si fece incontro al nemico con le mani alzate.

Il terrore paralizzava la gente. I soldati stranieri dilagarono per il paese

come cavallette. Entrarono nelle antiche città. Camminavano a passi pesanti per

le strade e quando si faceva sera spingevano la gente nelle case. Pesanti mezzi

cingolati attraversavano i villaggi, spesso abbattendo le capanne che gli

crollavano addosso, perché nei villaggi la resistenza non si era ancora spenta.

Era una resistenza che covava di nascosto, nelle occhiate dei ragazzi, nei

movimenti misurati degli uomini anziani, nell’incedere delle donne. Era una

resistenza che appestava l’aria, al punto che gli stranieri la respiravano come

l’odore di un’epidemia. Dai boschi spuntavano uomini, ora isolati, ora a gruppi,

e sparivano di nuovo nelle foreste impenetrabili, dove nessuno straniero osava

seguirli. Non c’erano ancora stati scontri col nemico, ma furono trovate morte

persone che avevano collaborato con lui. Poi venne la sollevazione. Adolescenti

e anziani si gettarono con vecchi fucili sul nemico, che rispose ai colpi come

liberato da un incubo; si videro donne avventarsi con falci e forconi. La

battaglia durò una notte e un giorno, poi la rivolta finì di colpo. I villaggi

furono circondati, gli abitanti rastrellati e abbattuti a colpi di

mitragliatrice. I boschi in fiamme rischiararono le notti per intere settimane.

Poi venne la quiete, quella quiete che c’è nella tomba quando la terra copre

ormai la bara. La gente si comportava come se non fosse successo nulla. Seppellì

i suoi morti. Il contadino tornò all’aratro, l’artigiano all’officina. Ma,

profondo in ognuno, attecchì un sentimento che non avevano mai conosciuto prima:

l’odio. S’impadronì di loro, li riempì d’una forza rovente e ne condizionò

l’esistenza. Non era l’odio impaziente e furioso che deve agire con

precipitazione per poter vivere, era un odio capace di aspettare, per anni,

annidato dentro, non in superfice, ma in profondità, tutt’uno con la loro

natura, che non aveva bisogno d’una via di sfogo, e s’insinuava piuttosto come

una spada nell’animo, non per distruggerlo, bensì per temprarlo come acciaio con

la sua vampa. Ma come la luce delle stelle che si muovono a enormi distanze

trova la via per giungere a noi, così quell’odio era diretto verso una figura

che si manteneva tutta sullo sfondo, da qualche parte dell’oscurità

impenetrabile, invisibile come molte figure dell’abisso, conosciuta solo come

fonte di tutti gli orrori dell’inferno da essi sopportati, e l’odio degli

oppressi si volse verso questa figura – la chiamavano il Vecchio – tanto che i

soldati stranieri divennero loro indifferenti ed apparvero spesso ridicoli.

Intuivano coll’istinto dell’odio che quegli uomini, apparentemente tutti uguali

nelle loro uniformi, con gli elmetti d’acciaio e i corti stivali, non li

tormentavano per crudeltà, ma perché erano completamente in potere del Vecchio.

Quei soldati agivano come strumenti privi di volontà, senza libertà, senza

speranza, senza senso e senza passione, sperduti nel paese altrui, fra gente che

li disprezzava in quanto stranieri penetrati nel suo paese, come sono

disprezzati gli strumenti di tortura e come è giudicato infame il boia. Su tutti

gravava una smisurata costrizione che incatenava insieme oppressi e oppressori

come schiavi di una stessa galera, succubi del potere del Vecchio. Si accanivano

gli uni contro gli altri, senza più traccia di umanità, e quanto più il popolo

odiava, tanto più crudeli diventavano i soldati stranieri. Torturavano donne e

bambini per non sentire i tormenti che essi stessi dovevano sopportare. Tutto

era ineluttabile, come è ineluttabile il contenuto dei libri di matematica.

L’esercito straniero era una macchina immensa e complicata che incombeva su quel

paese e lo schiacciava, ma da qualche parte doveva esserci il cervello che la

guidava e se ne serviva per raggiungere i suoi obiettivi, un essere di carne e

sangue, da odiare con tutti i sentimenti, e questi era il Vecchio, di cui

osavano parlare solo bisbigliando, quando erano fra di loro. Nessuno l’aveva mai

visto, non ne avevano mai udita la voce, non ne sapevano nemmeno il nome, le

disposizioni crudeli che dovevano subire recavano firme di generali qualsiasi

che ubbidivano al Vecchio senza averlo mai conosciuto, e che s’illudevano forse

di agire a propria discrezione.

