Vita di un perdigiorno. Aus dem Leben eines Taugenichts Projekt Gutenberg : Joseph von Eichendorff

Incipit: Vita di un perdigiorno

Joseph von Eichendorff

La ruota del mulino di mio padre aveva ripreso a girare e a rumoreggiare allegra, la neve sgocciolava senza posa dal tetto, i passeri cinguettavano e saltellavano tutt’intorno. Io, seduto sulla soglia, mi stropicciavo gli occhi assonnati. Come si stava bene al tepore del sole! Ma ecco d’un tratto che mio padre uscì di casa. Fin dall’alba aveva trafficato nel mulino. Col berretto da notte sulle ventitré mi apostrofò: «Fannullone! Eccoti di nuovo a stiracchiarti al sole e a sgranchirti fino a rovinarti le ossa, lasciando a me tutto il lavoro. Non ti posso più dar da mangiare a ufo! La primavera è alle porte. Va’ un po’ anche tu per il mondo a guadagnarti il pane». «Sta bene» ribattei. «Se io sono un fannullone, poco importa, me ne andrò per il mondo in cerca di fortuna».

Ne ero lieto, veramente; poco prima era balenata anche a me l’idea di mettermi in viaggio, perché avevo udito il rigogolo, che durante l’autunno e l’inverno pigolava tutto triste alla nostra finestra: «Contadino, prendimi a servizio! Prendimi a servizio!» cinguettare garrulo e superbo sugli alberi, nelle belle giornate di primavera: «Contadino, non ne ho bisogno! Contadino, non ne ho bisogno!». Entrai in casa, staccai dalla parete il violino, che sonavo con grande perizia; mio padre mi dette qualche quattrino come viatico e me ne andai, attraversando il lungo villaggio, animato da una gioia segreta nel vedere i vecchi conoscenti e gli amici che sbucavano a dritta e a manca per recarsi al lavoro, con la vanga e l’aratro, come avevano e avrebbero continuato a fare per tutta la vita, mentre io mi avviavo libero verso il vasto mondo. Lanciai allegri, inorgogliti addii a quei poveracci; debbo dire però che nessuno mi prestò eccessiva attenzione. Sentivo in cuore un’eterna domenica.

Joseph von Eichendorff

Vita di un perdigiorno (tit. or. Aus dem Leben eines Taugenichts, 1826), a cura di Giulio Schiavoni, trad. it. di Lydia Magliano, con le illustrazioni di Franz Stassen, testo tedesco a fronte, Milano, BUR, 1976, 279 pp.

Immagine: Mauga Houba-Hausherr (mauga.wordpress.com)

http://www.germanistica.net/2012/04/27/incipit-vita-di-un-perdigiorno/

L’apologo fiabesco come rifugio dalla realtà

 

VitadiunPerdigiornoRecensione de Vita di un perdigiorno, di Joseph von Eichendorff

