Carmelo Bene Samuel Beckett – Nostra Signora dei Turchi ; Carmelo Bene i post

Carmelo Bene
Uno straniero nella propria lingua

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Stefano Gallerani

Dei cinque anni che dedicò al cinema, dal 1967 al ’73, Carmelo Bene parlava come della sua parentesi eroica. Là dove, sosteneva – e contrariamente a quanto era avvenuto per il suo lavoro teatrale –, non aveva prestato il fianco, nell’estremismo radicale della sua posizione eccentrica, ad alcun equivoco; tanto più che quell’esperienza si chiuse in poco tempo: lasciando cinque lungometraggi (Nostra Signora dei Turchi, Capricci, Don Giovanni, Salomè e Un Amleto di meno) e un paio di corti (Ventriloquio e Hermitage) che a tutt’oggi producono, in chi li veda per la prima volta, un effetto di completo straniamento – tuttora un reagente contro le convenzioni dell’ormai esausta società dello spettacolo.

Ma quella cinematografica, così circoscritta e dirompente e suicidale, non fu l’unica «vacanza» di bene dalle scene: nel gennaio del ’66, per i tipi di Sugar e nella collana «i giorni» (a fianco di titoli di Lawrence Durrell, Paul Bowles, Samuel Beckett e Lionel Trilling), appariva il romanzo Nostra Signora dei Turchi, macchina polimorfa e summa di gran parte dell’immaginario beniano (senza alcun tradizionale rapporto di derivazione, con lo stesso titolo Bene andò dapprima in scena, nel dicembre dello stesso anno, al Teatro Beat 72 di Roma, per esordire poi, proprio nel cinema, due anni dopo, in pieno, fatidico ’68).

A questo primo testo ne seguiranno, nel tempo, molti altri: tra romanzi abortiti o impossibili (come Credito italiano V.E.R.D.I., la cui difficile reperibilità è ormai leggendaria, al pari di quella della Fine del romanzo di Oreste del Buono), testi saggistici (L’orecchio mancante, La voce di Narciso, Il teatro senza spettacolo e La ricerca impossibile), «altrobiografie» o «autografie» (Sono apparso alla Madonna, Vita di Carmelo Bene), pamphlet (L’Adelchi o della volgarità del politico), drammaturgie (Il rosa e il nero, A boccaperta) e poesie (’l mal de’ fiori, tirato in ben 8000 copie).

Di questo eterogeneo, e insieme estremamente coerente, arsenale di testi – che nel ’95 si assiepa nelle Opere curate dallo stesso Bene nei Classici Bompiani – si occupa Simone Giorgino in una nutrita monografia: empatico e appassionato tentativo di cartografare le migliaia di pagine di questo lascito letterario. Accantonando la produzione saggistica e teatrale, Giorgino sviluppa la sua analisi in tre momenti: nel primo ricostruendo la genealogia «scritta», gli autori e i testi sui quali Bene si è formato e coi quali ha costantemente dialogato (un coro di interlocutori e antagonisti: da Camus a Stirner, da Schopenauer a Joyce – che, confessò una volta Bene, letteralmente gli smontò il cervello…); nel secondo esaminando, fra le opere di narrativa, «soltanto quelle espressamente licenziate dall’autore come “romanzo” o “racconto”», e dunque il trittico costituito da Nostra Signora dei Turchi, Credito Italiano V.E.R.D.I. e Lorenzaccio, sottolineando il passaggio da una sperimentazione, agli inizi, prettamente sintattica e, dal finire degli anni Ottanta, soprattutto lessicale.

Svolgendo quest’ultimo punto Giorgino affronta, nella terza parte, il Carmelo Bene poeta: che alla scrittura in versi attribuisce un autentico primato espressivo, laddove il lavoro sulla voce portato avanti in tutto il suo repertorio teatrale e radiofonico finalmente incontra e innerva la sua traccia scritta («il lavoro sulla parola poetica», scrive Giorgino, «ha puntellato l’intera attività artistica di Bene, il quale non solo ha “dato voce” ai poeti che decideva, di volta in volta, di mettere in scena, anche traducendo personalmente versi altrui in occasione delle tante riscritture teatrali, ma ha accompagnato spesso queste traduzioni e questi “canti” con la stesura di versi originali»). Dai versi giovanili – pubblicati su «L’Incantiere» nel 2009 – all’inedito Leggenda (conservato tra le carte del Fondo Bene presso la Casa dei Teatri di Roma), Giorgino decodifica, per quanto si può, l’incastro dei rimandi e delle suggestioni contenuti nel versificare beniano, autentica vetta di un’estetica negativa che affonda le proprie radici nell’impossibile batailliano.

Sullo sfondo i grandi russi (che Bene stesso interpretò nel celebre spettacolo del ’74 Quattro diversi modi di morire in versi: Majakovskij-Blok-Esenin-Pasternak – poi in «partitura» nel n. 73 degli «appunti dell’ufficio stampa della rai»), i provenzali, Emilio Villa (rispetto al quale sarebbe stato forse auspicabile un maggior approfondimento) e tutta la nomenclatura critica (da Manganaro a Dotto, da Giacché a Grande, da Deleuze a Flaiano) i cui contributi sono puntualmente segnalati nell’esaustiva bibliografia che, in uno al corpo del testo, diventa oggi uno strumento più che utile per chiunque voglia accostarsi all’opera di un autore che nell’arco di più di mezzo secolo ha conservato sempre lo spirito di quando scrisse, alla fine di Sono apparso alla Madonna: «Forse vi ho raccontato poche cose. È quanto m’è riuscito immaginare. Ma la vita che conta non è appunto proprio in quanto ci manca? Quante inezie vi avrei risparmiato, se fossi a questo mondo e Dio esistesse!»

Simone Giorgino
L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene
Milella, 2014, 390 pp., € 25

Carmelo Bene
Nostra Signora dei Turchi
introduzione di Maurizio Grande
Bompiani, 2014, 141 pp., € 9

Sono apparso alla Madonna
postfazione di Piergiorgio Giacché
Bompiani, 2014, 159 pp., € 9

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