Conoscere l’esistenza del Vecchio, e odiarlo, era la forza segreta degli

oppressi, quella che li rendeva superiori ai nemici. I soldati stranieri non

odiavano il Vecchio, non sapevano niente di lui, come le parti d’una macchina

non sanno nulla dell’uomo che le manovra, non odiavano nemmeno il popolo da loro

oppresso, però ne sentivano aumentare l’odio, diretto contro qualcosa che non

conoscevano ma che doveva essere misteriosamente connesso a loro. Si vedevano

trattare dal popolo con disprezzo crescente, e divennero sempre più crudeli e

impotenti. Non sapevano quello che facevano, né perché si trovavano fra quella

gente estranea che li odiava con tanta mortale ostinazione. C’era un’entità

superiore che si comportava con loro come si agisce con animali addestrati a far

questa o quell’altra cosa. E vivevano così, come spettri vaganti nelle lunghe

notti d’inverno.

Su tutti però, sui soldati stranieri, sui contadini e sulla gente nelle antiche

città, volteggiavano giorno e notte giganteschi uccelli d’argento che, come il

popolo credeva di sapere, erano agli ordini diretti del Vecchio. Volteggiavano

altissimi, tanto che si coglieva solo di rado il ruggito dei loro motori. Di

tanto in tanto scendevano in picchiata come avvoltoi dalle loro altezze, e

scagliavano il loro carico mortale sui villaggi che s’infiammavano rossi sotto

di loro, oppure sulle loro stesse colonne che non avevano eseguito abbastanza

sollecitamente gli ordini.

Poi però l’odio degli oppressi raggiunse il livello in cui perfino gli esseri

più deboli divengono capaci delle più alte imprese, e a una giovane donna toccò

il compito di trovare colui che odiavano più di ogni altra cosa al mondo. Non

sappiamo come lei riuscisse a trovarlo. Possiamo solo supporre che l’odio

estremo renda le persone chiaroveggenti e inattaccabili. Giunse fino a lui senza

che nessuno cercasse d’ostacolarla. Lo trovò solo in una piccola sala antica,

dalle finestre spalancate irrompeva la luce del sole e penetrava il cinguettio

degli uccelli, e c’erano, alle pareti, antichi libri e busti di pensatori. Non

vi era nessun segno a indicare che fosse proprio lui in quella sala, eppure lo

riconobbe. Sedeva chino su una grande carta, gigantesco e immobile. Alzò

tranquillo lo sguardo su di lei, la mano posata su un grosso cane accucciato ai

suoi piedi. In quello sguardo non c’erano né minacce né domande. Lei si fermò e

comprese d’aver perso la partita. Tolse tuttavia ugualmente la rivoltella dalle

pieghe dell’abito e la puntò sul Vecchio. Questi non sorrise nemmeno. Guardò la

donna con indifferenza e infine, quando capì, allungò un po’ la mano, come si fa

coi bambini che vogliono regalarci qualcosa. Lei si avvicinò e poggiò la

rivoltella sulla mano aperta, che la cinse piano e la depose lentamente sul

tavolo. Tutti questi movimenti erano stati di per sé silenziosi, e la vicenda

nel suo complesso aveva qualcosa d’infantile, eppure, contemporaneamente, tutto

fu spaventosamente insensato e irrilevante. Quindi lui abbassò gli occhi e

guardò la carta, come se avesse già dimenticato l’accaduto. Lei voleva fuggire,

ma a questo punto il Vecchio cominciò parlare.

«E’ venuta per uccidermi,» disse. «Quello che voleva fare è del tutto inutile.