Newton, TEN, 1995

La storia narrata da questo breve romanzo, a suo tempo popolarissimo, è quella di un giovane che viaggia, si innamora di una misteriosa bella signora, a causa di questo amore si imbarca in nuove avventure ed alla fine corona il suo sogno d’amore iniziando una nuova vita presumibilmente felice.
Una storia semplice, con qualche piccolo colpo di scena finale ma sin troppo piana. Infatti molte delle recensioni lette su questo libro concordano nel definirlo una sorta fiaba. Più che una fiaba io lo considererei un apologo, pieno di personaggi e luoghi simbolici, paradigmatici. Per primo il protagonista, giovane contemplativo e dedito all’arte (suona il violino e compone canzoni) che per questo viene chiamato Taugenichts (Perdigiorno) dal padre mugnaio, e che un giorno decide di andarsene a scoprire il mondo. Il racconto, quindi, prende l’avvio da un atto di ribellione da parte del protagonista rispetto alla prospettiva di vita borghese che gli si prospetta. Tra lui e la concezione della vita dei genitori c’è la più assoluta incomunicabilità: lui non capisce loro e neppure i compagni che accettano una vita dove è necessario “… andare al lavoro, a vangare, ad arare, come ieri, come l’altro ieri, come sempre….”
Personaggi paradigmatici sono anche i compagni che incontra nel suo viaggio: contesse, pittori, studenti. Il libro poi è pieno di sereni castelli e di arcadici paesaggi, ed un ruolo particolare lo giocano l’Italia e Roma, romanticamente viste come luoghi dell’alterità, del trionfo dell’arte.
Il tema tipicamente romantico del viaggio in Italia, quindi, in questo anomalo Bildungsroman viene trasfigurato nella progressiva acquisizione della consapevolezza che l’arte, l’ozio, la contemplazione e il contatto con la natura sono i veri valori su cui fondare l’esistenza, in contrapposizione ai valori dell’esistenza attiva e dedita all’accumulazione che la nascente società borghese proponeva.
Eichendorff, da buon piccolo nobile, vagheggia una società dove i bisogni materiali non esistono (presumibilmente perché qualcun altro li ha soddisfatti anche per noi) e dove quindi una élite intellettuale può dedicarsi all’ozio creativo.
Il fatto che il romanzo abbia un tono fiabesco fa pensare che l’autore per primo non credesse possibile l’avverarsi di questo vagheggiato mondo, tanto più nei tempi duri in cui si trova a scrivere. L’apologo fiabesco è quindi la forma più ovvia che può assumere questo “manifesto della perduta civiltà feudale”.
C’è un particolare che evidenzia a tutto tondo la concezione della società sottesa dal romanzo. Il protagonista si innamora di colei che crede essere una contessa; quando alla fine la ritrova si accorge di avere scambiato per contessa una ragazza, in realtà nipote del portiere del castello comitale. E’ lei che sposerà, ed è a loro due che i signori del castello elargiranno una piccola tenuta per poter vivere felici. La morale è sin troppo ovvia, a mio avviso: il protagonista, per quanto artista e di nobili sentimenti, sempre figlio di borghesi è, e non può che sposare una sua pari grado sotto l’occhio benevolo dei nobili signori, che si graziano di conceder loro i mezzi di cui vivere.
Ancora una cosa. Ho trovato su questo libro un giudizio molto severo di Thomas Mann. Egli ha scritto che questo libro è “tutt’altro che ben educato”, che non ha “la minima consistenza, la minima ambizione psicologica, né volontà critico-sociale, né rigore intellettuale”: che non è che “sogno, musica, un continuo lasciarsi andare, un suono continuo di un corno da postiglione, voglia di lontananze, voglia di casa, cascate di bengala in un parco notturno, beatitudine un poco folle (…)”. Il grande borghese Mann, testimone e narratore della crisi dei valori borghesi nel primo novecento, non può tollerare che quegli stessi valori fossero messi in discussione sin dai loro albori.

https://delfurore.wordpress.com/2013/08/18/lapologo-fiabesco-come-rifugio-dalla-realta/

Joseph Freiherr von Eichendorff:
Im Abendrot 
Wir sind durch Not und Freude
Gegangen Hand in Hand,
Vom Wandern ruhen wir beide
Nun überm stillen Land.

Rings sich die Täler neigen,
Es dunkelt schon die Luft,
Zwei Lerchen nur noch steigen
Nachträumend in den Duft.

Tritt her und laß sie schwirren,
Bald ist es Schlafenszeit,
Daß wir uns nicht verirren
In dieser Einsamkeit.

O weiter, stiller Friede!
So tief im Abendrot ,
Wie sind wir wandermüde –
Ist das etwa der Tod?  



Al tramonto
Siamo passati, mano nella mano
attraverso gioie e dolori,
Adesso,  riposiamo assieme  
sulla terra silente.


Nell’aria che s’abbruna 
si chinano le valli attorno a noi,
solo due allodole s’innalzano ancora nell’aria profumata,
sogno della notte che verrà.


Avvicinati e lasciale al loro frullo,
presto sarà tempo di dormire,
avvicinati, ché non ci perdiamo 
in questa solitudine.


O vasta quiete silenziosa!
Così profonda nel tramonto!
Come ci ha stancato il vagare –
Sarà forse questa la morte?


Sunset (Im Abendrot), from Four Last Songs, by Richard Strauss .

Vier letzte Lieder : Gundula Janowitz – Kirsten Flagstad “Im Abendrot

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