Non c’è nulla di più insignificante della morte.» Parlò lentamente, e la sua

voce aveva un suono gradevole, ma non pareva attribuire alle parole la benché

minima importanza. «Da dove viene?» chiese poi, senza distogliere lo sguardo

dalla carta, e quando lei glielo disse, osservò, dopo una lunga pausa durante la

quale aveva cercato con cura sulla carta, che quella città avrebbe dovuto essere

distrutta perché era contrassegnata da un segno rosso. Poi tacque e cominciò a

tracciare grandi linee sulla carta, in lungo e in largo. Erano linee marcate,

fantastiche, quelle che tracciò, secondo strane curve d’una singolare simmetria,

di quelle che costringono l’occhio a seguirle e che però tendono immancabilmente

a confondere la vista. Era a pochi metri da lui e lo guardava, chino come una

sinistra massa scura sulla carta. Stava lì, al sole della sera che riversava oro

delicato sul Vecchio. Lui non badava al sole e non badava alla donna che aveva

voluto ucciderlo e che aveva fallito. Era sospeso nel vuoto, dove non esistono

più relazioni né responsabilità nei confronti degli altri. Non odiava gli esseri

umani, non li disprezzava, non faceva loro caso, e la donna intuì che proprio in

questo atteggiamento risiedesse l’origine misteriosa del suo potere. Gli rimase

davanti come una condannata, incapace di odiarlo, aspettando di morire per mano

sua. Poi però la donna capì che aveva dimenticato lei e il suo gesto, che poteva

andarsene, dove voleva, ma anche che questa era la sua vendetta, più spaventosa

della morte che annienta. Si avviò lentamente verso la porta.

Ed ecco che il cane nero ai suoi piedi si mise ad abbaiare furiosamente. La

donna si girò verso il Vecchio e lui sollevò lo sguardo. La mano afferrò la

rivoltella con cui lei avrebbe voluto ucciderlo. Poi vide l’arma poggiata sul

palmo della mano, che le si offriva. Così, con un gesto disumano, infinitamente

umiliante, superò l’abisso fra di loro e scoprì l’intima essenza del suo potere,

che doveva alla fine distruggere se stesso come tutte le cose basate

sull’assurdo. Lo guardò negli occhi, che la fissavano senza irrisione e senza

odio, ma anche senza bontà, e che non intuivano di averle restituito tutto

quello che le aveva tolto, l’odio e la forza di ucciderlo. Prese con calma

l’arma dalla sua mano, e quando sparò avvertì quell’odio che gli esseri umani

talvolta nutrono verso dio. Lui poggiò con cura sul tavolo la matita con cui

aveva tracciato i segni sulla carta, poi però cadde lentamente, come

un’antichissima quercia divina abbattuta, e il cane leccò tranquillo il volto e

le mani del morto, senza minimamente curarsi della donna.

IL DIRETTORE DEL TEATRO.

L’uomo al quale la città doveva soccombere viveva già fra di noi quando non gli

facevamo ancora caso. Lo notammo solo quando cominciò a dare nell’occhio con un

comportamento che ci parve ridicolo, tanto è vero che in quei tempi ci si

burlava parecchio di lui: eppure, quando divenimmo attenti, aveva già la

direzione del teatro. Non ridevamo di lui come si ride di persone buffe per

ingenuità o arguzia, bensì come a volte si ride di cose sconce. Tuttavia è

difficile dire cosa ci inducesse a ridere nei primi tempi della sua comparsa,

tanto più che in seguito lo trattammo non solo con rispetto servile – e questo

ci era ancora comprensibile, quale segno di timore – ma anche con franca

ammirazione. Singolare era soprattutto il suo aspetto. Era piccolo di statura.

Aveva un corpo che sembrava senz’ossa, tanto che emanava da lui un che di

viscido. Non aveva capelli, e nemmeno sopracciglia. Si muoveva come un funambolo

che teme di perdere l’equilibrio, a passi silenziosi la cui velocità variava

senza criterio. Aveva una voce bassa ed esitante. Quando aveva davanti una

persona, volgeva sempre lo sguardo su oggetti inanimati. Però è incerto quando

presagimmo per la prima volta in lui la possibilità del male. Forse avvenne

quando si fecero evidenti, in palcoscenico, certe innovazioni che gli si

dovevano attribuire. Forse: poiché occorre considerare che certi mutamenti che

avvengono genericamente in campo estetico non sono messi ancora in relazione col

male quando richiamano per la prima volta la nostra attenzione: pensavamo allora

a una mancanza di gusto piuttosto, oppure ridevamo della sua supposta stupidità.

Quelle prime rappresentazioni a teatro con la sua regia non avevano ancora,

comunque, il significato di quelle che dovevano diventar famose in seguito,

eppure contenevano già elementi rivelatori del suo piano. Singolare era, per

esempio, una tendenza alla fissità che caratterizzava già in quel primo periodo

i suoi allestimenti, e c’era già anche quell’astrazione nelle strutture che si è

più tardi tanto accentuata. Non erano dettagli prevaricanti, eppure

s’infittivano gli indizi di un preciso disegno, che noi intuivamo senza però

poterlo valutare. Lo si poteva paragonare a un ragno che si accingesse a tessere

una rete enorme, e che tuttavia, nel farlo, procedesse secondo un apparente

disordine, ed era forse proprio questo disordine, a sua volta, che ci induceva a

ridere di lui. Ovviamente col tempo ci fu chiaro che mirava a poco a poco

impercettibilmente a emergere, e dopo la sua elezione in parlamento se ne

accorsero tutti. Abusando del teatro, cominciò ad ammaliare la folla proprio

dove nessuno sospettava l’esistenza d’un pericolo. Io comunque divenni

consapevole di questo pericolo solo quando i mutamenti in scena ebbero raggiunto

un grado che tradì l’intento segreto del suo operato: come in una partita a

scacchi, comprendemmo la mossa che ci annientò solo quando era già stata fatta,

troppo tardi. Ci siamo poi chiesti spesso cosa induceva la gente ad accorrere al

suo teatro. Dovemmo confessarci che era difficile dare risposta a questa

domanda. Pensammo a un istinto malefico che coarta gli uomini a cercare i propri

carnefici, per abbandonarsi al loro arbitrio, perché con quei cambiamenti

tendeva a minare la libertà facendola apparire impossibile, al punto che la sua

arte costituiva un’aggressione sfrontata al senso stesso dell’umanità.

Quest’intento lo induceva ad eliminare ogni fattore di casualità e a motivare

tutto nel modo più meticoloso, tanto che gli eventi in scena soggiacevano a una

mostruosa costrizione. Notevole era anche il modo in cui procedeva col

linguaggio, del quale eliminava gli elementi che differenziano i singoli autori,

fino a falsarne il ritmo naturale e a ridurlo alla cadenza uniforme, snervante

dello stantuffare dei pistoni. Gli attori si muovevano come marionette, ma la

forza motrice che determinava il loro agire non si manteneva nell’ombra, era

anzi essa stessa a mostrarsi più di ogni altra cosa, come una violenza

insensata, tanto che pareva di avere davanti un meccanismo in cui si creasse una

sostanza che doveva necessariamente distruggere il mondo. Occorre menzionare a

questo punto anche il modo in cui utilizzava luci e ombre, che non gli servivano

per rimandare a spazi infiniti e per stabilire così una connessione col mondo

della fede, bensì per rivelare la limitatezza della scena, nel senso che strani

blocchi cubici delimitavano e frenavano la luce, e ciò gli valse la definizione

maestro della forma astratta; mediante espedienti occulti evitava anche ogni

penombra, così che l’azione pareva svolgersi negli spazi angusti d’un carcere.

Usava solo il rosso e il giallo, e d’un fulgore tale da ferire l’occhio.

L’effetto più diabolico consisteva però nel conferire impercettibilmente a ogni

evento un senso diverso, e i generi cominciarono a confondersi fra di loro, nel

senso che la tragedia mutava in commedia, e la farsa diventava tragedia.

Sentivamo parlare spesso, allora, anche delle sollevazioni di quegli infelici

che erano smaniosi di migliorare la loro sorte mediante il ricorso alla

violenza, eppure erano sempre ancora pochi quelli che prestavano fede al

sospetto che fosse da ricercare in lui l’origine propulsiva di quegli episodi.

Di fatto tuttavia il teatro gli servì, fin dall’inizio, solo come strumento per

raggiungere quel potere che doveva in seguito svelarsi come rozza tirannia della

spaventosa violenza. Ciò che ci impedì in quel periodo di comprendere meglio il

senso di quegli avvenimenti fu la circostanza che cominciò a profilarsi in

termini sempre più inquietanti, per chi avesse saputo vedere, e cioè la vicenda

di un’attrice. La sorte di lei era singolarmente connessa con quella della

città, e lui tentò di distruggerla. Quando tuttavia le sue intenzioni su di lei

divennero evidenti, la sua posizione nella nostra città era così salda ormai che

poté compiersi il destino crudele di quella donna, un destino che doveva

risultare fatale a tutti e nemmeno coloro che avevano intuito la natura

dell’opera di corruzione ebbero il potere d’impedirlo. Fu sconfitta perché

disprezzava il potere impersonato da lui. Non era famosa prima che egli

assumesse la direzione del teatro, tuttavia aveva in compagnia una posizione

incontestata, pur di scarsa rilevanza, e per il generale rispetto di cui godeva,

poteva esercitare la sua arte senza quelle concessioni che altri, più ambiziosi

e più importanti di lei, dovevano fare al pubblico: ed è anche significativo che

egli si sia servito di questa circostanza per distruggerla. Cioè sia riuscito a

provocare la rovina della persona approfittando delle sue virtù.

L’attrice non si era sottomessa alle sue disposizioni. Non badava ai cambiamenti

che avvenivano in teatro, tanto da distinguersi sempre di più dagli altri. E fu

proprio questa constatazione però a riempirmi di preoccupazione, perché saltava

all’occhio che lui non faceva nulla per costringerla ad assoggettarsi alle sue

disposizioni. Fu un piano suo. A quanto si diceva, in una sola circostanza, poco

dopo aver assunto la responsabilità del teatro, le aveva fatto un’osservazione

sul suo modo di recitare; non sono però mai riuscito a sapere qualcosa di più

preciso su questa disputa. Da quella volta comunque la lasciò in pace e non fece

nulla per allontanarla dal teatro. Anzi le fece assumere una posizione di sempre

maggiore spicco, tanto che col tempo ebbe il ruolo di maggior rilievo nella

compagnia pur non essendo all’altezza di questo compito. Ci insospettì proprio

questo suo modo di procedere, perché così l’arte di lei e la concezione di lui

si contrapposero al punto da far apparire inevitabile uno scontro, tanto più

pericoloso quanto più tardi si fosse verificato. C’erano anche chiari sintomi

che la posizione di lei cominciava decisamente a cambiare. Se prima il suo modo

di recitare era stato acclamato dal pubblico e acriticamente lodato da tutti (la

consideravano una sua grande scoperta), cominciarono a questo punto a levarsi

voci che tendevano a rimproverarla e a rinfacciarle di non essere all’altezza

della regia, e ad attribuire a lui una rara pazienza (ed umanità) nel lasciarla

ancora in quella posizione di preminenza. Poiché veniva attaccata proprio per il

suo attenersi alle leggi della recitazione classica, a difenderla furono coloro

che avevano capito i difetti veri della sua arte, una sciagurata lotta che

purtroppo la rafforzò nella decisione di non allontanarsi spontaneamente dalla

compagnia: in questo modo, forse, lei avrebbe ancora potuto salvarsi anche se

non così per la nostra città. Il colpo di grazia fu dato dal fenomeno per lei

penoso che si verificò nel pubblico; cominciò a ridere di lei, da principio con

discrezione, poi apertamente, anche durante la rappresentazione; un effetto che

lui naturalmente aveva esattamente calcolato e cercava di accentuare sempre di

più. Noi eravamo costernati e impotenti. Non avevamo previsto l’impiego

dell’arma crudele della comicità involontaria. Anche se continuava a recitare,

era comunque certo che se ne accorgeva, come del resto, suppongo, fu prima di

noi consapevole dell’ineluttabilità della sua rovina. In quell’epoca fu portato

a termine un edificio di cui s’era già a lungo parlato nella nostra città,

atteso da tutti con grande curiosità. E vero, molti hanno già discusso su questa

costruzione, tuttavia a questo punto, prima di prendere posizione anch’io, debbo

far notare che ancora oggi non saprei spiegare con che mezzi fosse stato

costruito questo nuovo teatro se non fosse emerso un sospetto che non mi sento

di accantonare. Allora però non potevamo ancora prestar fede alla diceria che

metteva l’edificio in relazione con quei circoli senza scrupoli della nostra

città che da sempre miravano solo ad aumentare senza limiti le loro ricchezze, e

contro i quali erano dirette le sollevazioni, da lui, a sua volta, fomentate.

Comunque sia, quest’edificio, che oggi si vorrebbe distrutto, equivaleva a una

bestemmia. Sarebbe tuttavia difficile parlare di questa costruzione, mostruosa

mescolanza di forme e stili, senza riconoscerle una certa grandiosità.

L’edificio non esaltava la vitalità che sa scaturire dalla materia inerte quando

l’arte la trasforma, mirava anzi deliberatamente a dare rilevanza a quanto è

morto, senza tempo e pesantemente immobile. E tutto questo ci era prospettato

con evidenza e impudicizia smodate, senza abbellimento alcuno, con portali di

ferro spesso d’una grandezza smisurata, e poi però anche bassi come cancelli di

prigione. La costruzione pareva essere stata accatastata da goffe mani di

ciclopi, blocchi di marmo senza senso cui erano addossate pesanti colonne senza

scopo, eppure questa era solo apparenza, perché tutto in quell’edificio era

calcolato in funzione di effetti precisi, che miravano a violentare l’individuo

e ad assoggettarlo alla legge del mero arbitrio. Così, per esempio, in contrasto

con quelle masse rozze e quelle brutali proporzioni, c’erano singoli dettagli

che erano stati artigianalmente elaborati con una minuzia tale che si vantava la

loro precisione al decimillesimo di millimetro.

Ancora più spaventoso era l’interno, con la sala del teatro. Si rifaceva al

teatro greco, però la sua forma diventava poi insensata a causa della copertura

stranamente arcuata, tanto che non pareva d’accostarsi a uno spettacolo quando

entravamo in quella sala, ma a una festa nel ventre della terra. E si giunse

così alla catastrofe. Attendemmo in quella circostanza lo spettacolo in preda a

una muta tensione. Stavamo seduti addossati l’uno all’altro, pallidi, a cerchi

sempre più ampi, e fissavamo il sipario che celava il palcoscenico, sipario su

cui una crocefissione era raffigurata come una farsa irridente: e accettammo

anche questo, non come un sacrilegio, ma come arte. Poi cominciò la

rappresentazione. Più tardi si sostenne che quel rivolgimento era stato opera di

forze scatenate dalla strada, però in quella circostanza erano seduti in sala

proprio quei signori della nostra città i quali più degli altri si vantavano

della loro intelligenza e della loro cultura, applaudivano nel direttore del

teatro il più grande artista e rivoluzionario del palcoscenico, trovavano

spiritoso il suo cinismo e non capivano quanto presto quell’individuo si sarebbe

apprestato a irrompere fuori dall’ambito artistico che ammiravano in lui, verso

settori del tutto estranei all’estetica; si aggiunga che, in occasione

dell’apertura del nuovo edificio, prima ancora dell’inizio della

rappresentazione, gli fu anche consegnato dal Capo dello Stato, fra le vibranti

acclamazioni della festosa assemblea, il premio Shakespeare. Non ricordo più

quale dramma classico fosse rappresentato in occasione dell’inaugurazione, il

Faust o l’Amleto, tuttavia, appena si levò il sipario con la crocefissione, ci

apparve qualcosa che vanificò la domanda prima ancora di esser formulata: quel

che avvenne a questo punto sotto i nostri occhi, interrotto spesso dall’applauso

entusiasta del governo, della buona società e dell’élite universitaria non aveva

più nulla in comune con un classico o coll’opera di un altro autore. Una

violenza terribile si servì degli attori come di un vortice che travolge alberi

e case per poi abbandonarli sul terreno. Le voci non avevano suono umano,

sembrava che a parlare fossero delle ombre, e poi però, repentinamente e senza

un momento di raccordo, il tono saliva fino ad assomigliare ai tamburi scatenati

di tribù selvagge. Stavamo seduti nel suo teatro non come esseri umani, ma come

dei. Ci beavamo d’una tragedia che era in realtà la nostra. Poi però apparve

lei, e non la vidi mai tanto sprovveduta, e nemmeno così pura come in quegli

attimi che precedettero la sua morte. Se sul momento il pubblico proruppe in una

risata quando entrò in scena – il suo ingresso era stato tanto accuratamente

calcolato da dover provocare l’effetto d’una battuta oscena -, ben presto la

risata si tramutò in furore. Apparve come una scellerata con la presunzione di

contrapporsi a un potere che tutto stritola, sì, ma perdona anche ogni peccato e

solleva da ogni responsabilità, e compresi che questa era la vera ragione con

cui la folla era stata indotta a rinunciare alla libertà e ad arrendersi al

male, perché colpa ed espiazione esistono soltanto nella libertà. Cominciò a

parlare, e la sua voce fu per loro come un oltraggio alle leggi crudeli in cui

l’uomo crede quando vuole elevarsi al rango d’un dio, abrogando il bene e il

male. Capii l’intenzione di quell’uomo e seppi a quel punto che si era prefisso

di eliminarla davanti agli occhi di tutti e coll’approvazione di tutti. Il suo

piano era perfetto. Aveva spalancato un abisso, e la folla vi si precipitò,

avida di sangue, per invocare sempre nuovi delitti, poiché solo in tal modo si

perviene a quello stato di sconsiderato delirio che consente di non perdersi nel

torpore d’una sconfinata disperazione. Stava come una criminale in mezzo a

individui che si mutavano in belve. Vidi che esistono momenti spaventosi in cui

avviene un rivolgimento mortale per effetto del quale l’innocente deve apparire

colpevole alla folla. E così la nostra città fu pronta a prendere parte al

delitto che equivaleva all’incontenibile trionfo del male. Dal soffitto del

palcoscenico calò un meccanismo. Doveva essere fatto di aste leggere e fili di

metallo, cui erano applicate lame e tenaglie, ma anche di barre d’acciaio dalle

strane articolazioni, collegate fra di loro in maniera tutta particolare, tanto

che il meccanismo pareva simile a un insetto mostruoso e soprannaturale, e ce ne

accorgemmo inoltre solo quando ebbe afferrata e sollevata la donna. Appena

questo avvenne, il pubblico esplose in applausi e acclamazioni senza fine.

Quando poi altre tenaglie si calarono sull’attrice, sollevandola di traverso,

gli spettatori si rotolarono dal ridere. E quando poi le lame cominciarono a

tagliarle le vesti, finché rimase appesa nuda, dalle masse agglutinate si levò

da qualche parte un grido, continuò a trasmettersi con la velocità del pensiero

e s’intensificò all’infinito, continuamente ripreso e passato di bocca in bocca,

finché fu un grido solo: uccidila! e fra il clamore della folla il corpo di lei

fu smembrato dalle lame, la testa cadde in mezzo agli spettatori che si erano

alzati e l’afferrarono, sporcandosi di sangue, e volò poi come una palla

dall’uno all’altro. E come la gente si precipitò fuori dal teatro, ammassandosi,

calpestandosi, sospingendo innanzi la testa, a lunghe catene agitate per le

strade contorte, io lasciai la città in cui sfavillavano già le vivide bandiere

della rivoluzione e dove le persone si avventavano l’una sull’altra come bestie,

attorniate dai “suoi” scherani e, al delinearsi del nuovo giorno, schiacciate

dal “suo” ordine.

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“I fisici” è una commedia (molto amara) del drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt. Pagina a cura di Elena Ossella De Filippo.

Die Physiker – Eine Komödie in zwei Akten (I fisici- una commedia in due atti) fu terminata nel 1961 e vide la luce della scena per la prima volta il 20 febbraio 1962 nello Schauspielhaus di Zurigo, sotto la regia di Kurt Horwitz, Therese Giese nel ruolo di Mathilde von Zahnd e Hans Blech in quello dello scienziato Möbius. Lo stesso Dürrenmatt partecipò alla preparazione della prima. La fama dell’opera fu tale che fu recitata ben presto a Londra (il 9 gennaio 1963) sotto la regia di Peter Brook e a Broadway. Nel 1964 fu addirittura curata un’edizione televisiva della pièce, il cui regista era Fritz Umgelter. Dürrenmatt scrisse una nuova versione del testo teatrale nel 1981 per l’edizione della versione integrale.

La commedia narra di un fisico nucleare, Möbius, che scopre la formula universale del sistema per tutte le scoperte. Onde evitare che i suoi studi finiscano nelle mani sbagliate si fa internare in una casa di cura, Les Cerisiers, fingendosi pazzo. Lo seguono, inscenando la stessa malattia, un agente segreto americano che fa finta di credere di essere Newton, e una spia comunista, che dice di credersi Einstein. Questi intendono impossessarsi della formula segreta, ma, al termine della pièce, l’unica persona che riuscirà a ottenere le carte, sarà la proprietaria della clinica, Mathilde von Zahnd. Costei è l’unica vera folle, che intende assoggettare tutto il mondo con la scoperta di Möbius.

I motivi per cui fu scelto l’argomento della ricerca scientifica hanno radici sia storiche che personali. L’autore aveva partecipato in gioventù alle rappresentazioni del Cabaret Cornichon, sotto la guida di Lesch. Qui lo scrittore affrontò per la prima volta il tema dello scienziato nell’era atomica attraverso il numero Der Erfindner. La scenetta rappresenta uno scienziato e la sua microscopica bomba, capace di distruggere la Terra. Alla detonazione dell’ordigno, però, lo studioso preferisce la salvezza del pianeta, perciò nasconde l’arma potentissima nella scollatura di una signora.
Per di più, nel 1956 il letterato svizzero scrisse una recensione per il libro di Robert Jungk Heller als tausend Sonnen (“più lucente di mille soli” edito in Italia come Gli apprendisti stregoni) per la rivista “Weltwoche” (nel numero del 7 dicembre). Il testo di Jungk, secondo Dürrenmatt, metteva in luce una nuova forma di potere: basata sulla conoscenza di un’élite di scienziati, separata in piccoli gruppi nazionali dai governi guerrafondai. Solo uniti i ricercatori potevano far fronte ai nuovi problemi causati dalla scoperta dell’energia nucleare. Invece gli studiosi furono allontanati e costretti a porre la loro conoscenza nelle mani delle autorità, soprattutto a causa dell’intervento di Hitler. I pochi scienziati che si ribellarono a questo nuovo ordine delle cose agirono con troppo ritardo, mentre tutti gli altri si lasciarono concupire dal “fascino della tecnica” (Dürrenmatt, 1982, p.107-108).

La forma teatrale utilizzata dall’autore per esprimere la paura del mondo, della piega che stava prendendo, è la commedia, perché nel mondo moderno così caotico a causa della politica della superpotenza non è più possibile utilizzare la tragedia. Inoltre la commedia è l’unico mezzo espressivo sulla scena che permette l’impiego del paradosso. L’assurdità si presenta sotto forma di colpi di scena e di casualità come possono essere gli incidenti, le malattie, le crisi. Questi interventi del destino sono utili per dar forma al procedimento di allontanamento della platea, affinché gli astanti possano più facilmente riconoscere che il commediografo ha voluto rappresentare il “peggior risvolto possibile” (Gerhard Knapp, 1980, p.9) dell’evento. La peggiore possibilità è uno sviluppo della tipica Gegenwelt dürrenmattiana, che funge da mondo parallelo e che ha come tramite sul palcoscenico l’ironia. L’utilità della Gegenwelt è che essa sottopone agli spettatori il risultato dell’opera umana nella sua forma più pericolosa. Ciò deve fungere da stimolo a prendere le proprie responsabilità per poter evitare ciò che si teme. Il nonsenso in quest’opera è dato soprattutto dal tentativo del singolo – Möbius – di nascondere quello che è stato ormai scoperto: “ogni tentativo individuale è destinato a fallire”(Dürrenmatt, 1982, p.77). Ma il più grande paradosso Dürrenmatt lo riconosce nel mondo reale dove ci si arma per la pace e per evitare lo sterminio. Si producono ordigni nucleari per salvare l’umanità impietosamente guidata dai politici. Altro strumento dell’autore per il paradosso è il grottesco. L’umorismo è eccessivo, tale da divenire parodia. Anche la rappresentazione fisica si attiene alla regola dell’eccessivo, infatti tutti i personaggi sono fortemente tipizzati grazie al loro aspetto. Inoltre, i personaggi che ricoprono i ruoli più morbosi sono quelli che l’immaginario comune meno accetta come tali: donne, bimbi e anziani.

Per l’autore il grottesco e il paradosso erano mezzi ottimali per giungere al Verfremdungseffekt. Al letterato svizzero premeva anzitutto far comprendere il suo punto di vista allo spettatore, facendolo ragionare lucidamente su ciò che era inscenato. E secondo Dürrenmatt l’opinione pubblica doveva essere assolutamente sensibilizzata su un argomento scottante come le armi di distruzione di massa e il ruolo degli scienziati in questa situazione.

http://www.viaggio-in-germania.de/duerrenmatt-fisici.html

Friedrich Dürrenmatt: Il tunnel

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